mercoledì 28 febbraio 2018

Quel fiume ha i suoi diritti - Paola Somma*


Le corporations hanno diritti. Perché non dovrebbero averne i fiumi? Con questo titolo, il 26 settembre 2017, il New York Times ha commentato la notizia che, il giorno precedente, il fiume Colorado aveva citato in giudizio l’omonimo stato, chiedendo di essere giuridicamente riconosciuto  come “persona”, al fine di poter  “difendere la propria vita e integrità”.
L’istanza, firmata da alcuni abitanti di Denver autonominatisi tutori del fiume, con il sostegno di Deep Green Resistance, un’organizzazione per la protezione degli ecosistemi vulnerabili, il cui obiettivo dichiarato è “togliere ai ricchi il diritto  di rubare ai poveri, e ai potenti il diritto di distruggere il pianeta”, è stata respinta.
La vertenza, però, ha suscitato attenzione per il suo carattere potenzialmente rivoluzionario rispetto all’attuale legislazione ambientale. Non a caso, i rappresentanti delle istituzioni hanno opposto un totale rifiuto a discutere nel merito la memoria preparata dall’avvocato Jason Flores- Williams, con l’aiuto del  Community Environmental Legal Defence Fund, un gruppo di legali che offre consulenza  gratuita alle comunità che vogliono proteggere l’ambiente.
Il 17 ottobre, l’avvocato dello stato ha chiesto l’archiviazione del procedimento, sostenendo che, “in assenza di danni documentati” l’azione non era ammissibile e che, in ogni caso, non esiste nessuna giustificazione alla pretesa di definire “persone” gli oggetti inanimati come “il suolo, l’acqua e le piante”.
Quindi, il 6 novembre, l’avvocato Flores-Williams ha presentato una  nuova istanza ed elaborato in dettaglio le  motivazioni a sostegno della richiesta di considerare il fiume una “persona”, in analogia a quanto avviene “con una nave, una congregazione ecclesiastica, una corporation commerciale”. In particolare,  nel ricorso si sottolinea che il Colorado,  durante i suoi circa 70 milioni di anni di vita, ha reso possibile la vita nella parte occidentale degli Stati Uniti da quando gli uomini vi si sono insediati, ma ciononostante, essendo considerato inanimato, non può nominare un avvocato, difendersi e assicurarsi il diritto di “esistere, fiorire, rigenerarsi ed evolvere naturalmente”. Al contrario, una corporation, che può essere istituita  in pochi minuti con una carta di credito, può “essere proprietaria di ampie porzioni di natura, emettere azioni, aprire un  conto in banca,  stipulare contratti, chiedere risarcimenti per mancati profitti, investire quantità di denaro senza limiti a favore dei suoi candidati politici favoriti e godere della libertà di parola per fare  propaganda, ancorché ingannevole”.

Il 16 novembre, l’avvocato dello stato ha inviato una lettera intimidatoria a Flores-Williams minacciandolo di censura, cancellazione dall'albo professionale, oltre che di una enorme sanzione pecuniaria per aver fatto “perdere tempo al tribunale con obiettivi impropri e frivole argomentazioni” e per aver messo in discussione  “il ruolo e l’autorità dello stato nell'amministrare le risorse naturali per uso pubblico”. Il 28 novembre, Flores-Williams ha risposto che non si sarebbe fatto intimorire, ma di fronte alla gravità delle minacce ha dovuto cedere. Il 3 dicembre ha ritirato l’istanza,  ed il giorno dopo  il tribunale  ha dichiarato decaduta la causa.
Al di là del risultato concreto,  la vicenda ha contribuito ad alimentare il dibattitosull’iniquità del criterio dominante, secondo il quale solo chi dimostra di aver subito “un danno significativo” può citare in giudizio chi distrugge l’ambiente.
I mezzi di informazione hanno anche dato conto di precedenti casi verificatisi in altri paesi, ad esempio la Nuova Zelanda, dove, nel marzo 2017, un tribunale  ha riconosciuto al fiume Whanganui lo status di persona e quindi gli stessi diritti di un essere umano E hanno anche ricordato che negli stessi Stati Uniti, quasi mezzo secolo fa, un giudice aveva posto la questione della “inaccettabile disparità di diritti tra il fiume e le corporations”.
Il riferimento è al parere di minoranza, scritto nel 1972 dal giudice William Douglas nella causa promossa dal gruppo Sierra Club contro la Walt Disney Entreprise che voleva costruire una stazione sciistica nella Foresta  nazionale delle sequoie. Anche allora l’istanza era stata respinta, perché il gruppo ambientalista non era “direttamente toccato dall'iniziativa e nessun danno irreparabile poteva essere provato”. Ma il giudice Douglas aveva obiettato che  “se la corporation ha diritti.. allora anche le valli, i prati alpini, i fiumi, i laghi, gli estuari, i crinali, i boschetti di alberi, le paludi, e perfino  l’aria che sente la pressione distruttiva della moderna tecnologia, devono avere il diritto di difendersi legalmente”.
Tale parere viene ripetutamente citato nella letteratura giuridica, ma non viene mai applicato. Anzi, dicono i firmatari dell’istanza a nome del fiume Colorado, la legislazione ambientale legalizza l’insostenibilità e,  accettando la nozione che la natura e gli ecosistemi sono proprietà di qualcuno, nel migliore dei casi si limita a regolare la velocità alla quale l’ambiente è depredato e distrutto. Il risultato è che  il fiume  Colorado “non ha abbastanza acqua per soddisfare tutti i diritti di sfruttamento che individui o gruppi di uomini rivendicano” e la sua acqua non riesce nemmeno più a raggiungere l’oceano. La vera questione, quindi, è  se la terra ha il diritto intrinseco di vivere  o se la sua esistenza è subordinata agli interessi degli uomini e delle loro corporation.
(*Scrittrice, già docente di urbanistica allo Iuav di Venezia)

