lunedì 27 novembre 2017

Vaccini sì, quando necessari - Guido Viale

Un tema di grande attualità


Questa relazione (presentata al convegno di Torino “Costituzione, comunità, diritti”, promosso il 19 novembre 2017) riguarda un tema di grande attualità: il rapporto tra vaccini, integrità e diritti della persona visto da un sociologo. Non sono né medico, né biologo, né giurista. Quindi mi asterrò nella misura del possibile dall’entrata in argomenti tecnici su cui non ho competenze.
Ricerche fasulle
È nota la vicenda dei motori diesel della Volkswagen, truccati con un software che ne riduceva drasticamente le emissioni inquinanti nei test di prova, per poi spararle “a tutto gas” sulle strade in fase di esercizio. Il trucco è stato “scoperto” quando il governo degli Stati uniti ha mobilitato l’Epa, la sua agenzia per l’ambiente, per mettere un freno alla concorrenza delle vetture tedesche; ma probabilmente era noto da tempo a tutti gli addetti al settore. I dirigenti della Volkswagen, il governo tedesco e gli organismi di controllo preposti ad autorizzare la circolazione delle nuove vetture hanno fatto finta di “cadere dal pero”; ma per molti anni avevano mandato avanti questo fondamentale meccanismo di inquinamento delle strade, dell’aria che respiriamo, dei nostri polmoni, del nostro sangue e dei nostri tessuti sempre più spesso aggrediti da tumori di ogni tipo.
È attuale la vicenda del glifosato, l’erbicida più diffuso nel mondo. Lo Iarc di Lione, istituto che si occupa di ricerche sul cancro, che è una succursale dell’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità (agenzia delle Nazioni Unite, che viene però finanziata per l’80 per cento da privati: Big Pharma e fondazioni come quella di Bill Gates) aveva commissionato a un gruppo di studiosi una ricerca sugli effetti di questo erbicida. Ma al momento di renderlo pubblico, il draft sui risultati della ricerca è stato cambiato da una mano ignota, trasformando l’erbicida da cancerogeno a innocuo. Un risultato rafforzato da un giudizio dell’Efsa (l’Autorità europea per la sicurezza degli alimenti) che ha espresso il suo giudizio sulla base di una documentazione fornita dalla Monsanto, cioè dal produttore. Questo ha permesso al Parlamento europeo di autorizzare per altri cinque anni, e forse più, l’avvelenamento dei campi con questo prodotto. Non si tratta ovviamente dei due unici pareri in proposito: la pericolosità del glifosato è documentata da molti altri studi, ma soprattutto dal peggioramento crescente della salute di chi lavora in agricoltura, anche se per gli addetti al settore è difficile separare effetti dei tanti veleni che usano nei loro campi: un processo che ha fatto delle campagne un ambiente più nocivo e letale di quello delle città, invertendo un rapporto – “campagna uguale salute”, “città uguale malattie” – che risale agli albori della civiltà urbana.
I casi di occultamento o travisamento dei risultati della ricerca, ovvero di ricerche fasulle, fatte e commissionate per contraddire evidenze della vita quotidiana sono centinaia: in parte sono dovuti a veri e propri meccanismi di compravendita di tecnici, esperti, scienziati e ricercatori: cioè corruzione. In parte, invece a semplice conformismo: per fare carriera nella scienza e nella ricerca conviene non contraddire teorie e posizioni dominanti. Ma in parte dipendono dal meccanismo di finanziamento dell’Università e della ricerca. Lo Stato vi provvede sempre meno e per mandarle avanti occorre ricorrere ai finanziamenti dei privati; al punto che la vera professionalità di uno scienziato o di un ricercatore non si manifesta tanto nella qualità dei risultati, quanto nell’abilità nel procacciare finanziamenti: l’intendence suivra; cioè il risultato scientifico dipende dai soldi che si mettono insieme.
Sliding doors
Succede un po’ in tutti i campi; ma in quello sanitario, dominato da poche multinazionali straricche e potenti, il condizionamento è certo maggiore. Il meccanismo è poi ancora più perverso perché ad esso vanno ad aggiungersi altri due fattori. Il primo è il fatto che nella manipolazione di elementi e sostanze di origine organica, come è in gran parte il lavoro di ricerca in campo medico e farmacologico, la replicabilità di un esperimento – paradigma della scienza in tutte le sue espressioni – è per lo più scarsa, in quanto difficilmente le sostanze utilizzate nei laboratori possono essere rigorosamente uguali; per cui occorre affidarsi, molto di più che in altri campi, alla buona fede di chi pubblica le sue ricerche. Il secondo è il fatto che la ricerca farmacologica è di fatto finanziata dallo Stato: ma non in maniera diretta, bensì caricandone il costo sul prezzo dei farmaci coperto dal servizio nazionale (che così finanzia anche il costo, non dichiarato, del marketing, che spesso è pura e semplice corruzione dei medici: regali, crociere e finti convegni in cambio di prescrizioni, ecc.). Così le case farmaceutiche dispongono a modo loro dei margini realizzati. Questo meccanismo però non funzionerebbe se alla fine del circuito finanziario non ci fosse una sanzione pubblica da parte degli organismi preposti alla validazione dei prodotti. Nel caso dei farmaci, in Italia, questo organismo è l’Aifa, l’Agenzia del farmaco; balzato all’onore delle cronache per innumerevoli esempi di corruzione (solo una piccola parte dei tanti che verosimilmente non sono stati scoperti) e, attualmente, per lo stretto intreccio tra dirigenti del Ministero, che è l’organo di controllo, l’Agenzia e le aziende farmaceutiche o le loro fondazioni private: un sistema che in Italia si chiama “conflitto di interessi” (e dovrebbe chiamarsi invece coincidenza di interessi), ma che in tutto il mondo è noto invece come sistema delle porte girevoli (sliding doors): personaggi che vengono premiati con incarichi in azienda dopo aver servito con funzioni di controllo in ruoli pubblici. O vice versa.
Sono meccanismi da tener d’occhio quando si parla di vaccini: l’unico “atto medico” al mondo praticato senza alcuna forma di diagnosi. Un atto particolarmente invasivo, più del particolato nei nostri polmoni e nel nostro sangue e più del glifosato in quello che mangiamo.
A cosa servono? Sono pericolosi? Alcune risposte
La legge Lorenzin ne ha resi obbligatori dieci (all’inizio erano 12 + 4 “fortemente consigliati”, da quattro che lo erano prima) per tutti i minori di sedici anni. È una legge varata in ottemperanza a un impegno preso dalla ministra in un incontro della Global Health Security Agenda promossa dal G7 di tre anni fa, che ha fatto dell’Italia il paese capofila per le strategie vaccinali; in questo impegno, la ministra è stata sospinta da un dirigente del Ministero della Salute poi pescato con le mani nel sacco di interessi farmaceutici illeciti. Quest’obbligo ha spinto molti a chiedersi il perché di tutti quei vaccini. A che cosa servono? Non sono pericolosi? Domande che molti, come anche il sottoscritto, non si erano mai posti prima. Così sono diventate chiare, o possono diventare chiare a tutti, alcune cose:
1) si tratta di un esperimento in cui ai minori italiani è stato assegnato il ruolo di cavie, in vista dell’estensione di misure analoghe a tutti i paesi del mondo: dove ci sono mezzi, con il finanziamento dei rispettivi Stati; dove non ci sono, con l’aiuto, temporaneo e sempre revocabile delle fondazioni che finanziano le campagne vaccinali sia attraverso l’OMS che direttamente.
2) i vaccini da rendere obbligatori non sono solo 10, ma, in prospettiva, molti di più; perché le malattie infettive note sono più di cinquanta e le varianti di queste malattie sono forse dieci volte tanto. Un po’ per volta bisognerà arrivare a vaccinarci contro tutte: ovviamente con confezioni pluridosi, come lo sono già oggi il quadrivalente e l’esavalente inflitti anche a chi ne richiederebbe uno solo, perché dalle altre malattie è già stato dichiarato immune.
3) un po’ per volta la misura riguarderà tutta la popolazione e non solo i minori di sedici anni, come già oggi sta succedendo a chi lavora nella scuola o negli ospedali. Se infatti vale il dogma, mai dimostrato, a detta di molti operatori del settore e di numerose evidenze statistiche, della cosiddetta ”immunità di gregge”, tutti si dovranno vaccinare per non mettere a rischio, non solo a scuola o in ospedale, ma sui tram, ai giardinetti, sulle spiagge, al cinema, allo stadio, ecc. la salute di coloro che non possono essere immunizzati. I quali dovranno comunque continuare a vivere tra mille attenzioni, perché i pericoli che li minacciano sono infiniti e non provengono solo dalle persone non vaccinate.
4) queste vaccinazioni, poi, dovranno essere ripetute periodicamente, a distanze comprese tra i quattro e i dieci anni o poco più, perché l’immunità che conferiscono (se la conferiscono; il che non avviene sempre) non è permanente; a differenza dell’immunità naturale ricevuta da chi ha contratto e superato la malattia, che, per quello che riguarda le malattie esantematiche, non solo è permanente, ma, a quanto affermano molti medici sulla base della loro esperienza, si trasmette di madre in figlio per tutti i primi anni di età: fino a che non arriva l’età in cui è opportuno che le si contragga per acquisire a propria volta l’immunizzazione naturale. Mentre chi quell’immunità non l’ha ricevuta attraverso il cordone ombelicale o il latte materno, la deve sì acquisire con il vaccino, ma con una durata limitata; il che espone chi non ha né l’una né l’altra, o ha un’immunizzazione “scaduta”, al rischio di contrarre la malattia nell’età più pericolosa: tra i sedici e i venticinque anni.
5) i vaccini sono pericolosi, sia per gli effetti collaterali che possono avere – spesso assai più pesanti di quelli di una malattia esantematica contratta all’età giusta – sia perché un numero consistente di pediatri e di medici sostiene, sulla base della propria pratica professionale, che dura anche da trenta-quaranta anni, che le persone vaccinate sono più fragili ed esposte alle malattie di quelle non vaccinate. È una tesi che viene contestata dai sostenitori dei vaccini a tutti i costi, perché non è suffragata da analisi statistiche. Il che è vero; ma quelle ricognizioni statistiche non si fanno, nonostante che non siano molto impegnative per chi ha accesso ai dati raccolti dalle Unità sanitarie e, soprattutto, si nega l’accesso anche ai pochi dati disponibili. Per costringere l’Aifa a pubblicare i dati sulle reazioni avverse ai vaccini negli ultimi anni in Italia è dovuto intervenire il Tribunale di Torino. Perché nasconderli? Ma anche così non si riesce a sapere di che tipo e di che gravità siano state le reazioni avverse registrate; che sono comunque solo una piccola parte di quelle intervenute, perché medici e pediatri non sono tenuti a prenderne nota e a registrarle; e molti non hanno nemmeno le cognizioni che potrebbero permettere la connessione, spesso non immediata, tra vaccino e reazione.
