mercoledì 31 luglio 2013

gli sms uccidono

Fino a qualche anno fa, la vera minaccia era la bottiglia. Oggi, nell'era del web 2.0, coerentemente anche le cause di morte tra gli adolescenti sono cambiate. E non si muore più (solo) per un bicchiere di troppo ma per un sms di troppo, digitato magari mentre i pensieri corrono più veloci dell'auto, tra una correzione del t9 e una marcia da cambiare, mentre le altre auto sfrecciano tutto intorno, senza dar tempo al tempo.
La pessima abitudine di inviare sms mentre si guida, secondo una ricerca del Cohen Children's Medical Center di New York, provoca la morte di oltre 3 mila ragazzi e ne ferisce, ogni anno, almeno altri 300 mila. Una strage. L'alcol è anch'esso un ingrediente letale se mescolato alla guida dell'auto ma con un'incidenza minore: fra i teenager causa infatti 2.700 morti e 282 mila feriti l'anno. La ricerca ha anche evidenziato come, fra gli adolescenti, il 49% dei ragazzi mandi sms mentre si trova al volante, percentuale che cala (di poco) al 45 nel caso delle ragazze. Secondo gli esperti, tutto dipende dal fatto che, mentre non capita tutti i giorni che gli adolescenti alzino il gomito, la cattiva abitudine di usare il cellulare alla guida c'è sempre e, spesso, viene sottovalutata.
Il problema, inoltre, non riguarda solo lo scrivere messaggi ma anche il semplice fatto di leggerli…
continua qui

martedì 30 luglio 2013

Cinquanta consiglieri regionali sardi approvano il nuovo “editto delle chiudende”, senza vergogna

Lo dovevano fare e l’hanno fatto.
Addirittura hanno velocemente rimestato le disposizioni della proposta di legge regionale n. 537 il 23 luglio 2013 e hanno scodellato in fretta e furia la proposta di legge regionale n. 542 del 30 luglio 2013 e l’hanno approvata in pochi minuti, grazie alla procedura d’urgenza prevista dall’art. 120 del regolamento consiliare, applicabile perché tutti d’accordo.
Ha iniziato l’onorevole Pietro Pittalis (P.d.L.), ma immediatamente dietro gli altri onorevoli Giampaolo Diana (P.D.), Franco Cuccureddu (M.P.A.), Attilio Dedoni (Riformatori), Matteo Sanna (Fratelli d’Italia), Christian Solinas (P.S.d’Az.), Mario Diana (Sardegna è già domani),Daniele Cocco (S.E.L.).
E subito dopo sono stati in 50 a votare a favore, solo voti contrari4 gli astenuti.
Ma che cosa c’è di così urgente e improcrastinabile da metter d’accordo trasversalmente e soprattutto silenziosamente maggioranza (scassata) e opposizioni (divise)?
Il nuovo editto delle chiudende, Il sacco dei demani civici e la speculazione immobiliaresulle sponde delle zone umide in Sardegna.
Infatti, con l’art. 1 della legge i Comuni sono delegati “alla ricognizione generale degli usi civici esistenti sul proprio territorio”mandando a quel paese anni di difficile lavoro milioni di euro spesi dalla Regione autonoma della Sardegna per le operazioni che hanno portato all’Inventario generale delle terre civiche previsto dalla legge.
Una “ricognizione” che, nella realtà, costituirebbe la base soprattutto persclassificazioni – termine orrido e inesistente, sarebberosdemanializzazioni – in particolare per i “iterreni sottoposti ad uso civico (che, n.d.r.) abbiano perso la destinazionefunzionale originaria di terreni pascolativi o boschivi ovvero non sia riscontrabile né documentabile la originaria sussistenza del vincolo demaniale civico”, cioè in tutti quei casi in cui vi siano state occupazioni abusiveabusi edilizidestinazioni agricole ovvero i diritti di uso civico siano stati accertati per presunzione in quanto già terreni feudali (la gran parte dei demani civici).
Previsione palesemente incostituzionale per violazione delle competenze statali in materia di tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali (art. 117, comma 1°, lettera s, cost.), visto che ex lege i terreni a uso civico sono tutelati con il vincolo ambienale/paesaggistico (decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i., ma già legge n. 431/1985).
Insomma, ancora una penosa, raffazzonata, squallida operazione che punta a un nuovo editto delle chiudende, come ormai il Consiglio regionale sardo sta offrendo da tempo alla ribalta
continua qui

