lunedì 28 febbraio 2011

Canapa

Le tele dei dipinti di Rembrandt, Gainsborough, Van Gogh, così come fondamentalmente la maggior parte delle tele dei quadri di un tempo erano fatte di canapa.
* Nel 1916, il governo USA prevedeva che entro gli anni quaranta tutta la carta sarebbe stata prodotta con la canapa e che non ci sarebbe più stato bisogno di tagliare gli alberi. Alcuni studi condotti dal governo riportano che 1 acro di canapa equivale a 4,1 acri di alberi per cui si stava pianificando la realizzazione di questi progetti; Dipartimento dell’Agricoltura.
* Fino al 1937 colori e vernici di buona qualità erano prodotti con olio di semi di canapa. Nel 1935 in America furono usate 58.000 tonnellate di semi di canapa per prodotti da pittura; Sherman Williams Paint Co. Testimonianza di fronte al Congresso contro il MARIUANA Tax Act del 1937.
* Il primo modello-T di Henry Ford carburava ad olio di canapa e L’AUTOMOBILE STESSA ERA COSTRUITA IN CANAPA! Ford è stato fotografato sulle sue vaste proprietà in mezzo ai campi di canapa.
La macchina, ‘cresciuta dalla terra’ aveva pannelli di plastica di canapa, la cui resistenza all’impatto era 10 volte superiore a quella dell’acciaio; Popular Mechanics, 1941…

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La marijuana (spagnolo), o cannabis (latino) o hemp (inglese) è una pianta che si potrebbe definire miracolosa, ed ha una storia lunga almeno quanto quella dell'umanità. Unica pianta che si può coltivare a qualunque latitudine, dall'Equatore alla Scandinavia, ha molteplici proprietà curative, cresce veloce, costa pochissimo da mantenere, offre un olio di ottima qualità (molto digeribile), ed ha fornito, dalle più antiche civiltà fino agli inizi del secolo scorso, circa l'80 per cento di ogni tipo di carta, di fibra tessile, e di combustibile di cui l'umanità abbia mai fatto uso.

E poi, cosa è successo? E' successo che in quel periodo è avvenuto il clamoroso sorpasso dell’industria ai danni dell'agricultura, e di questo sorpasso la cannabis è stata chiaramente la vittima numero uno.

I nascenti gruppi industriali americani puntavano soprattutto allo sfruttamento del petrolio per l’energia (Standard Oil - Rockefeller), delle risorse boschive per la carta (editore Hearst), e delle fibre artificiali per l’abbigliamento (Dupont) – tutti settori nei quali avevano investito grandi quantità di denaro. Ma avevano di fronte, ciascuno sul proprio terreno, questo avversario potentissimo, e si unirono così per formare un'alleanza sufficientemente forte per batterlo…

…Come prodotto tessile, la cannabis è circa quattro volte più morbida del cotone, quattro volte più calda, ne ha tre volte la resistenza allo strappo, dura infinitamente di più, ha proprietà ignifughe, e non necessita di alcun pesticida per la coltivazione. Come carburante, a parità di rendimento, costa circa un quinto, e come supporto per la stampa circa un decimo…

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Torna la canapa, per la carta, i tessuti, la cosmetica. Vietata per alcuni decenni per l'eccessiva vicinanza alla cannabis e persa la concorrenza con il nylon, la canapa italiana, ritenuta la migliore del mondo, è tornata a essere coltivata in Emilia. Si è iniziato nel '98, con una coltivazione sperimentale di 50 ettari, saliti fino a 1.400 e con programmi di espansione che la grande crisi ha rallentato, ma non cancellato. Arturo Malagoli, co-fondatore del Consorzio Canapaitalia con Armani jeans e una cooperativa di agricoltori, spiega: «La canapa è una straordinaria pianta che non ha bisogno di acqua per crescere perché non teme la siccità. Nelle nostre tradizioni era fondamentale per fare tessuti, corde, oli e, anche, farine per l'alimentazione. Per questo abbiamo deciso di ripristinare la coltivazione. E di utilizzarla per prodotti di alta qualità». Malagoli ha fondato Raggio Verde: la società è partita da una base di 150 tonnellate di canapa da trasformare in quaderni, dépliant, cataloghi, gadget, è passata a 400 tonnellate nel 2004 per arrivare a quasi mille nel 2008: «Sono stato il primo, dopo numerosi tentativi e ricerche, a produrre carta di canapa in Europa: ha una resa molto alta nella stampabibilità e un impatto ambientale molto basso grazie all'utilizzo di inchiostri vegetali e a un sistema di stampa senza acqua. Ma soprattutto sono orgoglioso di non dover abbattere neanche un albero per produrre cellulosa»…