6) la IV commissione di inchiesta sull’uranio impoverito, nata per indagare sulle connessione tra carcinomi, per lo più mortali, riconducibili all’esposizione dei militari coinvolti nelle missioni in Bosnia durante la guerra nell’ex Jugoslavia, è arrivata alla conclusione che la somministrazione di un numero di vaccini superiore a cinque (ben al di sotto, quindi, dei dieci prescritti dalla legge Lorenzin) è stata indubitabilmente una delle cause del diffondersi di quelle patologie, anche più dell’esposizione alle radiazioni dell’uranio impoverito, che sicuramente ha giocato la sua parte. Ma su questa inchiesta è calato un silenzio tombale.
7) il punto più controverso è la connessione tra vaccini e autismo. È indubbio che autismo e altri disturbi mentali irreversibili, soprattutto quelli regressivi, che intervengono non alla nascita, ma dopo alcuni mesi o anni di vita, sono in fortissimo aumento; ma chi intende dissociare questo fenomeno dai vaccini sostiene che le cause potrebbero o dovrebbero essere cercate altrove: soprattutto nel crescente inquinamento dell’ambiente e dei cibi. Tutti i sostenitori dei vaccini a tutti i costi citano, anche perché non ne hanno altri a disposizione, il caso Wakefield: il primo medico che ha ipotizzato una connessione tra questi due eventi e che è stato radiato dall’ordine con un’accusa di corruzione per la quale non è mai stato processato e perché i dati su cui basava le sue affermazioni erano stati raccolti in modo irregolare. Nessuno vi dirà però che uno dei coautori della stessa ricerca, colpito dalla stessa sanzione, è stato poi reintegrato (mentre Wakefield non lo è stato perché non ne ha fatto richiesta, avendo trasferito altrove la sua attività); soprattutto perché quella radiazione era stata più il frutto di una campagna orchestrata da alcuni media legati a Big Pharma che la conseguenza di una intenzionale alterazione dei dati. Nessun comunque vi dirà che il CDC (il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie, un’agenzia del governo degli Stati uniti) è stato denunciato al Congresso per aver nascosto e falsificato dati che quella connessione invece la provavano. È l’oggetto del film Vaxed, la cui proiezione è stata impedita al parlamento Europeo, al Senato italiano, nelle sale di Londra e in molti altri posti. Di ricerche su questo tema che portano a conclusioni opposte ce ne sono parecchie e su di esse non mi pronuncio perché non ho le competenze per farlo. Ma è accertato che due additivi presenti in quasi tutti i vaccini per garantire efficacia ai virus depotenziati – il mercurio, ora eliminato, e l’alluminio, ancora largamente utilizzato – possono avere pesanti effetti sul cervello. Anche qui, in mancanza di ricognizioni condotte in modo rigoroso su campioni rappresentativi della popolazione, ci soccorre, oltre alla denuncia di centinaia di genitori che hanno visto i loro figli rovinati, non alla nascita, ma dopo il vaccino, la conferma di molti medici. Questi elementi evidentemente non bastano a “far testo”; ma il rischio di vedere la vita dei propri figli rovinata per sempre è talmente intollerabile che dovrebbe spingere, ma non lo fa, le autorità sanitarie a metter in cantiere una ricerca seria sul tema. E soprattutto un dibattito pubblico e aperto a tutte le voci.
8) ad aprire questo confronto e a rendere edotta tutta la popolazione delle contrapposte posizioni e delle rispettive ragioni miravano le decine e decine di manifestazioni a favore della libera scelta, di cui tre a carattere nazionale, che si sono svolte in Italia a cavallo dell’approvazione della legge Lorenzin; animate da posizioni diverse, che vanno dal rifiuto totale alla richiesta di subordinare la somministrazione dei vaccini al rilascio di un consenso informato, o alla rivendicazione di poter scegliere quali e quanti vaccini accettare sulla base di una esaustiva diagnosi del soggetto e della situazione epidemiologica nella regione interessata.
9) invece ci hanno propinato fino allo sfinimento il prof Roberto Burioni, per assicurarci che lui le cose le sa, che non stanno come dicono coloro che contestano la legge Lorenzin, che lui non ne può discutere con chi non ha studiato, perché “la scienza non è democratica”, e che chi lo contraddice è un “asino ragliante”, espressioni poi riprese nel titolo del suo insulso libro, La congiura dei somari. Burioni evidentemente non sa che gli asini, oltre che dolcissimi, sono animali molto intelligenti e che se “l’asino raglia” è perché, giustamente, “vuol fieno e non vuol paglia”. Lascio a voi l’interpretazione di che cosa sia fieno e che cosa paglia. Nessun confronto diretto con un medico o un biologo che abbia maturato sui vaccini delle posizioni differenti. La“Scienza” di Burioni è la stessa di coloro che si facevano beffe e perseguitavano il dottor Semmelweis quando mostrava loro che lavandosi le mani il numero delle donne che morivano di parto calava drasticamente. Loro erano “La Scienza” e Semmelweis un praticante. Così per Burioni l’esperienza e le osservazioni di centinaia di medici e pediatri che segnalano rischi e danni anche gravi a seguito di vaccini non hanno alcun valore; contano solo gli studi statistici; quelli che non ci sono perché l’Aifa non li fa. Quindi non resta che lui, Burioni, che le cose le ha studiate…
10)  si sostiene che i vaccini costano poco e che le case farmaceutiche guadagnerebbero molto di più con i farmaci per curare le malattie contratte per non essersi vaccinati. Intanto è da dimostrare che senza vaccini ci si ammalerebbe comunque, mentre con i vaccini si resta sani; il che è contestato. Ma va ricordato che in Italia si sta sperimentando un sistema destinato a venir esteso a tutto il mondo, cosa che moltiplica tendenzialmente i relativi guadagni di molte volte. Ma soprattutto che si sta introducendo un meccanismo irreversibile, grazie al quale si avrà sempre più bisogno di vaccini e sempre più di nuovi vaccini. E l’economia insegna che quando si innesta un meccanismo irreversibile poi chi controlla il mercato può fare il bello e il cattivo tempo, soprattutto sui prezzi.
11) a riprova di ciò basti dire che contestualmente al varo della legge Lorenzin sono stati introdotti nel mercato dei vax-bond: prodotti finanziari presentati come “sicuri” perché legati alla diffusione e alla moltiplicazione dei vaccini resi obbligatori, che costituiscono il loro cosiddetto “sottostante”. Così, senza neanche accorgercene, contraiamo, con i nostri corpi, un debito verso le case farmaceutiche che hanno già venduto sul mercato finanziario i proventi che si attendono dalla nostra soggezione.
12) come leva per imporre i vaccini decisi dalla ministra è stata introdotta la minaccia di esclusione dei non vaccinati dalla scuola dell’infanzia; minaccia che non ha potuto essere replicata per la scuola dell’obbligo in quanto in aperta contraddizione con il diritto universale e costituzionale all’istruzione. Così i genitori inadempienti verranno soltanto multati. Ma contestualmente si prospetta la creazione di classi differenziali per gli alunni non vaccinati e contro di essi si è lanciata una vera e propria caccia agli untori. Caccia promossa e sostenuta anche dal prof. Burioni, voce parlante del ministero, che così si è espresso: “In un asilo romano una mamma No Vax che voleva far entrare a tutti i costi il figlio tenuto fuori dalla legge è stata allontanata non tanto dai carabinieri ma dalle altre mamme; questo secondo me è un segno importante perché chi non vaccina i propri figli inizia a essere percepito giustamente come un incivile”.
13) infine, è da almeno quarant’anni che, sulle orme delle ricerche dell’epidemiologo Thomas McKeown, presentate in un libro da me a suo tempo tradotto, è stato dimostrato che, con l’eccezione degli antibiotici, i farmaci, vaccini compresi, hanno avuto ben poco peso nella scomparsa di malattie letali, mentre un ruolo fondamentale, in Occidente, lo hanno avuto l’acqua potabile, le reti fognarie e soprattutto una alimentazione adeguata; il che spiega come mai malattie che da noi erano considerate innocue, ed anzi salutari, come quelle esantematiche, in paesi dove si soffre la fame e la mancanza di acqua potabile e di trattamento dei reflui esse continuino a essere devastanti, come lo erano in Europa e negli Stati uniti quando ancora quegli standard non erano stati raggiunti. Che malattie come il tifo, la poliomielite o il vaiolo, che decenni fa seminavano il terrore anche nei nostri paesi, abbiano cominciato a scomparire in seguito a un declino iniziato ben prima dell’introduzione dei vaccini obbligatori è peraltro comprovato dalle serie statistiche relative alla diffusione nel tempo di questi flagelli. Senza per questo negare che dove la malattia era ancora diffusa, l’obbligo vaccinale abbia avuto comunque effetti diretti positivi.
Vaccini quando necessari
Niente vaccini allora? No. Vaccini quando sono necessari: in tutti i paesi ancora esposti a quei flagelli a causa delle condizioni igieniche e alimentari della popolazione; per tutti coloro che vanno in viaggio in quei paesi; e nei paesi da tempo immuni, uno per volta e solo in presenza di un rischio reale o di una epidemia conclamata – e non inventata come quelle segnalate dalla ministra Lorenzin e avallate dal prof. Burioni. Sempre tenendo conto che la cosiddetta immunità di gregge deve ancora essere dimostrata. Tutto questo per mostrare che la questione dei vaccini non è un aspetto secondario dell’assetto politico, sociale e costituzionale in cui viviamo, ma una manifestazione, non la sola, ma in prospettiva una delle principali, di una spinta a sottomettere gli esseri umani a una medicalizzazione e “chimicizzazione” sistematiche attraverso cui si possono aprire le vie a molte altre forme di intrusione nelle nostre vite, nei nostri corpi e nella nostra psiche; come lo sono già oggi la gestione dei dati relativi a tutti gli aspetti delle nostre vite raccolti, senza che ce ne accorgiamo, e venduti, senza che lo consentiamo, dai grandi gestori mondiali della rete. E come lo è l’inquinamento che viene imposto all’ambiente in cui viviamo e al cibo di cui ci nutriamo da parte delle società che controllano, insieme alla tecnologia e alla ricerca, anche le istituzioni pubbliche dello Stato che dovrebbero difenderci.
Autogoverno