qualcuno dice no (qui)

sabato 27 luglio 2013

Rivoltiamo la città, coltiviamo l’orto - Alessandro Portelli

Saremo stati qualche decina nella simbolica occupazione del Borghetto San Carlo, ventidue ettari di terreno agricolo di proprietà comunale sulla via Cassia fra La Storta e la Giustiniana a Roma, abbandonato dall’istituzione e rivendicato all’uso pubblico da un gruppo di cooperative di giovani agricoltori. Ma eravamo virtualmente almeno diecimila, tante quante le firme che le coop Terra!, da Sud e Coraggio (Cooperativa romana Giovani Agricoltori) hanno consegnato al sindaco Marino e agli assessori all’urbanistica e al patrimonio del Comune di Roma.
Gli interventi che si sono susseguiti nel piccolo spazio di terreno liberato oltre il filo spinato e dietro il cancello ostinatamente chiuso e arrugginito, hanno sottolineato la disponibilità espressa dai nuovi rappresentanti delle istituzioni (municipi, comune e regione sono adesso su una stessa lunghezza d’onda, il clima può cambiare), il collegamento con altre esperienze vicine (per restare a Roma Nord, quella di Volusia o quella ormai radicata di Cobragor), e soprattutto l’idea che riprendere in mano il grande patrimonio delle terre liberi comunale non è solo un’occasione produttiva, occupazionale e di servizi, ma configura anche una diversa prospettiva sulla città. Roma, il terzo comune agricolo d’Europa, l’agricoltura ce l’ha dentro e – come tante metropoli in crisi in tutto l’occidente – può farne un elemento di ripresa non solo economica ma anche, forse soprattutto, culturale e ambientale. Se per generazioni i contadini sono stati i custodi della terra e i creatori e portatori di preziosi saperi (troppo spesso disprezzati: c’è anche il disprezzo di classe verso i contadini e la loro fatica fra le ragioni dell’abbandono dell’agricoltura), gli agricoltori di oggi si sentono pienamente integrati in una cultura urbana in trasformazione…

venerdì 26 luglio 2013

dal parlamento



Mica solo per Matteo Dall’Osso, professione ingegnere e deputato. Chi ha sghignazzato in Parlamento dovrebbe avere il coraggio di scusarsi pubblicamente, cospargersi il capo davanti a quelli che si portano a passeggio una ghigliottina, una lama che non sanno quando deciderà di cadere. Loro che ridevano perché pensavano fosse un grillino, e lo è, certo. Ma è anche malato. Per quello le difficoltà nel leggere durante l’intervento in aula, la goffaggine nel tenere in mano i fogli. Non perché sia un deputato acerbo e (a detto di lor signori) un radiocomandato. Il signor Dall’Osso da Bologna un giorno è andato in ospedale perché sentiva uno strano formicolio alla mano. E alla pancia. I suoi genitori l’hanno visto piangere quando è stata firmata una diagnosi:sclerosi multipla.
Ma si è rialzato, combatte tutti i giorni la malattia con la fiera dignità di chi vuole giocarsela, anche se è persa perché qualcuno ha truccato le carte contro il suo destino. Ma accidenti se cammina a testa alta. Dal 2007 che va in giro a raccontare quello che gli è capitato. Uno così doveva farsi ridere in faccia dai colleghi parlamentari? Non credo.
E non parlo di Dall’Osso, non lo conosco. Parlo della malattia, genetica e degenerativa. Anni fa mi capitò di chiedere a un medico di cui mi fido, Gian Ugo Berti, neurochirurgo, e lui mi disse: “Non c’è una guarigione, fai finta che il paziente sia su una scala mobile, c’è da augurarsi che il piano sotterraneo non arrivi mai”…
da qui