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sabato 26 febbraio 2011

L'arrosto amazzonico - Marinella Correggia

Che la filiera della bistecca bovina da animali bradi sia una delle maggiori killer dell'Amazzonia brasiliana è chiaro da tempo ma forse mai era stato illustrato tanto bene come nel rapporto di Greenpeace International «Slaughtering the Amazon» (Macellando l'Amazzonia). Il documentatissimo rapporto fa i nomi delle compagnie internazionali di distribuzione che comprano carne e pelli da fornitori del Brasile, diventato il maggior esportatore di carne bovina al mondo a spese degli alberi, della biodiversità, dell'equilibrio idrico, del clima (il paese sudamericano è il quarto produttore mondiale di gas serra proprio a causa della distruzione della foresta).
Il rapporto è durissimo: l'industria dei bovini provocherebbe l'80% della perdita dell'Amazzonia e il 14% della perdita mondiale delle foreste. L'area totale di Amazzonia brasiliana ridotta a pascolo è oggi di 240.000 miglia quadrate; più di tutta la Francia. La dove c'era la foresta pascolano stabilmente 80 milioni di bovini. Altre superfici sono occupate dalle coltivazioni di soia.
Il rapporto di Greenpeace ha fatto effetto. La Banca mondiale, nientemeno, ha revocato un prestito di 90 miliardi di dollari al gigante brasiliano degli allevamenti Bertin, che nel rapporto degli ambientalisti compare fra gli accusati di deforestazione. Il prestito, garantito dalla International Finance Corporation, sarebbe servito ad ampliare le strutture di trasformazione della carne nell'Amazzonia brasiliana. «Una buona notizia - hanno dichiarato Greenpeace e Friends of the Earth Brasile - e che serva di lezione; peccato che per tanto tempo diverse banche abbiano sostenuto questa compagnia colpevole di attentare al clima». Gli ambientalisti hanno poi chiesto un impegno analogo alla Banca brasiliana per lo sviluppo sociale ed economico (Bndes), che ha garantito nel 2008 prestito a Bertin per circa 1,25 miliardi di dollari. E la pubblica Bndes ha risposto, come riporta la Agenzia Estado: presto esigerà da chi chiede un prestito la tracciabilità dei suoi prodotti, fino al ranch. Un pubblico ministero federale dal canto suo ha avanzato una causa da 1 miliardo di dollari contro l'industria dei bovini per danno ambientale.
Inoltre tre grandi catene di supermercati, Wal-Mart, Carrefour e Pão de Açúcar hanno dichiarato la sospensione dei contratti con fornitori implicati nella deforestazione. Anche l'associazione brasiliana dei supermercati (Abras), ammettendo che «non ci sono garanzie che la carne non provenga dall'Amazzonia», ha annunciato ogni cessazione di rapporto con complici accertati della deforestazione. E non solo: Marfrig, il quarto commerciante mondiale di carne bovina, egualmente nominato nel rapporto di Greenpeace, non comprerà più animali allevati in aree all'interno dell'Amazzonia legale.
Lavaggio verde a buon mercato? Forse, visto che non esiste un sistema di certificazione per i prodotti carnei o conciari brasiliani, tale da garantire che sono prodotti «con responsabilità», o meglio, se non altro fuori dall'Amazzonia. Un'organizzazione chiamata Aliança da Terra sta lavorando proprio a questo sistema. Nell'attesa, il primo gruppo di distribuzione britannico (e terzo al mondo dopo la statunitense Wal-Mart e la francese Carrefour), ha ammesso che è difficile conoscere la fonte ma «si sta attrezzando». Fra le altre «grandi firme» tirate in ballo - per la carne o il cuoio - nel rapporto di Greenpeace: Adidas/Reebok, Nike, Carrefour, Eurostar, Unilever, Johnson & Johnson, Toyota, Honda, Gucci, Louis Vuitton, Prada, Ikea, Kraft, Tesco and Wal-Mart. Che non vendono solo carne e cuoio.

venerdì 25 febbraio 2011

I jeans che uccidono - Marina Forti

I jeans scoloriti sono sempre stati in voga. Più ancora se molto scoloriti, dall'aspetto logoro, «invecchiati», «vintage»: mode, questione di gusti. Dunque da decenni i produttori mettono in commercio jeans già lavati, lavati «a pietra» (stone-washed). La moda vuole però che non siano scoloriti in modo uniforme ma di più in certi punti, come se consumati dall'uso. Per questo, l'ultimo ritrovato della tecnica è la sabbiatura del jeans: consiste nello sparare sabbia ad alta pressione con dei compressori ad aria, in modo da produrre un processo abrasivo che candeggia il tessuto (in inglese si chiama sandblasting, «esplodere sabbia»). Va fatto a mano, per dirigere la sabbia sui punti che si vogliono scolorire. Così però la sabbia vola. E qui non è più questione di gusti ma di diritto alla salute dei lavoratori. La sabbia infatti contiene naturalmente silice, e questa, se inalata, provoca la malattia del polmoni detta silicosi. Per questo la rete «Clean Clothes Campaign», o Campagna abiti puliti (vedi www.abitipuliti.org) ha lanciato un appello ai produttori di jeans e ai governi per eliminare la sabbiatura. L'allarme è partito dalla Turchia, dove un gran numero di fabbrichette e laboratori (caso classico di economia sommersa) producono capi d'abbigliamento per il mercato soprattutto europeo. Qui la sabbiatura si è diffusa dal 2000. Pochi anni dopo, nel 2005, per la prima volta dei medici hanno diagnosticato la silicosi in lavoratori, uomini per lo più giovani, addetti alla sabbiatura dei jeans. I morti accertati finora sono 46. Nel 2008 è nato un Comitato turco di solidarietà con i lavoratori della sabbiatura, che riunisce lavoratori, sindacalisti, medici, giornalisti: la loro campagna ha avuto effetto, perché nel 2009 il ministero della salute di Ankara ha vietato il sandblasting. Non che i problemi siano finiti: si stima che tra 8 e 10mila persone abbiano lavorato alla sabbiatura nell'ultimo decennio e tra 4 e 5.000 siano affetti da silicosi. Molti sono immigrati dall'Europa orientale; anche se turchi, molti lavoravano in nero, così ora il Comitato sta lavorando per risarcimenti e pensioni di invalidità. La silicosi non è una novità. Di solito è associata al lavoro nelle miniere, edilisia, o alla fabbricazione di vetro e ceramica (in cui appunto si usa sabbia). Non esiste una cura nota. Si sa che è causata dall'inalazione di polveri contenenti silice libera o cristallina. E' irreversibile, e continua a progredire anche quando l'esposizione cessa; provoca fibrosi polmonare, enfisema, nella fase finale diventare invalidante e mortale. La cosa impressionante è che nelle miniere la silicosi si manifesta dopo 20 o 30 anni. Ma esposizione più intensa significa periodo di latenza più breve. In altre parole: gli addetti alla sabbiatura dei jeans ne respirano davvero tanta di quella roba, perché gli sono bastati pochi anni, in alcuni casi appena mesi di lavoro per ammalarsi. In Turchia dunque la sabbiatura è illegale. Nell'Unione europea è ammessa solo se gli abrasivi contengono meno dell'0,5% di silice. Ma costa meno (se non si conta la salute del lavoratore) usare la sabbia com'è, con silice attorno all'80%. Tanto la sabbiatura si fa altrove: Egitto, Giordania, Bangladesh, Pakistan, Cina, Messico. Alcune aziende hanno risposto alla campagna Abiti puliti impegnandosi a non vendere jeans sabbiati (Lévi-Strauss, H&M, C&A). Non così Diesel, Dolce & Gabbana e Armani, marche ben note che hanno rifiutato di aprire un dialogo. Il minimo è non comprare i loro jeans.