martedì 27 febbraio 2018

Un mese senza supermercati





Proprio nello stesso periodo in cui i supermercati e i grandi magazzini sono stati regolarmente sotto il fuoco delle critiche in questi ultimi mesi, soprattutto perché il loro modello economico soffoca i produttori, una iniziativa svizzera, ”Febbraio senza supermercati” sostenuta da En Vert et contre Tout incontra un bel successo mediatico e popolare, sia fra i nostri vicini elvetici che in Francia.
Son già diversi anni che personalità e gruppi locali chiamano a rinunciare ai supermercati. La sfida “Febbraio senza supermercati”, sostenuta e mediatizzato da En Vert et Contre Tout in partenariato con ArboLife, è stata lanciata perché l’idea prenda una dimensione collettiva più globale. Sperimentata nel 2017 e ripetuta quest’anno, conosce un successo sempre più grande. La parola d’ordine, alla quale cittadini e cittadine della Svizzera e della Francia sono chiamati a unirsi in maniera volontaria ai gruppi locali, è un invito a riflettere sui nostri consumi quotidiani ed eventualmente a orientarli verso i prodotti locali, per sostenere un altro modello economico e sociale. E anche molto semplicemente a scoprire che è davvero possibile fare a meno del supermercato senza per questo rovinarsi.
Quando consumare diventa un atto politico
L’obiettivo principale di questa sfida è d’interrogarsi collettivamente e individualmente a proposito del modello economico che desideriamo sostenere attraverso i nostri acquisti, affinché le nostre spese possano trasformarsi in un atto politico. Gli individui passano così dallo statuto di “consumatori” a quello di “consum-attori” come ci spiega Leïla Rölli di EnVert et Contre Tout. In questo contesto, si tratta, secondo l’appello, di “incoraggiare i commerci indipendenti, scoprire i piccoli negozi del quartiere, sostenere i piccoli produttori, favorire la vendita alla rinfusa e il commercio locale, ripopolare i mercati oppure anche reimparare a comprare solo l’essenziale. Ma è anche l’opportunità di far sapere a questi grandi supermercati che non siamo d’accordo su tutto questo impacchettamento o sulla loro politica dei prezzi che schiaccia i produttori”.
In Francia un’iniziativa di questo tipo era nata già nel 2016, sotto la spinta della giornalista Mathilde Golla. Rapidamente, con gli scandali a ripetizione in cui sono impantanati gli attori della grande distribuzione e con l’interesse crescente dei cittadini per le questioni sociali e ambientali, l’idea si è fatta sempre più popolare. Dopo aver trovato un’eco in Svizzera nel 2017, la sfida è stata estesa al 2018. Si tratta di una risposta al “periodo di eccesso di consumo del dopo Natale”, e fa onore a tutti quelli che investono in questa causa, come le cooperative di consumatori o i negozi “Zéro déchets” (1) precisa Leîla Rôlli.
Non fa niente se (non) potete arrivare fino in fondo
Secondo Leîla Rôlli, l’essenziale è partecipare entro i propri limiti, non fa niente se i partecipanti non riescono a mantenere la scommessa per tutto il mese. Infatti, impegnandosi, ognuno può testimoniare della propria sensibilità a questa problematica. “L’importante è approfittare di questa occasione per interrogarsi sui nostri principi e le nostre occasioni di consumo” precisa sul suo sito Léa Candaux Estevez, una cittadina impegnata a Neuchâtel, aggiungendo che ”non fa niente se voi sapete in anticipo che avrete bisogno di andare una, due o anche tre volte nello stesso supermercato, perché non avete altre alternative per uno o un altro prodotto che avete l’abitudine di consumare”. L’entusiasmo è palpabile con più di 20.000 partecipanti in Francia e in Svizzera nel 2018, contro meno di 1.000 in Svizzera l’anno precedente. È che “le mentalità cominciano a cambiare” si rallegra Leïla Rölli, che fa notare come l’iniziativa è sempre più trattata nel dibattito pubblico.
Nel suo appello, la giornalista preferisce anticipare certe critiche che erano state formulate l’anno passato, soprattutto il preconcetto che un tale boicottaggio metterebbe in pericolo i posti di lavoro di questi grandi supermercati. Eppure questo tipo d’azione ha poco impatto sull’economia dei supermercati. Anche se questi dovessero perdere qualche centinaio di clienti, i loro margini di guadagno, in milioni, sono sufficientemente importanti. Al contrario, un pugno di clienti in più per i negozi del quartiere porterebbe a quest’ultimi una boccata d’aria sufficiente e forse anche nuovi posti di lavoro e un rinforzo dell’economia locale.
Del resto, il principio economico sul quale si basano i supermercati è proprio l’effetto di scala che permette di impiegare un minimo di persone per una quantità di vendita più importante e così molti negozi locali possono impiegare più persone che un grande magazzino. Questo principio funziona ugualmente anche con la ristorazione veloce o i centri commerciali. L’apertura di un grande complesso di vendita significa spesso il fallimento invisibile di numerosi commercianti locali facendo allontanare i cittadini consumatori dalle vie commerciali che animano il centro della città. […]