La democrazia intesa come autogoverno, fondato sia sulla partecipazione informata dei cittadini e delle cittadine che sul conflitto contro chi vorrebbe imporci le sue scelte e i suoi interessi grazie al suo potere, che oggi è soprattutto potere finanziario, è l’unica forma di vera democrazia. Ma non è né realizzabile né perseguibile senza schierarsi anche su questa frontiera, che è quella del controllo sui nostri corpi e sulle nostre vite.

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domenica 26 novembre 2017

Le nostre vite sono “cheap” - RotaFixa



















Qualche sera fa è toccato a John. Un ragazzo canadese di ventidue anni, presumibilmente felice di essere venuto a studiare o quel che è in un luogo il cui nome è leggendario nel mondo, ma non certo per i suoi attuali meriti. Un luogo che dovrebbe invece essere evitato e, come la Orano de La peste di Camus, isolata dal resto del mondo per motivi di emergenza sanitaria. Nel nostro caso mentale. L’epidemia di aggressività stradale è in aumento, complice sia la cultura generale, sia l’uso smodato di cocaina, sia la certezza di impunità non dico giuridica ma direttamente dalla riprovazione sociale, strumento di autocontrollo collettivo ormai fortemente ridotto se non svanito.
Chi, come me e molti altri in un numero sempre crescente malgrado tutto, ha scelto di non muoversi con un mezzo a motore, è costantemente a rischio.Ad aggiungere beffa al sempre più probabile danno – fino al danno definitivo e senza alcun ritorno, la morte -, noi siamo percepiti come una perdita irrilevante. Quasi scontata, visto che abbiamo scelto uno stile di vita che io chiamo moderno e che quasi tutti a Roma giudicano al meglio bislaccoSiamo insomma tranquillamente sacrificabili, perché “se l’è cercata”: un po’ come chi è vittima di violenza sessuale perché ha osato questo abbigliamento, quel locale, quell’altra zona, la notte poi “che giri a fare da sola”.