domenica 20 febbraio 2011

La Cina (e non solo) prende l'Africa in leasing

Da cinque anni a questa parte, colossi economici governativi e non (quali Petrochina, prima impresa di Stato della “People Republic of China”) realizzano enormi investimenti sulle distese agricole dei Paesi in Via di Sviluppo, per garantirsi l’approvvigionamento diretto delle derrate.
L’espressione “neo-colonialismo” - coniata dal Direttore Generale della FAO, Jacques Diouf - è riferita ai terreni ove si realizza circa un quinto della produzione mondiale di cibo, oggetto di conquiste da Paesi più o meno lontani come Cina e Corea del Sud, India, Kuwait, Qatar, Yemen, Arabia Saudita.
La Banca Mondiale stima che gli acquisti e gli affitti internazionali di terre interessino circa 50 milioni di ettari in Africa, Asia e America Latina: una stima prudente in assenza di notizie certe, a causa dell’opacità di contratti spesso non soggetti a obblighi di registrazione.La Cina, per citare qualche esempio, si è aggiudicata proprietà e sfruttamento di latifondi in Camerun, Tanzania e Monzambico (per il riso), Uganda e Zimbabwe (cereali), Filippine, Laos, Kazakhstan, ecc.
Alcuni osservatori parlano di vero e proprio “land grabbing” (appropriazione di terreni), in casi come quello della sud-coreana Daewoo che nel 2008 aveva provato ad acquisire un diritto di utilizzo esclusivo di 1,3 milioni di ettari, il 50% delle terre arabili del Madagascar per la durata di 99 anni (tentativo poi fallito grazie alle proteste internazionali).
Le differenze tra il metodo neo-colonialista e l'approccio europeo alla cooperazione non sono del tutto rascurabili.
1) accesso delle popolazioni locali alle risorse produttive. I “neo-coloni” spesso acquistano le piantagioni direttamente dai governi locali, in assenza di diritti o documenti che riconoscano e attestino la proprietà di molte aree
2) destino delle produzioni. I raccolti sono esclusivamente destinati all’export. Si investe solo sulle monoculture (senza badare alla loro in-sostenibilità), in alcuni casi per produrre bio-carburanti anziché cibo.
Il paradosso? Paesi come il Sudan e l’Etiopia, a dispetto della grave malnutrizione che affligge le loro popolazioni, sono grandi esportatori di derrate agricole delle quali hanno completamente perso il controllo.
Ma il diritto internazionale (OMC, contratti bilaterali di investimento) tuttora non lascia scampo.
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La penetrazione cinese in Africa ha conosciuto una vertiginosa accelerazione negli ultimi due anni. Il commercio tra la Cina e il continente nero, valutato lo scorso anno a 115 miliardi di dollari, è aumentato del 43,5% rispetto al 2009. Gli investimenti cinesi vanno espandendosi rapidamente in 45 Paesi africani, concentrandosi in quelli tradizionalmente sotto influenza francofona o anglofona, come il Kenya, la Tanzania, il Rwanda, la Nigeria, lo Zambia e l’Algeria.
La Cina ha investito 22 milioni di dollari in Kenya per modernizzare gli esistenti porti di Mombasa e Lamu, per la modernizzazione dell’esistente rete ferroviaria e per la costruzione di una colossale autostrada che faciliti il trasporto terrestre tra Kenya, Etiopia, Sud Sudan e Rwanda. L’autostrada faciliterà il trasporto di merci da questi Paesi al porto keniota di Lamu. In Tanzania le aziende cinesi hanno investito 200 milioni di dollari nei settori agricolo, farmaceutico, minerario, edile e nelle infrastrutture stradali. Mentre gli alleati storici e punta di diamante della penetrazione cinese rimangono il Sudan e lo Zimbabwe.
Questa rapida espansione economica, unita al fabbisogno crescente di materie prime per sostenere l’industria nazionale, alla debolezza dell’Europa, al declino americano e alle recenti destabilizzazioni sociali in vari Paesi arabi, sono certamente i fattori principali che hanno spinto il Comitato Centrale di Pechino ad adottare una politica di rottura con l’occidente – la quale potrebbe rappresentare il preambolo per una stagione di guerre indirette tra Cina e Occidente combattute sul suolo africano per decidere la supremazia sulle materie prime per i prossimi vent’anni…
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Accordi economici e promesse di sostegno politico hanno caratterizzato le prime due tappe, in Zimbabwe e Gabon, di un viaggio africano del ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi.
Ad Harare, si legge in una nota del ministero degli Esteri di Pechino, sono state sottoscritte intese in materia di “cooperazione economico-commerciale e tecnologica”. Ma a segnare la visita sono state anche dichiarazioni sull’“amicizia sincera” tra Cina e Zimbabwe rilasciate sia da Yang sia dal presidente Robert Mugabe. Significativo il questo senso il sostegno offerto da Pechino, membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu, a una revoca delle sanzioni economiche e finanziarie applicate a partire dal 2002 da Stati Uniti e Unione Europea (UE) nei confronti di numerosi dirigenti e imprese di Harare.
Cooperazione economico-commerciale e convergenze politiche sono stati i temi dominanti anche in Gabon. Durante l’incontro con Yang, il presidente Ali Bongo Ondimba ha detto di sperare in crescenti contributi della Cina allo sviluppo delle infrastrutture nazionali, dagli assi stradali alla rete elettrica. In settimana la visita di Yang proseguirà in Guinea, Togo e Ciad.
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…E per aggiudicarsi ettari su ettari di terreno fertile non si affidano al fucile, ma a valigette piene di soldi. Il territorio di conquista preferito è, ancora una volta, il Continente africano, con i suoi Stati immensi e i governi logorati dalla corruzione. Ma non disdegnano neppure America Latina, Malesia, Indonesia e perfino gli ex Stati comunisti dell'Europa orientale, Ucraina in testa. Pensare che prima del 2008, l'anno della crisi alimentare globale, l'agricoltura non interessava quasi più a nessuno. A occuparsi dell'utilizzo delle terre dei paesi in via di sviluppo erano rimaste le solite ong e poi la Cina, che ben prima degli altri ha fatto dell'Africa il suo forziere di risorse naturali. Ma la vertiginosa ascesa dei prezzi di materie prime, agricole incluse, ha convinto molti Stati e altrettanti investitori ad aggiudicarsi abbondanti quantità di terreno in casa altrui. Secondo le stime dell'Ifad, oltre 20 milioni di ettari di terra sono stati acquistati negli ultimi due anni da entità straniere, per la maggior parte in Africa e Sud America. In totale oltre 50 milioni di ettari sono stati vittima dell'"accaparramento".
Si tratta di terre utilizzate da secoli dalle popolazioni locali a cui manca però una prova formale di proprietà, elemento che lascia mano libera a chi ne vuole trarre un vantaggio personale. In casi tristemente famosi come quelli dell'Etiopia, del Mali e del Sudan i governi non si sono fatti scrupolo alcuno di vendere quello che considerano suolo pubblico al miglior offerente, incassando personalmente gli introiti. Il risultato è l'ulteriore depauperamento della popolazione di un continente dove tre abitanti poveri su quattro abitano nelle campagne da cui dipendono totalmente per la sussistenza. "L'acquisto delle terre da parte di investitori stranieri distrugge l'agricoltura familiare e costruisce un sistema di proprietà che escluderà per sempre gli abitanti", spiega Antonio Onorati, presidente del Centro internazionale crocevia, che del tema parlerà nell'incontro di quest'anno delle comunità di Terra Madre: "Non a caso del miliardo di affamati che esistono al mondo, 800 milioni sono piccoli produttori di cui 600 milioni sono contadini".
A diventare ricchi sulle loro spalle sono innanzitutto gli accoliti di dittatori come l'etiope Meles Zenawi e il sudanese Omar al-Bashir, poi governi di Stati come il Mozambico e il Mali, dove in vendita è stata messa perfino una zona con tre cimiteri (sistematicamente smantellati, con buona pace delle anime che vi riposavano). Infine, ci sono gli acquirenti che Onorati divide in tre categorie: i governi e le loro istituzioni, gli investitori speculativi privati o semi-privati e gli investitori nazionali, una realtà in rapida crescita.
Tra i governi più attivi vi erano India e Cina, ma quest'ultima, sotto la pressione occidentale, ha annunciato in occasione del G8 dell'Aquila di avere cessato la campagna pubblica di acquisti. Diversa è la posizione di Arabia Saudita e Libia che, consci di avere sì enormi riserve petrolifere, ma di estendersi su territori desertici, si sono prepotentemente gettati nella mischia degli acquisti territoriali. Oggi la Libia di Gheddafi possiede oltre 400 mila ettari di terra in Mali attraverso un braccio del suo fondo d'investimento sovrano, il Libia Africa Investment Portfolio, mentre il King Abdullah Initiative for Saudi Agricultural Investment Abroad aiuta le società saudite in paesi con un grande potenziale agricolo…