Traduzione di Livia Puccinelli per Comune.


venerdì 23 febbraio 2018

Crimini di pace esportati nel Sahel - Mauro Armanino

Si contano a centinaia le morti chiamate ‘bianche’ solo perché non sono rivendicate. Fanno vergogna a chi le pedina e conta. Eppure si tratta di crimini di pace, come aveva affermato Franco Basaglia nell’omonimo libro che denunciava la pazzia da esclusione. I crimini di pace sono il frutto del sistema violento e perverso che li produce e li esporta. Nel Sahel ne sappiamo qualcosa, grazie alle nostre frontiere coloniali. Il problema è che non sembrano neppure crimini ma opere di bene umanitario. La sola differenza coi crimini di guerra è perchè questi ultimi occupano lo spazio mediatico che li fa esistere agli occhi. I crimini di pace mettono insieme misure di contenimento, progetti di sviluppo e reti metalliche spinate quando occorre.
Alla radice di questi crimini si trova l’invisibilità che sola può garantire la riuscita dell’operazione. La prima di queste si trova nel grembo materno che dell’assoluta povertà è il simbolo più eloquente. L’attentato originario si riproduce poi in molte altre forme. Chi non ha modo di difendersi, nel sistema neoliberale che solo valuta le merci, sarà un oggetto tra gli altri, a volte vendibile come gli uteri. E’ in tempo di pace che questo occorre e si insinua poi, come un virus, negli altri organi della democrazia selettiva. I non nati non hanno chi li rappresenti e non ci si accorge che sono loro i primi stranieri senza visto di soggiorno. Non si vogliono vedere e quando questo occorre è troppo tardi per tutti. Il loro grido diventa un legame spezzato.
I crimini di pace hanno come mano d’opera la parola. Nessuna di queste è innocente o neutrale. Ogni parola e ogni verbo sono una vita che nasce o che si tradisce. La menzogna ne è l’espressione più eloquente. Chi sulle parole ha il potere è come l’ultimo dio in ordine di apparizione negli spettacoli. Le guerre sono azioni nobili, le armi necessarie a prevenirle, l’economia di accumulazione è quanto di più naturale ci sia, le migrazioni un’invasione e il migrante un potenziale terrorista di cui l’illegalità non è che il primo passo, le elezioni un mercato ambulante di promesse, il colonialismo porta civiltà e le frontiere sono divinamente rivelate per il consolidamento delle identità nazionali. I crimini di pace sono effetti collaterali.
Sono ospiti a Niamey in attesa di trovare un paese e raccontano di essere stati detenuti per anni in Libia. A migliaia sotto un hangar con un pasto al giorno da consumare in fretta d’un pezzo. Per usufruire dell’acqua la coda era interminabile e lo stesso per le latrine. Lager nella sponda mediterranea custodita dal Mare Nostro, con aguzzini nelle due sponde, gli uni per fare ciò per cui gli altri pagano. I crimini di pace sono possibili perché si appaltano a chi accetta di perpetrarli. In questo mondo di ladri la mano d’opera non manca. Chi con la camicia e i polsini e chi con la mimetica, il prodotto finale è lo stesso. Si tratta di crimini di pace garantiti da accordi internazionali firmati e poi ratificati dall’ipocrisia sovrana dei potenti.
Per Basaglia i crimini di pace, per essere dichiarati tali, devono possedere base empirica. Derivano dall’impianto istituzionale così com’è andato formandosi con le scelte politiche. Muoiono di sete nel deserto, sono rinsecchiti dal vento, sepolti nella sabbia del mare, scompaiono con la carestia annunciata nel Niger meta di pellegrinaggi delle missioni militari. Almeno 800 mila persone a rischio, calcola l’UNICEF, che si occupa di sé e dei bambini quando capita. L’insicurezza di cibo è un crimine di pace mentre i politici si mettono a commerciare la polvere del Niger sperando diventi oro quanto prima sul mercato. E’ di queste ore la notizia della scoperta di nuovi possibili giacimenti di idrocarburi nel deserto del Niger. Si sa, i crimini di pace prosperano sempre nel sottosuolo.
Niamey, febbraio 018