martedì 23 luglio 2013

delfinese

Fischiano, come noi, e si chiamano così. Ognuno di loro risponde a un tipo di fischio. Ogni suono, ogni frequenza, è un nome. Che i delfini dal naso a bottiglia (Tursiops truncatus, Montagu 1821) siano intelligenti e abbiano sviluppato un proprio linguaggio è noto. Ma che abbiano un modo per identificarsi è quanto hanno scoperto, e dimostrato, i biologi marini Stephanie King e Vincent Janik, dell'università di St. Andrews, in Scozia.

"Questi animali vivono lontano dalla costa e hanno bisogno di punti di riferimento e di un sistema molto efficiente per comunicare e anche riconoscersi", ha spiegato Vincent Janik, a capo dell'equipe che ha condotto la ricerca. Con una serie di esperimenti gli scienziati sono riusciti a provare che ogni delfino all'interno del suo gruppo risponde solo al fischio che lo identifica, riproducendo lo stesso suono.

Il loro studio pubblicato sulla rivista Pnas (Proceedings of the National Academy of Sciences) dimostra che questi animali rispondono solo a 'copie' del proprio fischio. Una sorta di segno di identità utilizzato nella comunicazione con il gruppo. La ricerca è stata realizzata su 200 tursiopi al largo della Scozia. "Si tratta della prima prova reale dell'esistenza di 'appellativi' individuali nel regno animale", ha detto Stephanie King. Il tursiope dal naso a bottiglia è l'unica specie, escludendo l'uomo, a chiamarsi per nome. I ricercatori hanno dimostrato che la metà dei suoni prodotti da questi delfini servono a dire il proprio nome e ad annunciare il proprio arrivo.

Già era stato dimostrato che questi animali nei primi mesi di vita mettono a punto un suono 'personale'. Gli scienziati hanno quindi cercato di capire cosa fa un delfino quando sente un suo consimile riprodurre il 'fischio-nome'. Per farlo hanno registrato singolarmente i diversi fischi, per poi  riprodurli in tempi differenziati. Il risultato è stato che gli animali hanno reagito, sempre e rapidamente, solo quando hanno sentito il proprio suono, mai agli altri.

Il tursiope, o delfino dal naso a bottiglia, è il più studiato anche perché è una
http://imageceu1.247realmedia.com/0/default/empty.gif delle rare specie di delfini a sopportare la cattività. È diffuso in tutti i mari del mondo, a eccezione delle zone artiche ed antartiche e ne esistono due popolazioni distinte, una costiera e una di mare aperto. Vive generalmente in branchi formati dalle femmine che partoriscono un solo piccolo. I maschi possono formare delle associazioni chiamate "alleanze". È un animale che mostra una certa curiosità nei confronti dell'uomo. Ricambiata.