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sabato 19 febbraio 2011

attenti al colesterolo!

Le persone col colesterolo alto sono quelle che vivono più a lungo. Avendo subito un lavaggio del cervello, quest'affermazione può sembrarci talmente incredibile da richiedere parecchio tempo per essere assimilata e capirne a pieno l'importanza. Eppure il fatto che gli individui con colesterolo alto vivano di più emerge chiaramente da molti studi scientifici. Si consideri il risultato del 1994 del Dr. Harlan Krumholz del Dipartimento di Medicina Cardiovascolare dell'Università di Yale, in cui si trovò che persone anziane con colesterolo basso hanno una mortalità doppia per attacco di cuore rispetto a persone anziane con colesterolo alto.[1] I sostenitori della campagna per un colesterolo basso, coerentemente con la loro posizione, ignorano questa obiezione o la considerano come una rara eccezione, casualmente prodottasi tra un grande numero di studi a supporto del contrario.
Eppure non si tratta di un'eccezione; ora è disponibile una vasta mole di risultati che contraddicono l'ipotesi lipidica. Scendendo nello specifico, molti studi su persone anziane hanno evidenziato che il colesterolo alto non è un fattore di rischio per le malattie coronariche. Questo è il risultato di una mia ricerca che ho condotto nel database Medline sugli studi rivolti a questo settore.[2] Undici studi su anziani portano a quel risultato e altri sette studi hanno trovato che il colesterolo alto non è nemmeno un fattore predittivo di mortalità onnicomprensivo.
Consideriamo ora che più del 90 % di tutte le malattie cardiovascolari si riscontrano in persone che abbiano superato i 60 anni e che quasi tutti gli studi hanno trovato che il colesterolo alto non è un fattore di rischio per le donne.[2] Ciò implica che il colesterolo alto è un fattore di rischio per meno del 5 % tra coloro che muoiono di un attacco cardiaco.
E c'è un'ulteriore rassicurazione per quelli che hanno il colesterolo alto; sei studi hanno trovato che la mortalità totale è inversamente collegata al colesterolo totale, o al colesterolo-LDL o a entrambi. Ciò significa che se si vuole vivere a lungo in realtà è molto meglio avere un colesterolo alto piuttosto che basso…

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Un errore comune è credere che tutto il colesterolo provenga dai cibi. In realtà al massimo solo il 20% del colesterolo proviene dall'alimentazione, mentre l'80% è di origine endogena (cioè creato dall'organismo. La produzione è circa di 1-2 g al giorno mentre l'organismo ne assume con la dieta 200-500 mg, per l'uomo occidentale medio circa 340 mg, 220 mg per la donna). Una parte del colesterolo in eccesso viene eliminata dal fegato, cosicché la percentuale esogena (cioè proveniente dall'esterno, dall'alimentazione) massima del 20% sul totale è più che ragionevole. Solo se si mangia "malissimo" si arriva al 20%. Realisticamente è del 10%...

Al di là di informazioni troppo sommarie (come l'affermazione scientificamente errata "si deve avere il colesterolo totale sotto al valore di 200 mg/dl), considerate l'indice di rischio cardiovascolare. Per esempio osservate questa tabella (soggetto maschile).

Colesterolo totale

Colesterolo HDL

Indice di rischio

Valutazione

190

30

6,33

NO - Preoccupante

220

40

5,5

NO - Preoccupante

250

45

5,55

NO - Preoccupante

235

70

3,36

OK

195

50

3,9

OK

300

45

6,67

NO - Preoccupante

245

85

2,88

OK

210

35

6

NO - Preoccupante


Come si vede, il colesterolo totale non è un indice attendibile. Molti medici lo usano perché

danno per scontato (SBAGLIANDO!) che tutti abbiano il colesterolo buono basso…

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Si stabiliscono valori sempre piu' bassi di normalita' per colesterolo e pressione, fattori di rischio cardiovascolare se elavati.
Negli ultimi 30 anni l'obiettivo da raggiungere per il colesterolo e' sceso da 260 a 180. Cosi gran parte dei pazienti e' fuori norma.

Il vero pericolo, che e' anche uno dei limiti della medicina contemporanea, e' di frammentare la complessita' di ogni persona in una serie di malattie potenzialmente curabili, meglio se con farmaci. Con il risultato di trasformarci in una societa' di malati.
Oggi c'e' la tendenza a coniare nuove patologie, come la "preipertensione", pur di vendere medicine a sempre piu' pazienti.

Diventa sempre piu' difficile per un medico resistere al canto delle sirene di Big Pharma: solo negli Stati Uniti i colossi farmaceutici hanno speso nel 2004 oltre 55 miliardi di dollari per promuovere medicinali (la pressione si esercita con viaggi, inviti a congressi, regali, finanziamenti a societa' scientifiche, pubblicita' mascherata da campagne di informazione...) , contro i poco piu' dei 30 miliardi per la ricerca…

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mercoledì 16 febbraio 2011

lunedì 14 febbraio 2011

un po' di pane


…Prima o poi ogni antropologo inciampa nell’argomento pane in Sardegna“; il pane è un argomento inesauribile, anche una questione aperta, per citare Enrica Delitala, in quanto prodotto alimentare con una grandissima tradizione e in continuo divenire….