mercoledì 21 febbraio 2018

È morto Capitàn

Se avete un cane già lo sapete.
Purtroppo le persone passano. I cani invece restano.
Non vuole essere una frase cinica, al contrario. È la verità.
Colui che per primo disse che “il cane è il migliore amico dell’uomo” ci aveva visto giusto. Non a caso non ha detto che “l’uomo è il miglior amico dell’uomo”.
Gli animali, una volta che ci hanno scelti, non ci lasciano più. Il cane promette fedeltà a vita e non cambia idea, mai. Questa è la ragione per cui un cane abbandonato continuerà comunque, nonostante tutto, a cercare colui che l’ha lasciato ai margini della strada.
I cani vedono in noi una bellezza che spesso noi stessi fatichiamo a vedere.
La storia che vi raccontiamo ha fatto il giro del mondo.
Si svolge nel cimitero di Villa Carlos Paz, nella provincia di Còrdoba. Ma non è una storia che parla di morte, anzi. È una storia di amore e di fedeltà suprema.
È la storia di Capitàn, un cane che per oltre 10 anni non si è voluto allontanare dalla tomba del padrone.
Capitàn, incrocio di pastore tedesco, è morto lì, a, di fianco alle spoglie che aveva vegliato per tutti quegli anni.
Capitàn è stato subito definito l’“Hachiko dell'Argentina” perché la sua storia è molto simile a quella dell’Akita bianco giapponese, reso celebre anche dal film con Richard Gere, Hachiko, che ha commosso milioni di persone.
Capitàn fu trovato nel 2005 da Miguel Guzmàn che voleva regalarlo al figlio Damiàn. Purtroppo Miguel morì l’anno dopo e Capitàn scomparve misteriosamente. La moglie di Miguel e il figlio Damiàn erano convinti che fosse morto finché lo ritrovarono all’improvviso.
Durante una visita al cimitero si accorsero che Capitàn era rimasto a vegliare la tomba del suo amato padrone.
La vedova ha raccontato:
«Damiàn iniziò a urlare e il cane si avvicinò a noi, abbaiando come se stesse piangendo».
Fallito ogni tentativo di riportarlo a casa. Il cane non ne voleva sapere di muoversi.
E per oltre dieci anni è rimasto lì, giorno dopo giorno, a vegliare il suo amico umano.
Il cane trascorreva la giornata gironzolando per il cimitero ma la sera tornava sempre a dormire sulla tomba del suo padrone.
La donna che lo ha sfamato per tutti questi anni al cimitero ha dichiarato:
«Gli mancava soltanto la parola, era dolcissimo».
La speranza è che ora che non c’è più Capitàn possa essere sepolto vicino al suo amico Miguel che non ha mai abbandonato per tutti questi anni.
Gli mancava la parola, certo.
Ma i cani sono la prova inconfutabile che il più delle volte le parole non servono poi molto.
Capitàn, con la sua dolcezza, ha mostrato davvero che cosa significhi amare.


lunedì 19 febbraio 2018

La Francia dice addio al Nasan - Francesco Gesualdi

La Francia getta la maschera, denuncia la pseudo cooperazione e se ne va. Il gran rifiuto, come lo avrebbe definito Dante, è avvenuto l’8 febbraio, un’insolita scelta a fianco dei piccoli contadini africani che le multinazionali dell’agrobusiness forse non perdoneranno mai a Macron. Il programma da cui la Francia ha deciso di ritirarsi si chiama “Nuova Alleanza per la sicurezza alimentare e nutrizionale” (in sigla Nasan), un’iniziativa decisa nel corso del G8 che si tenne nel 2012 a Camp David. Al pari del titolo, dal forte richiamo biblico, anche le finalità hanno un vago sapore messianico: in dieci anni liberare dalla povertà e dalla fame 50 milioni di africani attraverso una collaborazione fra governi africani, governi dei paesi ricchi e imprese private.
Ma ad una verifica di metà periodo, si scopre che il progetto è servito a creare dei paradisi fiscali agricoli, come li ha definiti l’organizzazione francese Action contre la faim: occasioni di guadagno per le grandi imprese dell’agroindustria, non di liberazione dei piccoli contadini le cui condizioni sono addirittura peggiorate. In effetti il progetto nasce dalla vecchia convinzione che per risolvere fame e povertà basta aumentare la produzione. Per cui l’unica cosa da fare è facilitare gli investimenti da parte di chi i soldi ce li ha, ossia le grandi imprese nazionali e transnazionali. Da qui la Nuova alleanza che ai governi locali chiede di mettere a disposizione terre e un contesto legislativo favorevole alle imprese, ai governi del Nord di mettere qualche soldo per la costruzione di qualche infrastruttura a titolo di cooperazione, alle imprese private di metterci gli investimenti e guadagnarci.

Le imprese che hanno aderito al progetto sono un centinaio, per investimenti complessivi dichiarati attorno ai 5 miliardi di dollari, in sei paesi: Ghana, Etiopia, Tanzania, Costa d’Avorio, Burkina Faso e Mozambico. Il progetto non prevede la trasparenza fra i propri principi, ma dalle informazioni trapelate si apprende che due multinazionali coprono da sole due quinti dell’importo: Syngenta, azienda di sementi, filiale svizzera della cinese ChemChina, con 500 milioni di investimenti  e Yara, multinazionale di fertilizzanti che batte bandiera norvegese, con 1,5 miliardi di investimenti. Neanche Cargill, multinazionale agro-commerciale statunitense, se la cava male con 525 milioni di investimenti, per poi trovare più giù in graduatoria altre famose multinazionali come Mars, Monsanto, Louis Dreyfus.
Dal che si capisce che il risultato finale della Nuova alleanza sarà un rafforzamento dei prodotti agricoli destinati all’esportazione (cacao, caffè, olio di palma) e un ulteriore spinta ai contadini africani affinché si gettino definitivamente fra le braccia dell’agricoltura industriale basata sulle sementi selezionate, fertilizzanti e pesticidi. Insomma tutto il contrario dell’idea di sovranità alimentare che ha come obiettivo la produzione per i bisogni locali e come strategia produttiva l’autoproduzione delle sementi e l’agricoltura biologica, due modi per rispettare la natura ed impedire che i contadini finiscano nella trappola dei debiti.