lunedì 22 luglio 2013

Volete la rivoluzione? Diventate vegetariani - Natalino Balasso

C’è una gran voglia di rivoluzione.
Gli amici delle spranghe esultano ogni volta che scovano un sopruso. Gli amici delle spranghe hanno bisogno di qualcosa per cui protestare vibratamente, cioè vibrando sprangate. Quelle piazze che abbiamo abbandonato, perché troppo occupati a parcheggiare nei villaggi commerciali o fuori dai multiplex, si riempiono a vista d’occhio solo quando si tratta di divellere semafori o bruciare auto di media cilindrata che non possono permettersi un garage.
Agli amici delle spranghe cambiare il mondo sembra più semplice che cambiare se stessi. E forse lo è. Non voglia il destino che in Egitto si torni a praticare la lapidazione, ma è certo che le rivoluzioni prendono sempre una strada tortuosa. Anche quella talebana in Iran, è stata una rivoluzione, anche quella fascista in Italia è stata una rivoluzione, abbiamo però visto la china mesta che queste rivoluzioni hanno imboccato. E se c’è chi è ancora convinto che quella cubana non sia una dittatura, costui è mosso dalla paura di rinunciare alle proprie antiche convinzioni.
Si pensa sempre che occorra un grande evento decisionale per invertire le rotte, per prendere nuove direzioni. La politica degli ultimi 40 anni da noi ha pensato che nuove e contraddittorie leggi possono cambiare una situazione sclerotizzata. Prendiamo l’energia, l’acqua, l’inquinamento. Si pone rimedio allo sperpero e ai veleni con regole sempre più complicate, investendo denari senza controllo e soprattutto evitando di far funzionare ciò che già dovrebbe funzionare. La risposta capitalistica al consumo di energia o allo sperpero d’acqua non potrà mai essere il risparmio o la riduzione del consumo, ma sarà sempre un incentivo al consumo. Cos’è la crescita, cos’è lo sviluppo, se non consumo?...

lunedì 15 luglio 2013

tornare indietro

Un altro che ci ha costruito un mondo stando sottoterra è Marco Massari. Un ragazzone di 40 anni che di mestiere intagliava diamanti, guadagnava bene ma si è stufato del lavoro in laboratorio, sotto la luce artificiale e con la massima aspirazione di far felice qualche signora. Il richiamo della strada lo porta a vendere dischi usati sulle bancarelle, a partire dai suoi. E bancarella dopo bancarella oggi è il responsabile della Fiera del Disco di Genova, il primo store online di vendite di dischi usati d’Italia, il primo a sbarcare su Ebay con 32mila pezzi, l’unico che ti fa girare un disco da 5mila euro e te ne racconta vita, morte e miracoli. Lo chiamano ormai da tutta Italia, spesso è all’estero. “Ci sono giorni che ti svegli, apri la posta e scopri che nella notte hai fatturato migliaia di euro. E dici ‘buongiorno’”. Anche il rigattiere del duemila ha però la sua etica. Marco un giorno ha comprato dischi rari a un prezzo talmente basso rispetto al loro valore che è tornato indietro a dare la differenza allo sprovveduto venditore. “Un signore di Novara che aveva la mamma malata un giorno mi chiama e mi dice che vuole liberarsi dei dischi di una vita, a quattro euro al pezzo. Tra i tanti aveva un disco rarissimo dei Teoremi, che allora era quotato 500 euro. Io glieli ho comprati tutti i dischi, ma poi ci ho pensato e sono tornato indietro, gli ho dato altri 350 euro perché non si poteva pagare quel disco 4 euro”. Perché non ce n’è, quando tocchi il fondo e riparti da una vecchia cantina ne esci con un codice d’onore e una moralità che anche in superficie, spesso, scarseggia.

mercoledì 10 luglio 2013

Pluto, il dio del denaro

Dai dati dei Monopoli di Stato si prevede che nella sola Emilia Romagna vi sarà una spesa annuale di quasi 6 miliardi di euro (5.888 milioni), che divisi per la popolazione maggiorenne regionale significano una spesa procapite di quasi 1.590 euro.  Ad un gioco d’azzardo in continuo aumento corrisponde un numero sempre crescente di persone che perdono il controllo del gioco e che ne diventano dipendenti.
Paradossalmente lo Stato non riconosce ancora il diritto alla cura per coloro che cadono nella dipendenza, ma per fortuna ha deciso di farlo la Regione Emilia Romagna. Dopo le esperienze simili di Toscana e Piemonte, anche la Regione Emilia Romagna ha deciso di finanziare una sperimentazione per l’accoglienza residenziale di persone dipendenti da gioco d’azzardo e ha chiesto all'Associazione Papa Giovanni di occuparsi della progettazione e della gestione della struttura.  
Da qui nasce il progetto Pluto (mitologico "Dio del denaro"), che ha permesso la sperimentazione di un percorso di accoglienza di 21 giorni (dal 6 al 27 novembre 2011), per 15 giocatori patologici.
La comunità per giocatori d’azzardo ha visto coinvolta un’equipe di professionisti sulla dipendenza da azzardo e un programma con gruppi ed attività molto innovative.
Il percorso, portato a termine da tutte le 15 persone, ha dato risultati molto soddisfacenti.  