La scorsa settimana ho partecipato a due convegni legati al “mondo bici”. Nel secondo, che riguardava le ricadute economiche del mezzo da qualche anno riscoperto anche qui in Italia -e non certo grazie a quelli che oggi si fanno belli a tavoli da convegno, ma grazie alle decine di migliaia di attivisti sparsi per la penisola subalpina- ho sentito con le mie sventuratissime orecchie il capo della polizia stradale, Roberto Sgalla, stilare la lista delle cose da fare per salvaguardare la vita di chi si sposta in bici. Nell’ordine: “sistema di tracciabilità della bicicletta”, leggasi targa, “obbligo di indumenti riflettenti”, “obbligo di casco (“come a Malta”, ha aggiunto). Ah: ha esordito chiedendo una persecuzione delle bici elettriche, con la scusa che “lo stanno facendo a New York”. Transeat.
Fortunatamente ero stato invitato a intervenire dal moderatore del tavolo, Paolo Gandolfi, un deputato consapevole e intelligente, del Pd. Paolo, prendendo spunto dalla mia breve (dis)avventura come bike manager di Roma, mi ha chiesto quali fossero a mio avviso gli ostacoli amministrativi allo sviluppo della ciclabilità in questa intossicata capitale continentale del sud Europa. Ho avuto quindi l’occasione di ripetere che scontiamo un problema gigantesco di arretratezza culturale da parte degli amministratori, come anche evidenziato dall’intervento della capo della polizia stradale. Ora non ricordo le esatte parole ma il concetto era quello. Poco prima era intervenuta con concetti simili anche la presidente della Fiab, Giulietta Pagliaccio.
Un po’ tutto, ad andare sul più ampio, è arretrato in Italia e ostacola il cambiamento. La percezione collettiva dell’uso della strada è a nostro sfavore, e -oltre alle pubblicità tossiche come quella cartacea qui sotto

–  persino gli algoritmi dei siti di informazione piazzano la pubblicità di auto con regolarità sotto ai pezzi in cui si parla di ciclisti morti in strada. L’ultimo esempio lo posto qui, ed è dovuto all’uccisione di John:

Convegni a pioggia per parlare di bike sharing, bike economy, ciclovie turistiche, alti guaiti per le vittime della strada (che dovrebbero essere definite in realtà vittime della motorizzazione, visto che la strada è solo un supporto aperto al pubblico e per sua natura è inerte) da parte di gente che chiede per favore, per pietà, di non essere uccisa: sono una realtà virtuale. Quella concrete, tangibile, è quella delle morti dovute alla motorizzazione, persino in città dove da decenni il limite di velocità, già abbastanza elevato, sembra ormai essere una banale parte del paesaggio, come una pietra o un cactus.
Se ne esce? Non lo so. Avendo imparato da Noam Chomsky ho una certa sfiducia nei governi ma sono convinto che la pressione di massa è l’unica, esclusiva via d’uscita da una situazione di estremo pericolo generalizzato. Nel nostro caso, un pericolo che non costa nulla mettere in atto. Solo qualche funerale e amen, chi vive si dà pace.
da qui