…La panificazione è un fatto sociale totale sull’Isola, e allo stato attuale si assiste a quello che Tullio Seppilli chiamava anni fa revival folclorico: nel caso del pane sardo si tratta di una rivitalizzazione consapevole dei saperi “di una volta” attraverso mille canali diversi: dai programmi televisivi dedicati ai blog, dai progetti comunali e regionali, sino ai corsi sulla panificazione tradizionale che attecchiscono in città come nell’hinterland, presso le proloco, le scuole di ogni ordine e grado, i centri sociali…

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“Dopo il successo dell’anno scorso, gli organizzatori dell’itinerario turistico e didattico “La

via del pane”, propongono anche quest’anno l’intero percorso che dalla semina del grano,

porta alla realizzazione del fragrante pane casereccio.

Con l’aiuto e l’interesse del Consorzio degli agricoltori, che mettono a disposizione i loro

campi per le prove varietali di diverse tipologie di grano duro, quello dei tecnici Ersat che

mettono a disposizione dei visitatori la loro conoscenza, quello del Museo del grano che

ripropone, attraverso un percorso logico e ordinato, il lavoro contadino trexentese, quello

del Ristorante Santa Marta di Burranca che ha rispolverato i piatti unici della cultura

contadina del luogo, e quello del Museo Sa Domu Nostra, che spiega la coltivazione e il

consumo dei cereali durante l'età punica in Sardegna, si è creata una vera propria “via del

pane” che porterà ogni singolo visitatore al coinvolgimento di tutti i suoi cinque sensi: la

vista, l’ udito, il tatto, l’ olfatto e il gusto.”…

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sabato 12 febbraio 2011

Il cibo della mente. Appunti per una metafora - Stefano Jossa


sette pagine molto interessanti - francesco

…Come il corpo si nutre di cibo, così la mente si nutre di conoscenza: «quale è il cibo allo stomaco, tale è la verità allo intelletto».

Se il cibo può essere conoscenza, però, vale anche il contrario, cioè la conoscenza può passare per il cibo, soprattutto nel momento in cui l’esperienza del cibo si fa parola, cioè esperienza intellettuale, anziché pura esperienza materiale.

Ma n g i a r e d i v e n t a c o n o s c e r e . È q u e l l o c h e a v v i e n e n e l Ga rg a n t u a e Pantagruele di Rabelais: mangiare significa inghiottire e assorbire il mondo, liberando la parola, che solo durante il banchetto può essere autentica e designare la verità delle cose.

Il cibo è quindi sempre “cibo della mente”, ricco di valenze filosofiche e culturali…

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giovedì 10 febbraio 2011

Vaccine Nation - Gary Null




Vaccine Nation è un documentario che racconta l'incredibile storia di Alan Yurko e della sua famiglia.

Il figlio di Alan muore improvvisamente poco dopo che gli viene somministrata la vaccinazione al quarto mese di vita.

Ma ciò che rende particolare questa vicenda (purtroppo fin troppo comune nonostante se ne parli poco) è che, a seguito dei referti medici e dell'autopsia, non è stata presa in esame la possibilità della vaccinazione come causa della morte ma il padre viene prima accusato e poi dichiarato colpevole di aver ucciso il suo bambino percuotendolo volontariamente e ripetutamente al capo nella modalità che la medicina tradizionale definisce "sindrome del bambino scosso".

Alan è stato quindi condannato all'ergastolo più 10 anni di reclusione, senza possibilità di libertà condizionata.

Una volta in carcere, il genitore, ripresosi dallo shock iniziale, ed essendo additato come un criminale della peggior specie (anche tra i detenuti esiste un codice di rispetto e chi uccide un bambino è chiaramente al gradino più basso), decide di farsi forza e cominciare a studiare a fondo quello che è successo a suo figlio, In breve diventa relativamente esperto dell'argomento e scopre tutta una serie di cose che gli dimostrano una realtà molto diversa e, fino a quel momento, per lui insospettabile.

Decide quindi che è arrivato il momento di provare a riportare in tribunale il suo caso e scrive, a mano, più di 40.000 lettere a dottori, ricercatori e chiunque altro possa essere interessato all'argomento.

Nel ricostruire tali vicende, il documentario spazia ad ampio raggio su vari argomenti correlati ai vaccini, a partire da come fu "concepito" il primo vaccino, quello per il vaiolo, fino ad illustrare le modalità con cui (non) vengono testati i vaccini al giorno d'oggi prima d'essere messi in commercio passando attraverso la pericolosità dei componenti che spesso sono parte integrante della terapia.

E' possibile scaricare il documentario completo a questo indirizzo.

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domenica 6 febbraio 2011

il menù dei filosofi

In quanto uomini ancor prima che pensatori (si ricordi il detto latino “primum vivere, deinde philosophari”), anche i filosofi hanno (avuto) i loro “piatti preferiti”, rivelandosi non di rado dei grandi estimatori del “mangiar bene”. L’attenzione che essi hanno riservato al cibo affiora, oltre che dalle loro autobiografie (nelle quali spesso menzionano esplicitamente i loro piatti preferiti), anche nelle loro stesse opere filosofiche, in cui le metafore – diciamo così – culinarie sono ricorrenti e testimoniano un’incredibile attenzione alla sfera eno-gastronomica… Ludwig Feuerbach, a una sua famosa opera del 1862, aveva dato il titolo Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia. L’uomo è ciò che mangia: in tedesco, “der Mensch ist was er isst”. L’obiettivo manifesto che Feuerbach si pone è, naturalmente, quello di sostenere un materialismo radicale e anti-idealistico, a tal punto da portarlo a sostenere che noi coincidiamo precisamente con ciò che ingeriamo… Forse questa coincidenza tra essere e mangiare potrà sembrare un po’ eccessiva, ma è innegabile il fatto che, se siamo, è perché mangiamo. Che poi siamo ciò che mangiamo, forse è un po’ troppo, con buona pace di Feuerbach. Un antico adagio dice che non si può pensare con la pancia vuota: e Aristotele stesso ci ricorda, nella Metafisica (982 b 21), che la filosofia nasce quando l’uomo ha risolto i suoi bisogni primari.
Platone, che pure a questo mondo preferiva decisamente quello eterno e immutabile delle Idee, non era certo insensibile al mangiar bene: di lui si sa che amava olive e fichi secchi. Nella Lettera settima, inoltre, Platone se la prende con i Siracusani, accusandoli di mangiare ben tre volte al giorno!