Apre a Reggio Emilia "Pluto", la prima struttura residenziale pubblica in Italia aperta tutto l'anno e dedicata ai giocatori d'azzardo patologici. Una "casa" completamente gratuita, dove i pazienti saranno ospitati in base alle segnalazioni delle Ausl del territorio. “Se alcuni giocatori d’azzardo facoltosi avevano già l’opportunità di seguire terapie in costose cliniche private per “disintossicarsi”, ben poco potevano fare i semplici cittadini che magari, proprio per il gioco d’azzardo, avevano dilapidato anche le ultime risorse familiari” afferma Matteo Iori, presidente dell’associazione “Centro Sociale Papa Giovanni XXIII”, una Onlus che ha contribuito a realizzare il centro assieme alla Regione…

…«Negli anni – spiega il presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII – abbiamo verificato la necessità di offrire un posto in cui stare, un momento di tregua distaccato dal proprio contesto di vita, a quei giocatori che non riescono a gestire la tentazione. Uno spazio sicuro aperto ad ogni ora del giorno e della notte con operatori preparati. La realizzazione di questo sogno è il frutto di una breve sperimentazione effettuata nel 2011 e di un nuovo progetto sperimentale finanziato in parte dalla Regione Emilia Romagna e in parte dalla nostra Onlus. E’ importante che accanto ai gruppi di aiuto, soluzione migliore per chi ha una famiglia, un lavoro e più in generale un contesto sociale in cui tornare, ci sia una struttura in cui organizzare percorsi di recupero personalizzati».
Il gioco d’azzardo infatti non è affatto un gioco: il Consiglio Nazionale delle Ricerche afferma che un milione di italiani hanno già sviluppato dipendenza o sono a rischio. Un dato allarmante che nella nostra provincia finora si è tradotto in 1164 richieste di aiuto, di cui circa la metà sono approdate nei gruppi, per un’età media di 40 anni circa. Più il sommerso…
da qui

lunedì 8 luglio 2013

hanno ammazzato Stefano

L’Orso Stefano, trovato morto ieri sul Monte Marrone, sul versante molisano del Parco nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise, ”e’ stato brutalmente assassinato a colpi di fucile da criminali”. Lo rende noto il Parco precisando che all'esame radiografico, eseguito alla facoltà di Veterinaria di Teramo, sono state rilevate tre pallottole di cui una, quella mortale, alla testa. ”Una vera e propria esecuzione che fa supporre l’utilizzo di diversi tipi di fucile, quindi l’intervento di diversi bracconieri”
L’ESECUZIONE – Una seconda pallottola, informa una nota del Parco, ha raggiunto l’omero destro dell’animale, una terza, caricata a pallini, e’ stata rinvenuta sul corpo dell’animale. ”Queste le prime risultanze emerse dalle radiografie, che ci restituiscono la brutalità dell’esecuzione di uno dei 60 orsi marsicani che ancora costituiscono la popolazione di questo splendido e rarissimo plantigrado. Un danno enorme inferto alla natura – prosegue il comunicato dell’Ente – che va anche contro gli interessi delle stesse popolazioni del Parco, che chiedono la conservazione rigida di questo animale, fonte di ricchezza poiché induce un flusso turistico di notevole importanza economica”. Nei prossimi giorni l’Ente Parco presenterà denuncia alla Procura della Repubblica di Isernia, competente per territorio, perché si avviino le indagini per scoprire i colpevoli. L’Ente Parco si riserva di fornire altre evidenze che dovessero manifestarsi dalla necroscopia dell’Orso che sarà eseguita nel pomeriggio presso l’Istituto Zooprofilattico di Teramo. (ANSA).