sabato 25 novembre 2017

Un giro dentro Fico, la Disneyland del cibo a Bologna - Angelo Mastrandrea


L’olandese Randstad è una delle principali agenzie al mondo di lavoro interinale. È finita nel mirino delle proteste studentesche del 13 ottobre 2017 per un progetto intitolato “Un giorno da Fico”. I ragazzi contestavano una delle novità più importanti della legge del governo Renzi sulla Buona scuola: il principio dell’alternanza scuola-lavoro, che prevede l’obbligo per gli studenti dell’ultimo triennio delle superiori di fare un’esperienza formativa – tra le 200 e le 400 ore a seconda che si tratti di un istituto tecnico o di un liceo – in un’azienda, un’istituzione, un’associazione sportiva o di volontariato, perfino in un ordine professionale.
Nell’elenco c’è pure Fico Eataly World, la Fabbrica italiana contadina di Oscar Farinetti – una società partecipata da Eataly World, Coop Alleanza 3.0 e Coop Reno – che aprirà il 15 novembre. La Randstad è finita sul banco degli imputati perché accusata di reclutarle manodopera gratuita.
Per capirne di più chiedo ai diretti interessati. Negli uffici dell’ex Mercato ortofrutticolo alla periferia di Bologna, negano accuse e sospetti. Spiegano che il progetto è della Randstad, si svolgerà nelle scuole e alla fine da loro arriverà solo un pugno di ragazzi, “non più di sette o otto”, e comunque “non verranno a fare i lavapiatti”.
L’amministratrice delegata Tiziana Primori dice che c’è un protocollo “sulla tutela dell’occupazione, la qualità del lavoro e la valorizzazione delle relazioni sindacali” firmato con i sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil e il comune di Bologna, per “favorire la piena regolarità delle condizioni di lavoro, l’agibilità sindacale, il diritto d’assemblea e la trasparenza della filiera delle aziende presenti nel parco”. Fico, spiega, darà lavoro stabile a settecento persone, mentre altre tremila lavoreranno nell’indotto.
Ne parlo con Marta Fana, ricercatrice all’università Sciences Po di Parigi, autrice di Non è lavoro, è sfruttamento. “Bisognerà vedere quante saranno le assunzioni stabili e quanti i contratti di somministrazione, dunque precari”, dice. Fana contesta a Farinetti la “gestione politica” della nascita di Fico: “Perché la regione ha speso 400mila euro per la formazione di persone per le quali non c’è la certezza di assunzione?”. A suo parere, le istituzioni locali, guidate dal Partito democratico, non avrebbero dovuto mettersi al servizio di quello che definisce solo “l’ennesimo centro commerciale”.
Dalla Randstad rendono noti i contenuti dell’accordo con la nuova impresa di Farinetti: i dipendenti della multinazionale olandese gireranno le scuole di tutta Italia per “illustrare ai ragazzi i nuovi trend del mercato del lavoro, guidarli in un tour virtuale di Fico Eataly World e lanciare un project work” sul tema dell’innovazione nella filiera agroalimentare. Il progetto coinvolgerà 20mila studenti, appunto, e prevede 300mila ore di alternanza scuola-lavoro, ma a Fico i ragazzi ci passeranno appena una giornata, per assistere a un convegno sul tema della “Food innovation”, al termine del quale saranno premiate le scuole vincitrici.
Istituzioni, università, entusiasti
Gli studenti non sono andati molto per il sottile, accomunando Fico ad Autogrill e a McDonald’s. Ma alla Fabbrica contadina bolognese respingono anche questi paralleli. Nello staff di Fico molti hanno lavorato a Slow food o hanno studiato all’università di Scienze gastronomiche fondata da Carlo Petrini a Pollenzo, in Piemonte, molti hanno lavorato a Eataly.
L’amministratrice delegata Tiziana Primori arriva invece da Coop adriatica ed è l’anello di congiunzione tra Eataly e il mondo cooperativo. Mi riceve nel suo ufficio, dove campeggia una frase di Italo Calvino: “Se alzi un muro, pensa a cosa lasci fuori”. Su un grande tavolo di legno apre una mappa del progetto e spiega: “Questo non è un luogo dove si viene esclusivamente per comprare o per mangiare, ma per conoscere”.
I visitatori, dice, potranno seguire l’intera filiera del prodotto. Prima di sedersi a tavola per mangiare un piatto di pasta, per esempio, saranno condotti da un “ambasciatore del gusto” a vedere un campo di grano, la macinazione in uno dei due mulini a pietra e la nascita di una tagliatella di Campofilone in uno dei tre pastifici. A supervisionare il tutto saranno le facoltà di veterinaria e agraria dell’università di Bologna.
A Bologna tutti i poteri cittadini, istituzionali e privati, sono in qualche misura coinvolti. Il comune ci ha messo la struttura, che varrebbe 55 milioni di euro. Per la ristrutturazione sono stati raccolti 75 milioni di euro di fondi privati: 15 milioni sono arrivati dal sistema cooperativo, dieci da imprenditori locali e altri 50 da casse previdenziali professionali.
Al progetto partecipano centocinquanta imprenditori grandi e piccoli (da piccoli artigiani a grandi consorzi come quello del Parmigiano reggiano), i ministeri dell’ambiente e dell’agricoltura, l’associazione dei borghi più belli d’Italia e l’Ente nazionale italiano per il turismo (Enit), Slow food, le università di Bologna e quella di Napoli, la Suor Orsola Benincasa .
Nelle ambizioni dei fondatori, la “Disneyland del cibo”, com’è stata soprannominata, dovrebbe attirare quattro milioni di visitatori il primo anno e arrivare a sei milioni nel giro di tre. Il sindaco Virginio Merola è così entusiasta che è andato a Manhattan per presentarla alla stampa americana sulla terrazza del Flatiron building, il grattacielo all’incrocio tra Broadway e la Fifth avenue che oggi ospita Eataly New York. Per portare i turisti che immagina diretti a frotte verso la periferia bolognese, ha annunciato un servizio di bus elettrici.
Dentro il parco
Mi portano a visitare la struttura: centomila metri quadrati, di cui 80mila coperti, percorribile a piedi o su piste ciclabili con l’immancabile carrello della spesa. Ci sono due ettari di campi e stalle con più di duecento animali, dal maiale calabrese alla pecora di Altamura, e duemila cultivar. Solo un piccolo agrumeto è coperto, per ragioni climatiche.
All’interno, 40 fabbriche contadine producono carni, pesce, pasta, formaggi e dolci. C’è anche una torrefazione del caffè. A ricordare che siamo a Bologna ci pensano una fabbrica di Grana Padano e un intero padiglione dedicato alla mortadella. Al centro ci sono un auditorium, un teatro e un cinema che sarà gestito dalla Cineteca di Bologna.
Qui, fino all’altro ieri, sorgeva il Centro agroalimentare di Bologna (Caab), nato negli anni novanta ma progettato nei settanta. Il presidente era Andrea Segré, ex professore di politica agraria all’università di Bologna e ideatore del Last minute market, un mercato nato per recuperare e riciclare i prodotti invenduti. A quattro mesi dalla nomina, capito che il Caab languiva e non avrebbe avuto futuro, Segré aveva contattato Farinetti “per sviluppare l’idea del parco agroalimentare che da anni mi frullava nella testa”.
Era il novembre del 2012 e, ora che tutto si è realizzato, sarà lui a presiedere la fondazione Fico, che dovrà promuovere programmi di “cultura della sostenibilità economica, sociale, ambientale ed alimentare”.
Il comitato scientifico, presieduto dall’europarlamentare Paolo De Castro, ex ministro delle politiche agricole nei governi D’Alema e Prodi, ha già messo in cantiere le prime iniziative: una giornata sulla dieta mediterranea e la creazione di un frutteto della biodiversità.