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sabato 5 febbraio 2011

Io divoro - Giuseppe Musolino

Fame

I disturbi del comportamento alimentare sono una sindrome di definizione recente, per cui i confronti con un passato lontano non sono possibili. Dicono. In realtà non è così. Già duemila anni fa, infatti, Ovidio nelle sue ‘Metamorfosi’ descriveva inconsciamente ciò che oggi noi esterofili chiamiamo Binge Eating Disorder(disturbo da alimentazione incontrollata) (1).

La leggenda narra che Erisictone di Tessaglia, insofferente al dominio incontrastato degli dei, decise un giorno di distruggere la grande quercia sacra del bosco di Cerere, dea della fertilità e dell’abbondanza. L’azione blasfema scatenò una vendetta violenta da parte di quest’ultima, che aizzò contro Erisictone una figura vorace e meschina, pronta a insinuarsi in lui senza pietà (“quanto più insacca nel ventre, tanto più brama”): la Fame. Questa aveva i capelli ispidi, gli occhi infossati nelle orbite, il viso cadaverico, le labbra bianche e coperte di muffa, la bocca divorata dalla rogna; “dalle anche spigolose spuntavano le ossa secche, al posto del ventre c’era lo spazio per il ventre; il torace lo avresti detto sospeso, sorretto soltanto dalla colonna vertebrale; la magrezza faceva risaltare le articolazioni, le rotule delle ginocchia sembravano enfiagioni, i malleoli sporgevano, protuberanze mostruose”. Un triste ritratto con cui oggi stiamo purtroppo familiarizzando.

Gola profonda

La Fame si precipitò da Erisictone, trovandolo immerso nel sonno. Si avvicinò senza fare rumore, e lo strinse fra le braccia, penetrandogli nel corpo attraverso il respiro.È la storia di una compenetrazione passionale, quasi un amplesso: “La Fame [...] lo avvinse tra le sue braccia e gli insufflò in corpo se stessa, respirandogli in bocca, in gola, nei polmoni, e spandendogli col fiato uno sfinimento nella cavità delle vene”. L’amplesso che ci ha partoriti.

In quel momento, Erisictone venne visitato da un sogno in cui avvertiva un intenso desiderio di cibo. E quando il languore divenne tanto forte da svegliarlo, ordinò che gli fosse servito ogni tipo di portata possibile. Ma pur davanti a quell’incredibile abbondanza, continuò a lamentarsi, sentendosi come se digiunasse da tempo immemorabile. Quanto più mangiava, tanto più era tormentato dalla Fame, che non gli dette tregua fino a quando lo divorò. Letteralmente, tant’è che allo stremo egli cominciò a “lacerarsi e strapparsi a morsi i propri arti e a nutrirsi, sventurato, rosicando il proprio corpo”, fino a quando la morte non lo liberò dal tormento...

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venerdì 4 febbraio 2011

Sovranità Alimentare

E’ sempre più evidente la necessità che le politiche pubbliche rimettano al centro dell’attenzione le persone, tutelandole in quanto produttori e consumatori.

La difesa del cibo è protezione dell’essere umano: dal cibo passano le sorti della democrazia che è una questione di sovranità dei popoli e non di pochi.
Immaginiamo per un attimo di essere un componente di una famiglia di un qualsiasi Paese impoverito del Sud del mondo. Viviamo in una casa che non ha nessun lusso, ma perlomeno abbiamo messo insieme quattro mura e un tetto. Andiamo avanti con qualche lavoro a cottimo e coltiviamo un piccolo pezzo di terra con i prodotti del quale, oltre a cercare di sfamare in parte la famiglia, incassiamo qualche spicciolo per comprare altro cibo, medicine, vestiti e strumenti vari. Circa un terzo di quello che spendiamo se ne va in cibo. Il prezzo di ciò che compriamo aumenta sempre, ma quello che pagano a noi è sempre meno.
Lo chiamano mercato, ma a noi sembra piuttosto una fregatura. Lo scorso anno, durante la crisi alimentare causata dall’aumento dei prezzi (vedi il numero di Manitese 457, ottobre 2008) la nostra famiglia è stata messa in ginocchio. Dicono che nel mondo i prezzi del grano e del riso siano aumentati anche del 150%, e anche quelli di tutte le materie prime agricole. Adesso rimangono alti, anche se pare che la crisi sia in parte rientrata. Immaginiamo ora di essere parte di una famiglia migrata ad ingrossare le squallide periferie di una grande città (San Paolo, Manila, Nairobi…) perché non riusciva più a vivere di agricoltura. Prima perlomeno qualcosa mangiavamo, adesso nemmeno quello.
Perché noi che coltiviamo la terra, che siamo quasi metà della popolazione mondiale, siamo quelli che pagano e basta?

C’è cibo per tutti?
La questione è centrale per
Mani Tese. È il nostro punto di partenza, la molla che da 45 anni ci spinge a operare nei paesi nel Sud del mondo (oggi lo chiamiamo “sud globale”), ma anche a lavorare nel “Nord” per cercare di rimuovere le cause della fame e della povertà. L’ex relatore speciale della Nazioni Unite per il diritto al cibo, Jean Ziegler, ci ha detto che nel mondo esiste una quantità di cibo sufficiente a sfamare 12 miliardi di persone, quasi il doppio degli abitanti attuali del Pianeta. Dagli anni ’70 la disponibilità pro-capite annua dei cereali si attesta fra i 300 e i 350 kg a persona, poco meno di un chilo di cereali al giorno per ogni essere umano, crescendo produttivamente in sostanziale parallelo alla curva demografica. Vale a dire: c’è più gente ma siamo capaci di produrre anche più cibo. Ma sui 2.232 milioni di tonnellate di cereali prodotti nel mondo del 2008, meno della metà (circa 1000 milioni di tonnellate) è stata usata per sfamare gli esseri umani, mentre la gran parte è indirizzata ad ingrassare gli animali e a produrre carburanti vegetali. Questa competizione in inglese è denominata food-feed-fuel, vale a dire cibo-mangime-carburante. È lo scheletro dell’ingiustizia che il sistema alimentare mondiale ha sviluppato. Non è niente di nuovo, ma non si sta fermando: gli statunitensi consumano in media 123 kg a testa di carne in un anno, gli indiani appena 5…

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L'agricoltura e l'alimentazione sono fondamentali per tutti i popoli, sia in termini di produzione e disponibilità di quantità sufficienti di alimenti nutrienti e sicuri, sia in quanto pilastri di comunità, culture e ambienti rurali e urbani salubri.
Tutti questi diritti vengono erosi dalle politiche economiche neoliberiste che con crescente enfasi spingono le grandi potenze economiche come gli Stati Uniti e l'Unione Europea, attraverso istituzioni multilaterali come l'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), il Fondo Monetario Internazionale (IMF) e la Banca Mondiale.