domenica 7 luglio 2013

Ho grazie, la mia scuola è un orto (la compagnia dlla fotosintesi) - Fulvio Ervas

Rischiavo di rimanere tra le serre, tra i fiori coltivati, tra ciclamini e stelle di natale. Nel mondo proprio di un agronomo.
Invece sono finito nella scuola. Non sembrerebbero vicini, l’agronomia e la cattedra.
Eppure non ho mai patito questa distanza. Anzi, mi è sembrato che solo sapendo di mucche, di vinificazione, di foraggio ed economia agricola, avrei potuto navigare nel mare  dell’insegnamento.
Solo concependo la scuola come un ecosistema mi sono orientato. 
Perché anche la scuola, come ogni ecosistema, è la risultante tra una parte inorganica e una organica. D’accordo, sono solo paroloni per indicare il cemento e le vetrate che d’inverno ci fanno rabbrividire e ci fanno bollire d‘estate; le scale, ricoperte di linoleum; i bagni che gocciolano; l’aula docenti senza un vaso di fiori e i lunghi corridoi che tendono all’infinito.
Poi c’è la parte organica, i viventi: bidello Eugenio che vorrebbe andare in Tibet, il tecnico Radames che in laboratorio fa scoccare i fulmini sott’acqua, la collega di latino  convinta che gli antichi abbiano già detto tutto, meccanica quantistica compresa, e  Giacomo, Mattia, Irene e  tutti gli altri, centinaia e centinaia, una comunità, una biocenosi, direbbero i biologi.
Naturalmente alcune scuole sono ecosistemi piccoli e graziosi, altre intricate foreste. In alcune ci sono aule dove si respira un senso di libertà, come davanti all’oceano, e in altre spirano venti artici. 
Tutte sono, in quanto ecosistemi, vive. La loro parte inorganica, il cemento, le tapparelle e i bagni, si sfaldano, s’inceppano, s’intasano.
La parte organica cresce, evolve, vince, perde,  invecchia.
Solo i banchi non crescono mai...

giovedì 4 luglio 2013

dice Antoine de Saint-Exupéry


La perfezione non si ottiene quando non c’è più nulla da aggiungere, bensì quando non c’è più nulla da togliere.