Già nel 2016 il Parlamento Europeo avevo chiesto all’Unione Europea di togliere il proprio sostegno al Nasan. In particolare richiamava “il pericolo di replicare in Africa lo stesso modello di rivoluzione verde attuata in Asia negli anni sessanta, senza tenere conto dei suoi impatti sociali e ambientali”. Il governo francese, che partecipava alla Nuova alleanza come partner del Burkina Faso, non ha dato una motivazione ufficiale del suo ritiro dal Nasan, ma un funzionario governativo ha dichiarato a Le Monde che «l’approccio del progetto è troppo ideologico ed esiste un vero rischio di accaparramento di terre a detrimento dei piccoli contadini». I quali confermano: «A noi che produciamo per il mercato locale, la Nuova alleanza non elargisce nessun vantaggio fiscale, mentre alle imprese che producono per l’esportazione garantisce terre e ogni altro genere di facilitazione. Dov’è l’interesse per la sicurezza alimentare del nostro paese? I piccoli contadini che assicurano il 40 per cento del consumo interno di riso hanno mostrato di saper produrre, pur ricorrendo ai metodi di produzione tradizionale. Ciò nonostante il Nasan si prefigge di “modernizzare 30 mila ettari di terreni e di assegnarne 5 mila ai villaggi”.Il che significa farci passare da un’agricoltura di tipo pluviale a un’agricoltura basata sull’irrigazione artificiale. Ma la pioggia la dà la natura gratuitamente, l’acqua del sottosuolo, invece, sarà disponibile solo per chi ha soldi perché richiede macchinari ed energia. In conclusione i contadini più deboli si impoveriranno ulteriormente e la nostra sicurezza alimentare sarà sempre più a rischio». Preoccupazioni evidentemente fatte proprie dal governo francese considerato che l’uscita dal Nasan è stata giustificata dal fatto che «la Francia preferisce dare il proprio sostegno all’agricoltura familiare attraverso un’intensificazione dell’agro-ecologia». Parole su cui meditare, specie oggi che si parla tanto di aiutarli a casa loro.

domenica 18 febbraio 2018

Siamo tutti stranieri residenti - Lorenzo Guadagnucci


La cosiddetta emergenza migratoria sta facendo colare a picco le democrazie europee, che stanno rinnegando i propri valori fondamentali, ossia la dottrina dei diritti umani e il principio di uguaglianza, per l’obiettivo dichiarato di proteggere i propri cittadini, tutto sommato benestanti, da una presunta minaccia – fisica, economica, di valori – in arrivo dall’esterno.
Il potenziale immigrato è il nuovo barbaro e viene sistematicamente destituito della propria dignità di persona. Si agita lo spauracchio della sicurezza esasperando diffidenze istintive e poco ragionate col progetto di istituire il “governo della paura”:  è questo il nuovo carburante dell’azione politica, miserabile sostituto delle correnti culturali e ideologiche di un tempo. È un progetto rovinoso e contraddittorio, se pensiamo che un’Europa senza gli immigrati presenti e futuri andrebbe incontro a un inesorabile tracollo demografico e quindi economico, oltre che culturale.
È un ragionamento, quello appena esposto, escluso dal ragionamento politico corrente: viene di solito bollato come ideologico, oppure buonista, o magari ingenuo; la tesi corrente è che siamo di fronte a un’invasione epocale, che occorre “governare” i flussi e che l’obiettivo dev’essere la limitazione degli ingressi e il rafforzamento delle frontiere, costi quel che costi (c’è anche ci si produce in acrobatici cortocircuiti sostenendo che proprio il blocco delle migrazioni salvaguarda le democrazie, che altrimenti finirebbero sgretolate dal rancore sociale e dall’odio razziale…).
Donatella Di Cesare, in un bellissimo intervento su Radio 3, ha sviluppato su questo tema una visione filosofico-politica molto originale, nella quale mette a fuoco le origini dell’attuale guerra che lo stato nazionale sta conducendo contro i migranti, in nome di un’idea di cittadinanza che postula un sorta di diritto di proprietà sul territorio spettante ai nativi. Per difendere questa equivoca idea di cittadinanza lo stato è disposto a sacrificare i diritti umani, abiurando così i propri valori fondamentali.
Eppure le migrazioni non sono certo una novità nella storia dell’umanità e della stessa società occidentale: il punto è allora tutto politico. Donatella Di Cesare afferma che la globalizzazione ha portato in primo piano il cuore di un diverso concetto di cittadinanza, nel quale non esiste una relazione di proprietà fra nativi e territorio: siamo invece tutti “stranieri residenti”, a vario titolo ospiti del luogo nel quale si vive e si opera, senza alcun diritto proprietario. Questa visione è oggi negata da chi ha interesse a mantenere lo status quo, costi quel che costi, anche una guerra ai migranti e ai diritti umani, una guerra che sta mettendo a repentaglio la stessa possibilità di una convivenza democratica su basi di uguaglianza.
Perciò Di Cesare conclude sostenendo che il diritto di migrare è la prospettiva dei nostri tempi e del nostro futuro, in una battaglia culturale e politica simile– dice – a quella combattuta contro la schiavitù.