L’architetto ferrarese Thomas Bartoli ha rimesso a nuovo la struttura, salvando pure un pezzo del vecchio mercato, che non chiuderà del tutto. Bartoli è un fedelissimo del fondatore di Eataly. Mi spiega di aver mantenuto la vecchia architettura industriale, ma con l’obiettivo di creare una “sensazione contadina”, creando un continuum tra l’interno e i campi, e che il suo progetto è a “cemento zero”, anzi ha recuperato due ettari “per aumentare la superficie verde”. Ma, si schernisce, “l’idea di Fico è talmente forte che la realizzazione architettonica è passata in secondo piano”.
Una Disneyland del cibo
Tutto bene, dunque? Fico sarà un esempio dell’Italia che riparte da cibo e turismo, cioè due dei suoi punti di forza? O, come sostengono i critici, è solo un modo furbo per capitalizzare la tendenza a mangiar bene, pulito e sano, come sostiene un fortunato slogan coniato dal fondatore di Slow food, Carlo Petrini?
In un libro intitolato La danza delle mozzarelle, lo scrittore Wolf Bukowski prende di mira il modello di narrazione del cibo che parte da Slow food, e prima ancora dal Gambero rosso, per finire a Coop, a Eataly e alla sua ultima evoluzione: la Fabbrica contadina di Bologna, appunto. “Fico non è solo un parco giochi per rudi cooperatori e costruttori edili, ma è proprio una Disneyland, un mondo dove fantasia e realtà del capitale si rispecchiano reciprocamente”, scrive Bukowski, che attacca frontalmente l’ideologia di Renzi e Farinetti, improntata al marketing e all’ottimismo, in politica come al supermercato, in cui il conflitto è visto come qualcosa di anormale.
Bukowski vede in Fico la saldatura tra il pensiero di Farinetti e il capitalismo emiliano di derivazione postcomunista: una sorta di socialdemocrazia economica in una regione dove il pubblico governa e le cooperative rosse prosperano. Definisce Bologna “la città coop”, portando come esempio il fatto che nel giro di poche centinaia di metri, in pieno centro cittadino, sono nati negli ultimi anni il Mercato di mezzo, che è stato voluto dall’amministratrice delegata di Fico, Primori, e può essere considerato un prototipo del Parco, e una libreria Coop con annesso punto vendita Eataly. Tutto attorno, una teoria di super e ipermercati Coop.
I due alleati
Oscar Farinetti ci scherza, ma si intuisce che non gli va di essere contestato sia da destra sia da sinistra, di essere dipinto come un compagno e allo stesso tempo come una specie di Berlusconi nei cui negozi il quarto stato marcia con i sacchetti della spesa, come mostrava qualche tempo fa una parodia del celebre dipinto di Pellizza da Volpedo esposta all’interno di Eataly Roma. Al contrario, ci tiene a mostrare di conoscere i suoi dipendenti uno per uno. All’ingresso dell’ex Air terminal vicino alla stazione Ostiense, a Roma, si compiace dei clienti che lo avvicinano e della sua popolarità. Stringe mani e parla della qualità dei prodotti e di come diffonderli ancora di più.
Da quando quelli con il marchio Slow food sono finiti sugli scaffali di Eataly, la loro diffusione è decuplicata. La richiesta di collaborazione è arrivata pure per Fico, e dall’associazione di Petrini hanno risposto sì, pur mantenendo uno sguardo critico.
Ne parlo con Carlo Petrini, l’uomo incoronato da Time tra gli “eroi del nostro tempo”, in quanto guru di una filosofia e di un movimento nel frattempo divenuti globali. A suo avviso il problema, a questo punto, è di “governare il limite”. Spiega che qualsiasi produzione, se supera una certa soglia, diventa “invasiva”, pur se buona, pulita e giusta. Il fondatore di Slow food ritiene invece che si debba evitare il “rivendicazionismo sui prezzi”, altra critica frequente. A suo parere va bene che un alimento di qualità costi di più se tutti sono pagati meglio, dal contadino al trasportatore.
Farinetti concorda su quest’ultimo punto. Spiega che “il 15 per cento di quello che vendiamo lo produciamo noi, il resto arriva da piccoli, medi e grandi produttori”, selezionati da un gruppo di giovani provenienti dall’università di Pollenzo e spediti in giro per l’Italia. Accorciando la filiera, dice, “riusciamo a pagare la carne il 31 per cento in più e a venderla a un prezzo decente”.
Sulla questione della produzione ritiene invece che ci siano margini ulteriori di crescita. “In Italia ci sono 14 milioni di ettari di terreni coltivati, negli anni ottanta erano 19, anche se oggi si produce di più”, dice. Vuol dire che l’agricoltura di qualità (convenzionale a residuo zero, biologica, biodinamica, simbiotica) può svilupparsi ancora molto e puntare al mercato italiano (tuttora gastronomicamente poco educato a dispetto delle apparenze) e soprattutto a quello estero.
È su quest’ultimo punto che il patròn di Eataly ha trovato l’intesa con Coop Alleanza 3.0. Sebastiano Sardo, che ha selezionato i produttori del neonato Parco agroalimentare, dice che l’obiettivo è “creare una piattaforma dei prodotti italiani da esportare” per contrastare i cosiddetti italian sounding, il mercato dei prodotti venduti come italiani ma che non lo sono. Secondo i dati dell’Assocamerestero, l’associazione che raggruppa le 78 camere di commercio italiane all’estero, l’italian sounding ha un giro d’affari di 54 miliardi di euro, mentre l’ industria alimentare italiana si aggira sui 132.
L’accusa di monopolio
A opporsi a questo clima di consenso generale ed entusiasmo diffuso sono stati gli anarchici e gli antagonisti che il 12 dicembre 2016, mentre nell’aula magna dell’università di Bologna si presentava il progetto, hanno lanciato letame e caramelle a forma di vermi contro una coop e una pizzeria biologica di Alce Nero. Quel che contestavano era la grande illusione denunciata da Wolf Bukowski: pensare che si possa trasformare la società educandola a fare la spesa e a cucinare in maniera corretta.
I contestatori ritengono che nei padiglioni dell’ex mercato ortofrutticolo il renzismo di Farinetti si saldi con gli affari delle coop, creando un monopolio di fatto nella distribuzione e nel consumo di cibo.
Gli anelli istituzionali di congiunzione sarebbero il sindaco di Bologna Virginio Merola, già nel mirino per gli sgomberi di spazi occupati e centri sociali, e il ministro del lavoro Giuliano Poletti, ex presidente di Legacoop e ideatore insieme al governo di Matteo Renzi del Jobs act. Questo contribuisce a spiegare le proteste studentesche e lo scetticismo di un pezzo di sinistra radicale.
Al fondatore di Eataly si imputa di essere diventato il “braccio imprenditoriale di Slow food” e non gli si perdona l’infatuazione per Matteo Renzi, culminata nella partecipazione alle manifestazioni organizzate dal segretario del Pd all’ex stazione ferroviaria fiorentina della Leopolda.
La prima volta è stata nel 2012, quando ha detto che “la politica è come la maionese impazzita e Renzi vuole rifarla da zero”. Nel 2013 l’allora sindaco di Firenze ha tagliato il nastro di Eataly Firenze e nel 2014 l’ha accolto come “l’amico Oscar”. Lui ha ricambiato dimostrando sintonia con lo spirito della Leopolda. “Questo è un posto dove ci si lamenta poco, mentre ciascuno esprime con sintesi le proprie idee di soluzione”, ha dichiarato a La Stampa.
Un anno fa, alla vigilia del referendum costituzionale del 4 dicembre che è costato le dimissioni a Renzi, fiutando il clima sfavorevole ha affermato: “Dobbiamo tornare a essere simpatici”. Un anno dopo, appare più disincantato ma non ha cambiato opinione. “Renzi è stato tradito dal suo carattere, però è onesto”, dice. Nel frattempo, a inaugurare Fico è stato invitato il più mite Paolo Gentiloni.