Invece di garantire l'alimentazione per tutta la gente del mondo, questi organismi presiedono un sistema che moltiplica la fame e diverse forme di denutrizione, con l'esclusione di milioni di persone dall'accesso a beni e risorse produttive come la terra, l'acqua, le sementi, le tecnologie e le conoscenze. Occorrono cambiamenti urgenti e fondamentali a questo regime mondiale.

La sovranità alimentare è un diritto fondamentale dei popoli.

Per garantire l'indipendenza e la sovranità alimentare di tutti i popoli del mondo, è essenziale che gli alimenti siano prodotti mediante sistemi di produzione diversificati, su base contadina. La sovranità alimentare è il diritto di ogni popolo a definire le sue politiche agrarie in materia di alimentazione, proteggere e regolare la produzione agraria nazionale e il mercato locale al fine di ottenere risultati di sviluppo sostenibile, e decidere in che misura vogliono essere autosufficienti senza rovesciare le loro eccedenze in paesi terzi con la pratica del dumping. La sovranità alimentare non nega il commercio (internazionale), piuttosto difende l'opzione di formulare quelle politiche e pratiche commerciali che servano ai diritti della popolazione per una produzione (alimentare) nutriente, sana ed ecologicamente sostenibile.

Per conseguire e preservare la sovranità alimentare dei popoli e garantire la sicurezza alimentare, i governi dovranno adottare politiche che diano impulso a una produzione sostenibile , basata sulla produzione familiare contadina, al posto di un modello industriale, dagli alti consumi e orientato all'esportazione…

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Come toglierci dalla testa il mito della crescita - Maurizio Pallante

Se il numero di coloro che si autoproducono lo yogurt crescesse in misura rilevante (non sarà così, perché tutto il sistema continuerà a far credere che sia un progresso e una liberazione di tempo andarlo a comprare), diminuirebbe la domanda di yogurt prodotto industrialmente. Di conseguenza, le industrie del settore dovrebbero ridurre i loro addetti e gli ordini di vasetti di plastica, coperchietti di alluminio e cartoncini stampati per le confezioni. Le aziende che fabbricano questi prodotti dovrebbero a loro volta sfoltire il numero degli occupati e diminuirebbe anche il numero dei camion che portano su e giù per l’Italia gli yogurt, i vasetti di plastica, i coperchietti di alluminio e i cartoncini stampati delle confezioni.

Toccherebbe allora alle aziende di logistica licenziare e ridurre gli ordini di carburante per autotrasporto. L’eccesso di produzione si estenderebbe quindi alle raffinerie, che sarebbero costrette a licenziare e diminuire le importazioni di petrolio. Ci sarebbe infine una riduzione di plastica, alluminio e cartoncino nei rifiuti, per cui le aziende che li raccolgono e/o gestiscono le discariche e gli inceneritori vedrebbero diminuire i loro utili e sarebbero costrette a ridimensionare gli organici. Ma le riduzioni di occupazione derivanti dalla diminuzione della domanda di yogurt non si fermerebbero qui, perché tutti i disoccupati di questi settori, non avendo più un reddito monetario farebbero diminuire la domanda di tutte le altre merci, innescando un processo di licenziamenti a catena. Ammesso che l’autoproduzione dello yogurt possa migliorare, in misura infinitesimale, la qualità della vita di chi la pratica, questo miglioramento avverrebbe al prezzo di un peggioramento totale della vita di tutti i licenziati che ne deriverebbero. Il rapporto costi-benefici sarebbe disastroso…

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Chico Mendes in musica


Raccoglitore di caucciù (seringueiro), è stato Segretario generale del Sindacato dei lavoratori rurali di Brasiléia (Sindicato dos Trabalhadores Rurais) dal 1975 e promotore della nascita del sindacato a Xapuri (1976), lega il proprio nome alla lotta contro il disboscamento della foresta amazzonica, condotta dai contadini con metodi assembleari ed utilizzando con successo la pratica dell'empate ("impedimento, stallo"). Nel1978 è eletto vice presidente del consiglio comunale a Xapuri (l'anno seguente è presidente). Tende a trasformare il consiglio (Câmara Municipal) in un'assemblea permanente in cui partecipano tutte le componenti politiche, sociali e religiose della città, non ricevendo l'appoggio delle formazioni politiche ufficiali, incluso il proprio partito, il Movimento Democratico Brasiliano (MDB). Viene pubblicamente minacciato dai possidenti della zona e cominciano le repressioni violente degli empates, che perdono l'efficacia iniziale, e le carcerazioni extragiudiziali di centinaia di contadini per tutto il decennio successivo; in quest'anno anche Chico Mendes viene arrestato e torturato. Il sindacato dei lavoratori rurali conosce però una forte espansione diventando il maggiore dello stato di Acre.

Dal 1979 con Lula (Luis Inàcio da Silva, anch'egli acreano), Josè Ibrahim e altri partecipa alle assemblee che porteranno alla nascita nel 1980del Partido dos Trabalhadores (PT, Partito dei Lavoratori), un organismo che darà appoggio politico alle rivendicazioni della CUT, la federazione sindacale generale di cui faceva parte il sindacato dei lavoratori rurali. Nello stesso anno viene arrestato e processato per l'omicidio di Wilson Pinheiro, leader sindacale di un'organizzazione avversaria, ma il processo rivela la montatura dell'accusa, per la quale sono invece condannati 40 possidenti di Xapuri. Nei tre anni seguenti affronterà altri due processi per istigazione alla violenza, essendo in entrambi prosciolto per insufficienza di prove...