domenica 11 febbraio 2018

Due anni fa moriva Jonah Lomu - Fiorenzo Caterini

Per quanto mi sforzi di ricordare, non riesco a trovare nessun atleta, nella storia dello sport, che abbia avuto la potenza pura di Jonah Lomu. L’unico che forse poteva avvicinarlo è il pugile George Foreman. Nessun altro mi viene in mente. (Anzi, mi torna in mente un tale Ben Johnson, velocista squalificato per doping, dotato di una potenza mostruosa, ma frutto più della chimica che del talento).
Nessuno del peso di 118 chili e dell’altezza di 1 metro e 96 era in grado di correre i 100 metri in 10 secondi e 8 decimi, tempo preso quanto Lomu era ancora ragazzino. Un mostro.
Lomu giocava per la nazionale neozelandese. Veniva dai bassifondi di Auckland, figlio di genitori Tongani. Non era di etnia maori, quelli della famosa danza Haka, ma era pur sempre uno di quei “aborigeni” che nell’emisfero australe solo il Rugby poteva riscattare.
Palla alla mano Lomu ha fatto la leggenda del Rugby. Durante la Coppa del mondo del 1995, fece una meta travolgendo uno dietro l’altro tre dei più forti giocatori della nazionale inglese. Contro la Francia si trovò, ai mondiali di Rugby del 1999, circondato di sei avversari. Bucò quella muraglia di bestioni come se niente fosse.
E’ come se attorno alla sua figura si formasse un alone di invincibilità. Improvvisamente, dal mucchio, spuntava lui alla velocità di un treno in corsa. Afferrava la palla vagante ad una velocità che ti faceva dubitare che fosse davvero destinata a lui. Oppure i suo validi compagni sapevano che lì, in quel punto, nessun altro poteva afferrarla.
Sbucava lui ad una velocità pazzesca, dunque, e la controffensiva veniva subito annichilita da quella sola forza e potenza, qualche finta, qualche manata per tenere distanti gli avversari che, come mosche in nugolo, gli si formavano attorno. Il resto lo facevano la velocità e la forza. Chi gli stava dietro, non poteva raggiungerlo, chi gli stava davanti, veniva travolto.
Era come se fosse invincibile. Per tornare ai paragoni, solo Eddy Merckx, o Carlos Monzon, o, per certi versi, Pietro Mennea, hanno fornito alla storia dello sport la stessa sensazione di prepotenza, di invincibilità, di voglia di vincere. Una forza oscura, misteriosa, sembrava animarlo, palla alla mano.
Per i puristi dello sport, per gli esteti del gesto atletico, era una meraviglia da ammirare. La corsa era quella di un centrometrista naturale, con la spinta completa e le ginocchia tenute alte. Impressionava poi la facilità con cui l’atleta fintava e scartava lateralmente, a quella velocità.
In soli due campionati del mondo Lomu stabilì il record dei punti ottenuti tramite le mete. Purtroppo la sua carriera, di fatto, si è interrotta a soli 25 anni, con la terribile diagnosi della nefropatia.
E’ come se madre natura avesse concentrato tutta la potenze mostruosa in un solo corpo, ma con una breve scadenza. Per solo 5 anni, Lomu, mostrò al mondo il suo impareggiabile talento.
Tutto quel concentrato di forza esplosiva risiedeva in una macchina imperfetta, difettosa, affetta da questa malattia, la sindrome nefropatica, che distrugge anima e corpo con inesorabile e logorante lentezza.
Il gigantesco rugbista iniziò così il suo calvario, fino al primo trapianto del rene, avvenuto nel 2007. Tuttavia, le dialisi e il trapianto non gli impedirono di giocare fino al 2010, anche se in squadre minori, persino dilettantistiche. Il rugby era la sua vita.
Dammi il tempo, malattia, per vedere crescere i miei figli, diceva con tutto l’ottimismo possibile. Anche dopo il rigetto del trapianto, avvenuto nel 2011.
L’immagine che mi viene in mente, ora, in associazione mentale e involontaria, è quella in bianco e nero di un letto di ospedale, dove annaspa moribondo un uomo, magro e ossuto, con il volto caratterizzato dalle inconfondibili guance scavate e il naso sottile e aquilino. Forse il più grande ciclista di tutti i tempi, Fausto Coppi, morto a 40 anni per una malaria contratta durante una gara in Africa. Certamente è quel numero tondo, 40, che mi porta ad associare queste due figure dello sport, unite dalla leggenda, dal mito, e da una morte così ingiusta.
Jonah Lomu muore il 18 novembre del 2015, a soli 40 anni.
da qui

giovedì 8 febbraio 2018

Un parco da 10 milioni di acri, grande quanto la Svizzera, sta prendendo forma in Cile

(di Noemi Penna)

Dieci milioni di acri, ovvero una grandezza pari alla Svizzera. Sono queste le misure colossali dell'impresa della Tompkins Conservancy: la creazione di cinque nuovi parchi nazionali in Cile e l'espansione di altri tre, frutto della più grande donazione di terra di un ente privato a un governo. Protagonista di questa  incredibile storia è Kristine McDivitt Tompkins, moglie dell'eco-milionario fondatore di The North Face, che con questa impresa ha voluto realizzare il desiderio del marito, scomparso nel 2015.  

L'annuncio era stato fatto nel marzo del 2017, ora c'è stata la prima firma, che ha dato vita ai primi due nuovi parchi cileni. Un primo passo vero la creazione di un parco tre volte più grande dello Yosemite e dello Yellowstone messi insieme. 

A nascere con questa firma sono i parchi nazionali Patagonia e Pumalin, già aperti ai viaggiatori di tutto il mondo. Un ampio territorio protetto dove perdersi nella bellezza della flora e della fauna cileni, per molte generazioni a venire. 

Con questa impresa, la Tompkins Conservancy ha calcolato un indotto di 270 milioni di dollari annui in ecoturismo, generando 40 mila posti di lavoro e arrivando a proteggere il 20% di tutta la nazione.Una visione confermata anche da National Geographic, che ha definito Douglas Tompkins l'imprenditore che ha protetto più terra rispetto a qualsiasi altro privato sino ad oggi.  