venerdì 24 novembre 2017

Non parliamo di cibo – Wolf Bukowski


È il decimo compleanno di Eataly. Per festeggiarlo non parliamo di cibo. Non nominiamo neppure il nuovo Spaghetto Eataly, “cibo del futuro” secondo La Stampa, “servito in tutti i loro ristoranti” a partire dal giorno dell’anniversario. “La ricetta è semplice: pasta con pomodorini datterino condita a crudo con olio extravergine. La novità è non cuocere più la salsa, per assaporare meglio «l’essenza degli ingredienti»” (27/01/2017).  Il motto del piatto, declamato dal menù, avverte: “è difficile essere semplici”; il prezzo è 8 euro e 50 centesimi.
Non parliamo degli spaghetti, prodotti dal pastificio Afeltra (proprietà di Farinetti), né dei datterini di Finagricola, cooperativa che Il Mattino del 20 ottobre 2014 definisce “Fiat del Sud” nonché “impero agricolo a Battipaglia” con numeri “da orgoglio nazionale”. (Com’è pure quella storia del piccolo produttore?) 
Non parliamo del vino, e tantomeno del Vino Libero. La sua (parziale) libertà da solfiti era pubblicizzata da Eataly con tanta… libertà, da averle procurato il fastidio di un provvedimento dell’Antitrust: “l’utilizzo dell’espressione ‘vino libero’ […] in mancanza di ulteriori specificazioni, lascia erroneamente intendere che il vino promosso in vendita sia totalmente libero da sostanze chimiche, inducendo in errore il consumatore circa le effettive caratteristiche del vino e il reale contenuto dei solfiti in esso presenti” (Autorità garante della concorrenza e del mercato, provvedimento n. 25980 del 13 aprile 2016). 
Solfiti o meno, il Vino Libero di cui non parliamo è commercializzato da Fontanafredda srl, azienda che Farinetti ha comprato dalla Fondazione Monte Paschi di Siena in due diverse tranches, nel 2008 e nel 2012.  
Nel 2014, dopo alcune domande insistenti di una giornalista televisiva sulle condizioni di lavoro in Eataly, Fontanafredda si mobilita e raccoglie, in difesa del padrone, le firme dei dipendenti. Su www.vinolibero.it si trova il link al video di quella che viene chiamata “aggressione”: l’intervistatrice ripete le proprie domande a un Farinetti che non risponde sul punto, dà sulla voce e si sbraccia con movimenti che trasudano, quelli sì, aggressività trattenuta. 
I sindacati gialli colgono l’occasione per esibire canina fedeltà: “UILA-UIL respinge sindacalmente questi metodi e non può che dire bene di Fontanafredda […] Ogni giorno, nei nostri uffici, affrontiamo situazioni davvero drammatiche e, proprio per questo motivo, riteniamo che quello che è avvenuto sia un fatto gravissimo.” FAI-CISL rilancia, proponendo una campagna aziendalsindacale di promozione: “Episodi come quello verificatosi martedì fanno male all’azienda e, a ricaduta, ai lavoratori. Dobbiamo tutti insieme ribaltare la situazione e dare eco nazionale alla vicenda”. 
Ecco, non parliamo di tutto questo, ma solo di mattoni. Immobili. Real Estate. Soldi con fondamenta. 
È dalla giunta torinese che Eataly ottiene l’immobile per il suo primo store: l’ex stabilimento Carpano, al Lingotto. Sindaco è Chiamparino, e la città si sta preparando alle Olimpiadi invernali – una macchina di distruzione di territorio e denaro pubblico, degno antecedente dell’Expo milanese. Il bando comunale per l’assegnazione dell’immobile vede un solo partecipante: Eataly. Quello che l’azienda vi realizzerà, e che aprirà nel 2007, non sarà solo un ristorante, e neppure un supermercato di lusso, ma un “parco enogastronomico” – qualsiasi cosa ciò voglia, o non voglia, dire. In cambio della ristrutturazione il canone di affitto è zero, e la concessione dura sessant’anni. 
Analoghe sintonie col potere politico, negli anni successivi, si concretizzano a Bologna in due diversi edifici di proprietà pubblica (un ex cinema e un ex mercato alimentare, entrambi in pieno centro), e a Firenze. Dove, a fronte di promesse occupazionali subito disattese, Farinetti ottiene dal comune il cambio di destinazione d’uso dell’immobile. Sindaco, allora, è Matteo Renzi. 
A Bari, nel 2013, la “licenza di commercio più veloce del mondo” viene rilasciata a Eataly dal sindaco Emiliano, oggi sfidante di Renzi e leader di piddini che fingono di essere un po’ meno di destra degli altri. Forse è in quel momento, diciamo attorno alla metà dei dieci anni che festeggiamo, che matura il salto di qualità. Eataly è risultata utile agli amministratori per valorizzare un edificio, o una zona cittadina, contribuendo così alla speculazione immobiliare, vera tipicità italiana (altro che spaghetti col pomodorino). Perché, allora, non coinvolgerla direttamente in trasformazioni urbane in grande stile?
La prima è Expo 2015, grande eventopera che sblocca la costruzione di autostrade inutili e apre alla cementificazione di terreni non ancora impermeabilizzati, consegnando le scelte urbanistiche ai privati – dopo aver drenato soldi pubblici in quantità impressionante. La seconda è quella che cresce a Bologna attorno a Fico (Fabbrica italiana contadina), expo eterno che aprirà il 4 ottobre 2017 in immobili del valore di 55 milioni di euro, concessi dal Comune per 40 anni a Farinetti, Coop e soci. Abbiamo promesso di non parlare di cibo, quindi non evochiamo neppure la prospettiva che le classi delle elementari, invece di andare in una fattoria, in una cantina o in laboratorio di pasta fresca… siano educate all’alimentazione nella Disneyland del cibo (così chiamavano il parco i promotori stessi, prima di avvedersi del ridicolo). Prospettiva orribile ma vera e incombente: Fico non è ancora aperto, e già gli istituti di due regioni (Emilia Romagna e Campania) possono partecipare ai concorsi “Aspettando FICO… nella scuole”. 
No, non diciamo altro: accenniamo piuttosto ai terreni che aumentano il proprio valore per la prossimità al Fico, alla contemporanea riduzione dello stock di edilizia residenziale pubblica nel quartiere popolare lì accanto, a progetti che si alternano veloci come i frutti sulla bobina di una slot machine ma che sono tutti, uniformemente, grigio cemento. 
Cemento che cala su terreni liberi, in alcuni casi ancora coltivati. Un quartierino nuovo di zecca; no, piuttosto un centro commerciale, un parco divertimenti (sì, un altro!); oppure un hotel. 
E ancora: ogni allargamento di strada, autostrada, tangenziale ormai da anni, a Bologna, è motivata dal Fico. E mentre tutto precipita in un (in)gorgo di mobilità tossica e di malta cementizia, i ragazzi delle scuole cosa impareranno al Fico? La “sostenibilità”. Già, certo. Avevate dubbi? 
Il feticcio, il pretesto del cibo trasforma edifici, poi città, e Farinetti è il suo frontman e ideologo. Ma non basta. Il recente accordo tra Fico e l’Enit, ente governativo di promozione del turismo, consentirà “il consolidamento del Brand Italia”, la diffusione del “modello di lifestyle italiano” e la promozione dell'”italianità nel mondo”. (Comunicato stampa ENIT del 15/2/2017). 
Tradotto dal fuffese, significa che la prospettiva dei farinettiani è di porre il paese intero a servizio del turismo incoming e dell’export agroalimentare. E questo implica: salari bassi, città che espellono gli  abitanti incompatibili con l’arredo dei migliori caffè, cemento quale conseguenza inevitabile, infrastrutture a misura di ricchi turisti e non di pendolari modesti, imposizione del decoro tramite l’uso reiterato e generoso del manganello. Ecco dunque il menù di compleanno di Eataly, e dell’Eatalya intera. I festeggiamenti si profilano eterni. A meno che non vi si ponga termine, per dare inizio a una miglior festa.

giovedì 23 novembre 2017

The Fico Show e il pifferaio magico Oscar Farinetti: grazie Melinda e un po’ di info utili - Catia Sulpizi

Avete presente la scena finale del film The Truman Show?

Quando Christof (Il Regista che arricchiva il suo prestigio sulla pelle del povero Truman) si rende conto che ormai Truman ha scoperto la verità ed è disposto anche a morire pur di far cessare la farsa, decide di interrompere la tempesta e, parlandogli direttamente dal cielo della scenografia televisiva, cerca di convincerlo che la finta vita del colorato set televisivo è migliore e più vera di quella grigia della vita reale?
Quando Truman, non cadendo nella tentazione sceglie la cruda verità e salutando scherzosamente con un inchino il suo pubblico «Casomai non vi rivedessi… buon pomeriggio, buonasera e buonanotte!», si avvia determinato a scoprire la verità?
Questo è ciò che ho provato dopo aver partecipato all’anteprima di Fico: un traboccante bisogno di Vero.
Tutto quel cibo patinato, ben confezionato, frutta e verdura dai colori fluorescenti, quell’idea di serra come il meglio che ti potesse capitare nella vita, fabbriche artigianali contadine dove il contadino assume i connotati di un broker più che di un uomo che “puzza” di fatica e soprattutto la totale assenza di profumi del cibo in un posto che vuole essere la meraviglia dell’agroalimentare italiano mi è sembrato veramente un po’ troppo come forzatura per dichiarare l’eccellenza italiana.