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martedì 1 febbraio 2011

libero orto

...Nel libero orto si intrecciano diverse attività, produzione di aromatiche ed orticole con vendita diretta o come scambio di prodotti con il proprio tempo di esistenza trascorso a cooperare sul campo.
Produzione finalizzata anche a creare lavoro per persone svantaggiate. Educazione permanente ambientale per le scuole ma anche rivolta a ragazzi che non sanno come passare i pomeriggi dopo la scuola, con formazione su tecniche e tematiche biologiche e pacifiche.
Spazio orto-giardino a disposizione di persone con problematiche fisiche o psichiche, dunque orto-terapeutico o meglio: orto del benessere. Antiche frutti nel frutteto partecipato, sperimentazione di colture biodiverse. Centro di documentazione relativo alla formazione di cui sopra.
Libero orto è la confluenza di persone con saperi e consapevoli che realizzano un orto urbano che sia luogo di incontri, di lavoro, di formazione, di produzione e scambio con il territorio o anche con settori o persone che nella metropoli sognano un luogo accessibile a un'attività con la natura. Non l'orticello singolo ma orto partecipato dove creatività e cooperazione possono effettivamente esplorare le potenzialità umane che vanno oltre il conto in banca o il livello di consumo medio a cui ci paragonano. Coltivare l'orto insieme non è ripiegamento su se stessi se nella progettazione come nella partecipazione si pone attenzione a ciò che ci circonda e ci attraversa.
Per fare un esempio un viottolo di campagna può tenere conto anche delle difficoltà motorie delle persone ..ed essere molto più ampio e percorribile.
Ma anche: in un'esperienza che vuole comunicare vengono alla luce gli aspetti culturali perfino estetici che portano ad una godibilità dei momenti vissuti infatti “facendo dei lavori” come anche riposando semplicemente sull'erba, si percepisce e si intuisce una qualità di vita che difficilmente ritroviamo in altri luoghi sociali.
Libero orto come creazione: anche con materiali poveri si da forma esteticamente a aspazi – nello spazio centrale – in cui si può ritrovare il consiglio dell'orto, o le persone che vogliono sedersi e semplicemente ascoltare il luogo, animali liberi, creazione di un'arte nel fare l'orto-giardino collocando anche gli alberi più vecchi e malandati in una loro dimensione dignitosa nell'insieme anche quando ombreggiano le insalate; la frutta colta liberamente senza rompere i rami, e dove si mantenga un equilibrio tra natura e chi partecipa all'orto. Per questo non “orticello” ma luogo dove non necessariamente la natura e gli animali debbano servire l'uomo ma hanno un senso per il fatto stesso che sono ed esistono e da questo presupposto può scaturire un reale rapporto tra esseri diversi compresi piante e animali.
Libero orto come proposta naturale perché ci riferiamo al concetto dell'essere della natura e non del suo uso o sfruttamento. Anche facendo l'orto si da spazio e si lascia spazio a molto di ciò che c'era precedentemente.
E non ultimo: libero orto perché la natura sia essa selvaggia o coltivata è veramente grande maestra ma il suo insegnamento è così profondo da essere intuito solamente in un grande silenzio...

Manifesto per la Terra

Premesse

Molti movimenti artistici e filosofici hanno pubblicato un proprio Manifesto, in cui venivano esposte verità che per gli autori erano evidenti come le cinque dita della mano. Anche questo Manifesto riporta verità di per sé evidenti, così ovvie per noi come le cinque parti del meraviglioso mondo che ci circonda – terra, aria, acqua, fuoco/luce solare e organismi – e in cui viviamo e ci muoviamo: da esso alimentiamo il nostro esistere. Il Manifesto è centrato sulla Terra: viene messo a fuoco il valore centrale spostandolo dall’umanità all’Ecosfera che la comprende – quella rete di processi e strutture organiche/inorganiche/simbiotiche che costituiscono il Pianeta Terra.

L’Ecosfera è la matrice che avvolge tutti gli organismi e dà loro la Vita, è intimamente intercollegata con essi nella storia dell’evoluzione fin dal principio del tempo. Gli organismi sono formati dall’aria, dall’acqua e dai sedimenti, che a loro volta portano in sé le formazioni e le tracce organiche. La composizione dell’acqua del mare è mantenuta stabile dagli organismi, che pure mantengono in situazione stazionaria un’atmosfera che sarebbe altrimenti di composizione improbabile. Piante ed animali hanno plasmato le rocce calcaree i cui sedimenti formano le nostre ossa. Le false divisioni che abbiamo fatto fra vivente e non-vivente, biotico e abiotico, organico ed inorganico, hanno messo a rischio la stabilità e il potenziale evolutivo dell’Ecosfera.

L’esperimento dell’umanità, vecchio di diecimila anni, di adottare un modo di vita a spese della Natura e che ha il suo culmine nella globalizzazione economica, sta fallendo. La ragione prima di questo fallimento è che abbiamo messo l’importanza della nostra specie al di sopra di tutto il resto. Abbiamo erroneamente considerato la Terra, i suoi ecosistemi e la miriade delle sue parti organiche/inorganiche soltanto come nostre risorse, che hanno valore solo quando servono i nostri bisogni e i nostri desideri. E’ urgente un coraggioso cambiamento di attitudini e attività. Ci sono legioni di diagnosi e prescrizioni per rimettere in salute il rapporto fra l’umanità e la Terra, e qui noi vogliamo enfatizzare quella, forse visionaria, che sembra essenziale per il successo di tutte le altre. Una nuova visione del mondo basata sull’Ecosfera planetaria ci indica la via.

Dichiarazione di convinzioni

Ciascuno cerca un significato nella vita, e di appoggiarsi su convinzioni che prendono varie forme. Molti si rivolgono a fedi che ignorano o tolgono ogni importanza a questo mondo e non si rendono conto in senso profondo che siamo generati dalla Terra e sostenuti da essa durante tutta la vita. Nella cultura industriale oggi dominante, la Terra-come-comunità non è una percezione di per sé evidente. Pochi si soffermano giornalmente a considerare con un senso di meraviglia la matrice avviluppante da cui siamo venuti e verso la quale alla fine tutti ritorneremo. Poiché noi siamo un prodotto della Terra, l’armonia delle sue terre, mari, cielo e dei suoi innumerevoli bellissimi organismi porta ricchi significati raramente compresi.

Noi siamo convinti che, finché non viene riconosciuto che l’Ecosfera è l’indispensabile terreno comune di tutte le attività umane, la gente continuerà a mettere al primo posto il proprio interesse immediato. Senza una prospettiva ecocentrica che mantenga saldamente valori e scopi in una realtà ben più grande di quella della nostra sola specie, la risoluzione dei conflitti politici, economici e religiosi sarà impossibile. Finché la ristretta focalizzazione sulle comunità umane non viene ampliata fino a comprendere gli ecosistemi della Terra – le situazioni locali e regionali in cui viviamo – i programmi per modi di vivere sostenibili e in buona salute sono destinati a fallire.

Un attaccamento fiducioso all’Ecosfera, un’empatia estetica con la Natura circostante, un sentimento di riverente meraviglia per il miracolo della Terra Vivente e le sue misteriose armonie, è un’eredità umana oggi in gran parte non riconosciuta. Se vengono di nuovo emotivamente riconosciute, le nostre connessioni con il mondo naturale incominceranno a colmare il vuoto che si è formato vivendo nel mondo industrializzato. Riemergeranno importanti scopi ecologici che la civilizzazione e l’urbanizzazione hanno nascosto. Lo scopo è il ripristino della diversità e della bellezza della Terra, con la nostra specie ancora presente come componente cooperativa, responsabile, etica...

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