E non è finita qui, visto che otre ai terreni nella Patagonia cilena, le proprietà dei Tompkins comprendono anche un’ampia zona della Patagonia argentina che Kristine McDivitt si è detta disponibile a donare a patto che anche il governo argentino s'impegni a tutelare ecosistemi e biodiversità, preservando il territorio dai latifondisti e da tutti coloro che vogliono sfruttarlo. 

mercoledì 7 febbraio 2018

L’ultima goccia - Maria Rita D'Orsogna

A Città del Capo lo chiamano Day Zero. Il giorno in cui l’acqua finirà completamente. Accadrà un giorno di aprile 2018. Tutta il Sudafrica si prepara all'evento fatidico, e non solo perché mancherà l’acqua, ma perché si prevedono disordini e caos senza precedenti a Città del Capo. Ospedali e scuole continueranno a ricevere acqua, per quanto limitata, ma gli altri no. I rubinetti verranno chiusi e verrà mandato l’esercito in città. Si teme anarchia e guerriglia urbana. Poi si dovranno aspettare le piogge, se e quando verranno.
Cosa è andato storto? In realtà Città del Capo, mezzo milione di abitanti, è una città relativamente green, nel senso di attenta all’ambiente. Specie perché siamo in una zona arida, hanno imparato a gestire le loro risorse con parsimonia. Ma siamo in una stagione eccezionale di siccità che dura da tre anni, e che è la peggiore in cento anni. Siccità prolungate e innaturali.: sintomi, inequivocabili, dei cambiamenti climatici.
Cosa fare? Beh, quel che potevano pensare di fare l’hanno fatto: con costruzione a tempo record di impianti di desalinizzazione, anche se ancora non terminati, e ricerca forsennata di altre fonti acquifere sotterranee. Per ora la maggior parte dell’acqua della città, circa la metà, arriva dalla Theewaterskloof Dam, che però è al 13 per cento della sua portata massima.
Intanto dal 1 febbraio 2018 le multe saranno elevate per chiunque sarà sorpreso a sfondare il nuovo limite dei cinquanta litri al giorno. Adesso siamo a ottantasette litri, anche se non tutti lo rispettano.
Nel 2014 le dighe della regione erano colme d’acqua dopo le forti piogge. Addirittura nel 2015 Città del Capo venne insignita dell’Adaptation Implementation Prize da parte del gruppo C40 (costituito da una serie di città), che promuove l’adattamento ai cambiamenti climatici. Il merito era proprio nel fitto sistema di raccolta di acqua piovana e non nella Theewaterskloof Dam. Si sono dunque mostrati all’avanguardia nell’aggiustare condutture, nell’ottimizzare le tariffe, nel far si che l’acqua non si perdesse per strada.  
Anche da un punto di vista politica il cosiddetto partito Democratic Alliance, che controlla la città dal 2006, ha sempre mostrato un vanto per la sostenibilità della città.
Oltre alla siccità la popolazione è aumentata del 30 per cento dal 2000 ad oggi. In realtà i nuovi arrivati si sono sistemati in zone più povere dove l’acqua era scarsa dall'inizio, quindi la richiesta di acqua non è cresciuta in parallelo con la popolazione.

Ma il punto è che sono stati cosi bravi a risparmiare e a ottimizzare che non hanno messo troppa enfasi nel cercare acqua nuova. Vari osservatori avevano suggerito la diversificazione dell’approvvigionamento acquifero, come per esempio desalinizzatori e ricerca di acqua sotterranea, ma la città ha dato poco retta a questi esperti. Le sei dighe che servono la città, di cui Theewaterskloof Dam è la più importante, fanno affidamento sull'acqua piovana. E quindi la siccità è ora particolarmente pericolosa, i desalinizzatori sono ancora sotto costruzione (ci vogliono fra i tre e i cinque anni per tirare su un impianto di desalinizzazione) e non si sa bene se e dove siano le nuove riserve sotterranee. Intanto le temperature aumentano e si prevede clima più caldo per il futuro prossimo venturo. Il sindaco Ian Neilson dice che non si aspettava che la situazione precipitasse cosi repentinamente. A Città del Capo ovviamente non mancano i battibecchi politici su di chi la colpa, visto che il governo centrale è di bandiera diversa dal Democratic Alliance che governa la città.
È cosi in altre parti del mondo: Brasilia ha dichiarato lo stato di emergenza un anno fa e la mancanza di acqua è un problema in più di ottocento città brasiliane a causa dei cambiamenti climatici (leggi Over 850 Brazil cities face major water shortage issues), uso intensivo di risorse per l’agricoltura, cattiva infrastruttura e pianificazione. 
Intanto a Città del Capo la gente fa quel che può in questa città dove la divisione fra ricchi e poveri è palpabile. Nelle baraccopoli la gente riempie secchi e spartisce l’acqua fino all'ultima goccia. Dall'altro lato, chi vive in ville faraoniche con ancora le piscine piene, anche se per poco. Chi accumula acqua per Day Zero, chi installa cisterne, chi cerca di mettere a punto sistemi di depurazione interna, chi si scava il suo pozzo. In alcuni casi, ci sono famiglie che sono riuscite a staccarsi completamente dalla rete idrica ufficiale. Ma ovviamente il diventare autosufficienti non è per tutti: occorre avere le risorse per crearsi tutta l’infrastruttura necessaria. Come sempre chi pagherà di più sono i più impoveriti, i più deboli.

martedì 6 febbraio 2018

Dal Premio Oscar al Cavaliere, gli scempi ‘legittimi’ del Piano Casa - Pablo Sole