Non a caso tempo utile di fuggire sono andata a riprendere fiato dentro l’Osteria la Bottega dove al contrario tutto trasuda di autentico.
E mentre inebrio l’olfatto con la mortadella Pasquini, avvolta in un velo di malinconia per la recente chiusura del salumificio, riunisco le informazioni acquisite durante la visita al colosso e penso per rimanere in tema di maiali “le perle ai porci”, ci è stata data l’opportunità di fare una Grande Cosa Giusta e noi ci siamo ridotti a fare semplicemente una Grande Cosa.
Perché che Fico sia Grande questo è fuori dubbio.
Ma al posto della parola Cosa che ci mettiamo?
Una Grande Crescita per Bologna.
Le parole di Farinetti non lasciano dubbi a tal proposito “L’obiettivo è quello di creare un luogo che attragga 5 milioni di persone, se va male, l’Italia, come meta turistica nel mondo, è prima tra i desideri ma quinta nei numeri. Fico dovrà essere quello che in Francia è il Louvre: qui si deve capire qual è l’arte italiana“.
Con questi numeri le camere vuote degli alberghi, i taxi inattivi e la disoccupazione divengono un miraggio, il prestigio della città aumenta e tutti vissero felici e contenti.
Sul “tutti” mi riservo, ma certo sarebbe stato utile per evitare ai bolognesi la sensazione del “tu vieni a fare il padrone a casa mia” che Fico qualcosa di Bologna la raccontasse al suo interno, dal momento che sei sempre tu Farinetti a dichiarare nella scelta della città “Bologna è considerata una delle capitali gastronomiche d’Italia celebrata da secoli per la sua tradizione culinaria ed enologica, tanto da essere soprannominata “la dotta e la grassa”.
Lo spazio c’era non farlo è scortesia
Una Grande Impresa.
Ma quale Grande! Grandissima, immensa, imponente, smisurata.
FICO Eataly World è il più grande parco agroalimentare del mondo:10 ettari
Fabbrica Italiana Contadina racchiude la meraviglia della biodiversità italiana attraverso:
2  ETTARI di campi e stalle all’aria aperta
8  ETTARI coperti con 40 fabbriche, oltre 45 luoghi ristoro o botteghe e mercato
Aree dedicate allo sport, ai bimbi, alla lettura e ai servizi
6 aule didattiche,
6 grandi “giostre” educative, teatro e cinema
Un centro congressi modulabile da 50 a 1000 persone
Una Fondazione.
Seppur tutto questo nella scelta architettonica e degli arredi non racconti nulla di nuovo (pardonnez-moi mi ero per un attimo dimenticata del piano-cottura ovvero il pianoforte che può essere anche cucina), non si colloca in una scelta stilistica e tantomeno è espressione di una identità ragionata e lungimirante, non sei “green” non sei glamour, non sei futuristico, non sei lussuoso, di certo non sei per la cura del dettaglio, se non fosse per qualche bottega e qualche ristoro che ha dato una buona sterzata nell’allestimento della sua area, per me sei un certo commerciale del cibo. Grande però!.
Riguardo la scelta della sede ci sarebbe poi sempre da chiarire quella questione dell’inceneritore che produce cadmio in quantità di gran lunga superiore alle norme consentite che sorge proprio accanto e che, come espresso da Greenstyle, secondo gli oncologi dell’Associazione Nazionale Medicina Democratica, sviluppa la possibilità di un aumento di malattie tumorali o di aborti spontanei, ma sicuramente tutto il personale di Fico sarà stato messo a conoscenza della possibilità.
Una Grande Idea.
Questo è innegabile, una Grande Idea.
Non a caso in molti sono scesi in campo per attuarla, soldi pubblici e privati, fondazioni, una struttura pubblica il cui recupero, come dichiarato dalla Dott.ssa Primori, sarebbe valso la cifra di 100 milioni di Euro, certe scelte si fanno o per una Grande Idea o per Grandi Interessi.
Per fortuna “noi” l’abbiamo fatte per una Grande Idea.
Incoerente e Incompleta mi permetto la presunzione di aggiungere.
Incoerente:
Gia sull’uscio della porta d’ingresso ho il primo sentore, dove un cartellone recita quello che dovrebbe essere il payoff del tuo essere: “In Europa ci sono più di 1200 varietà di mele…, 1000 in Italia e 200 nel resto d’Europa, per questo abbiamo fatto Fico, Grazie Melinda”
Qualcosa non torna, al consumatore medio o al bambino che legge in maniera semplice che informazione vuoi dare? Che Melinda da sola fa 1000 varietà di mele? Che Melinda è la prescelta poiché è quella che le fa più buone? O che i restanti dei 1000 sono degli sfigati con le mani troppo sporche di terra per entrare nel super Fico?
Perché anche qui lo spazio (e i soldi) per farli stare non dico tutti, ma i meritevoli di grado c’era; è la volontà che a quanto pare è stranamente mancata.
E questa scelta è ancor più bizzarra se si analizza il core business di Fico dove le due parole più ricorrenti sono educazione ed eccellenza.
Educazione che richiama formazione.
Eccellenza che richiama educazione alla qualità.
Ampi spazi per la didattica, per le scuole, ci sono le giostre formative, le fattorie didattiche, il tutto è stato pensato per dar risalto al ciclo produttivo, alla filiera, caro consumatore da oggi non solo avrai l’opportunità di comprare l’eccellenza italiana come fin oggi è stato con Eataly, ma potrai guardare con i tuoi occhi, capire con i tuoi sensori come si produce l’eccellenza italiana.
Devo ammettere che la parte strutturale della produzione, oltre ad essere ben sviluppata è una inedita opportunità di conoscenza.
Ma quello che emerge, anche qui è la volontà non di raccontare il Vero, ma la Favola.
La Favola del fantastico mondo di Farinetti.
Dove tutto è perfetto, standardizzato, senza problemi di cambiamenti climatici, di siccità, di stagionalità, di costi di produzione, di manodopera.
Le stalle perfette, gli animali felici, i processi produttivi impeccabili, ad un certo punto credo di aver visto anche “Heidi che correva felice sui prati”, lo spazio destinato alla mostra del prodotto tirato a lucido, ma poi non chiudi il cerchio o meglio sei coeso nella scelta del prodotto che rappresenta quel ciclo produttivo.
Mi spiace non avrai mai il mio cervello o quello di mio figlio per lobomizzarci e convincerci che l’eccellenza del pollo italiano è Amadori con tanto di panino con cotoletta e Ketchup!
Tu Fico che vuoi fare formazione non pensi che sia più giusto raccontare le razze avicole, magari quelle autoctone, spiegare il loro rischio estinzione e soprattutto dare palcoscenico a chi le alleva con profonda difficoltà per smorzare proprio questo fenomeno di massificazione della scelta?
In fondo anche la scelta imprenditoriale basata sul modello Montano con il Mercato Centrale, dove le botteghe non hanno costi di affitto, bensì riconoscono un fee (30% se non erro nel caso Fico) al beneficiario poteva permettere l’ingresso veramente a molti meritevoli dei soliti Ignoti e invece Fico ha scelto Amadori per rappresentare l’eccellenza.
Dicevamo incompleta.
Per chi è Fico?
Chi sono questi 5 milioni di visitatori?
Quanto costa ad una famiglia visitare Fico?
Tour di visita degli spazi: 1 ora 15 euro a persona.
Giostre per fare formazione e didattica indispensabili per capirci qualcosa: 10 euro a persona.
Corso, workshop, laboratorio (diversamente che siamo venuti a fare se non facciamo nulla): dai 20 euroai 65 euro per fare con Carpigiani il gelato artigianale in 1 ora e mezza.
E i bimbi?
Ti pare che con quello che stanno spendendo i genitori non ci sia una ludoteca attrezzata dove lasciarli a divertire e ad imparare (qui bastava copiare da Ikea!)?
Certo AgriBottega ti aspetta nella sua officina della creatività per dare voce all’arte che c’è dentro ogni bambino: 20 euro a bambino per 2 ore.
La fame incalza, di certo nessuno si è portato i panini da casa, via libera alla scelta che prevede l’eccellenza dell’offerta (non a caso Rossopomodoro per la pizza) e dei prezzi intuisco per linearità (perchè di quelli malgrado abbia più volte chiesto nessuno mi ha saputo dire).
Ultimo giro e si torna a casa, naturalmente non prima di aver bevuto un caffè Lavazza, ed aver acquistato il pollo Amadori, il panettone Balocco, il pomodoro Murri o il tartufo Urbani.
Quando ti ricapita!!!.
A conti fatti la spesa è alta, non ho abbastanza elementi per dire se cara o costosa, ma di sicuro è alta, la proposta formativa non è per tutti i bambini o per tutti i consumatori, ma per quelli che se lo possono permettere.
Come mai dovrebbe essere la cultura.
Una Grande Opportunità.
Si certo per Far…inetti!