orti a Bologna

Arvaia vuol dire pisello in dialetto bolognese. E Arvaia (arvaia.it) è il nome della cooperativa di cittadini e contadini nata nel 2013 ai piedi dei colli. Per incontrarli bisogna sporcarsi le scarpe di fango, mettere i piedi tra le zolle di terra dove tra qualche mese spunteranno carote e zucchine. A prendere in mano zappa e badile nel Parco Città Campagna, non saranno uomini e donne con il pollice verde ma impiegati, liberi professionisti, insegnanti che hanno deciso di diventare soci, fruitori e produttori allo stesso tempo. 
Arvaia è nata il 15 febbraio scorso. Manca ancora una delibera del Comune di Bologna, prevista entro fine marzo 2013, che definirà le modalità per l’assegnazione dell’area, ma la cooperativa è già al lavoro. I soci hanno scelto di incontrarsi per iniziare a discutere di un regolamento, di spese da sostenere, di come fare le cassette di verdura che verranno a prendersi, proprio nel luogo dove inizieranno a vangare e a seminare. Qualcuno di loro è già pratico del mestiere, gestisce orti comunali. Altri sono alla prima esperienza: “Quanto tempo dovrò dedicare alla settimana?”, chiede Paola. 
Alla base del progetto c’è la volontà di promuovere la riappropriazione della terra e un ritorno alle radici e alla cultura rurale, in un’ottica di gestione partecipata della produzione agricola. Il mese di marzo segna l’avvio del primo ciclo produttivo: “Inizieremo con la coltivazione di legumi, insalata, bietole, cicoria, aglio e cipolle -ci racconta Cecilia Guadagni, una dei tre contadini impiegati da Arvaia e vicepresidente della cooperativa- poi proseguiremo con il ciclo estivo e con quello autunnale, seguendo la stagionalità”. Tutti prodotti coltivati tramite agricoltura biologica che saranno distribuiti nel raggio di pochi chilometri. Il Parco Città Campagna, in cui si trovano i terreni, è un’area di proprietà del Comune di Bologna di 47 ettari, nel quartiere Borgo Panigale. “Un progetto di ricostruzione del paesaggio tipico della campagna bolognese -ci spiega Francesco Errani, consigliere comunale- affidato all’Asp (Azienda pubblica di servizi alla persona) Poveri Vergognosi, che è fermo dal 2007, anche a causa dell’instabilità politica che ha vissuto Bologna negli ultimi anni”. Errani è il mediatore tra i cittadini costituiti nella cooperativa e l’amministrazione: “C’è la volontà politica da parte del Comune di sostenere il progetto -assicura- ma la burocrazia e la difficoltà di comunicazione tra i diversi assessorati coinvolti e le rispettive strutture tecniche hanno prolungato i tempi”. 
Nel frattempo, i cittadini agricoltori stanno già pensando a risolvere i problemi legati all’acqua, alla costruzione di un pozzo, alla gestione di un frigorifero nella stagione estiva per non far marcire la frutta e la verdura. 
La cooperativa nasce nel solco dei Csa (Community Supported Agricolture, agricoltura sostenuta dalla comunità) associazioni di cittadini presenti in Europa e nel mondo, che si fanno attori nella produzione di cibo biologica e sostenibile…

in Bolivia

A Potosì, nell’altopiano andino della Bolivia meridionale, c’è chi cerca sottoterra e chi guarda il cielo. L’oro, l’argento e lo stagno che stanno (e che stavano) sotto i piedi delle comunità sono stati il motore di un’economia mineraria che ha spremuto come un limone una delle comunità più alte del mondo, inchiodata a quasi 4.100 metri sul livello del mare, e che l’ha lasciata giusto con la buccia. Oggi nel dipartimento di Potosì si contano alcuni tra i municipi più poveri del Paese e dell’intera America latina. Ma Victoriano Chambi Ambrocio, per gli amici solamente Victoriano, decise di guardare il cielo.
Le nubi, il colore dei tramonti, l’andamento dei venti sono stati per decenni gli strumenti necessari per capire quando piantare le patate, e come curarle a partire dall’insegnamento di suo padre.
Victoriano è nato 63 primavere fa nella comunità quechua Karujo all’interno dell’Ayllu Aymayo, un’unità sociale e politica andina legata alle etnie quechua ed aymara che deriva addirittura dalla civiltà inca. Ha cominciato a piantare patate fin da bambino, non più di cinque o sei varietà, ma che con il tempo si sono ampliate, diversificate, grazie anche al lavoro di Victoriano che da semplice coltivatore si è trasformato, volente o nolente, in un custode di biodiversità.
Sette ettari coltivati grazie all’impegno di quattro famiglie della comunità, un lavoro che ha fatto incontrare contadini di zone diverse del dipartimento e di parte della Bolivia e che ha permesso uno scambio di saperi e di patate, perché nelle zone ancora tutelate dall’agricoltura industriale culture e colture sono parte della stessa ricchezza.
Victoriano, a suon di acquistare patate al prezzo di 5 bolivianos l’una (poco meno di 50 centesimi di euro) ne ha raccolte più di 87 varietà diverse, tutte coltivate senza l’utilizzo di sostanze chimiche e secondo le usanze degli antenati. Una piccola parte delle oltre 230 varietà esistenti in tutta la Bolivia e che rappresentano non solo una ricchezza culturale, ma uno dei migliori antidoti al cambiamento climatico che negli ultimi anni si è fatto sempre più evidente…