Alla fine il signor Claudio Magenta da Courmayeur s’è dovuto mettere l’anima in pace. Avrebbe voluto sfruttare il Piano Casa varato da Cappellacci per ampliare l’amato buen retiro sull’Isola di Santa Maria, perla dell’arcipelago della Maddalena, ma l’ufficio regionale Tutela del paesaggio ha risposto picche. “Non so perché – dice Magenta, titolare di alcuni negozi d’abbigliamento storici sotto il monte Bianco -. Io sono residente a Santa Maria, è il mio paradiso. Fosse per me ci starei tutto l’anno ma, come si dice, si deve lavorare. Avrei voluto chiudere un terrazzino, fare una camera per i miei nipoti. E invece niente. Non sarà piaciuto il progetto, non so. Ad altri l’ampliamento è stato concesso, a me no. Ma va bene così”. Insomma: “Niente cemento”. Sarà perché la zona è a tutela integrale. O quasi. Perché ai vicini di casa del signor Magenta è andata un poco meglio. Sono Nicoletta BraschiRoberto Benigni, che sull’isola hanno acquistato casa alla fine degli anni Novanta folgorati dalla bellezza selvaggia e incontaminata di quel rifugio isolato. Poche case, un hotel de charme, zero auto: a Santa Maria si arriva in elicottero o in barca. L’unica pecca: d’estate, la lunga spiaggia di sabbia bianca è invasa da orde di turisti portati dai barconi. Per il resto, un’oasi di pace. Dove qualsiasi colata di cemento dovrebbe essere bandita, come ha sperimentato il signor Magenta.
E invece il Piano Casa è arrivato anche a Santa Maria, quando Nicoletta Braschi ha avviato l’iter per l’ampliamento dell’immobile di proprietà a pochi passi dalla spiaggia e la “realizzazione di un locale accessorio”. Incassate le autorizzazioni nel 2012, sono partiti i lavori, “effettuati nel pieno rispetto dei vincoli esistenti – puntualizza Nicoletta Braschi a Sardinia Post – e dopo aver ottenuto il rilascio di tutti i permessi e nullaosta da parte degli enti preposti alla tutela degli stessi e senza che gli stessi enti evidenziassero alcuna criticità”. Sia chiaro: Braschi e Benigni hanno legittimamente domandato e gli uffici regionali concesso. Ed è sul comportamento di questi ultimi che sorge più di qualche dubbio. Ci si chiede, posto che gli interventi hanno ottenuto “tutti i permessi e i nullaosta”, come abbiano fatto l’ufficio tutela e la Soprintendenza al paesaggio a firmare i via libera in una zona a tutela integrale.


Tralasciando il fatto che nel 2016 la Consulta ha specificato come il Piano Casa non possa scavalcare norme sovraordinate come il Piano paesaggistico regionale, fa specie che “gli enti preposti alla tutela” del territorio abbiano potuto rilasciare autorizzazioni e nullaosta per nuovi interventi edilizi a fronte del vincolo di conservazione integrale e visto che l’intera isola ricade nel Parco nazionale dell’Arcipelago della Maddalena, nel sito di importanza comunitaria ‘Arcipelago della Maddalena’ ed è ulteriormente tutelata con specifico vincolo paesaggistico.
Benigni e Braschi non sono certi gli unici vip che hanno colto al balzo le deroghe concesse dal Piano Casa ai ‘tirannici lacciuoli’ delle norme a tutela del territorio e del paesaggio, si parli di Ppr o Codice Urbani. Un poco più a sud, in quel di Porto Cervo, a beneficiare del ‘cemento a gogò’ fornito da Ugo Cappellacci, sono stati calciatori come Luca Toni e Angelo Domenghini e a Cala Granu ha ingrandito la sua villa sul mare Alberto Tomba. Non poteva certo mancare Silvio Berlusconi, mai pago delle 126 stanze distribuite in 4.500 metri quadri – oltre ad un parco di 120 ettari – di Villa Certosa, in quel di punta Lada a Porto Rotondo. L’ex presidente del Consiglio ha presentato regolare istanza al comune di Olbia per approfittare del Piano Casa e “realizzare fabbricati pertinenziali all’edificio padronale esistente”. La natura delle opere non è specificata, ma fa il paio con altri interventi, tra i quali “un frutteto di 35 per 75 metri” completo di “camminamenti in pietra basolo” e altri lavori minori. Infine, come riportato dalla Nuova, dal comune di Olbia Berlusconi ha avuto il via libera – Corpo forestale e Soprintendenza non si sono pronunciati – per la ristrutturazione di due villeconfinanti con Villa Certosa acquistate sul finire del 2016.

Ancora più a sud, a Torre delle Stelle è di casa Pippo Baudo: villa a picco sul mare, di grande charme. Per l’ampliamento, arriva il Piano Casa. Così come a Santa Margherita di Pula, nella magione (ampliata) della giornalista Mediaset Stella Pende. Qualche chilometro più avanti, la splendida villa di Alessandro Benetton, affacciata sulla spiaggia di Tuerredda. Anche l’imprenditore veneto si è aggrappato al Piano Casa e ampliato l’immobile.
Ancora, tra i personaggi in vista amanti della cazzuola e del cemento in riva al mare compaiono l’oligarca russo intimo di Putin Alexey Mordashov, di stanza a Portisco, le industriali Margherita e Maria Gabriella Bianchi Fuchs (birra Forst e Menabrea) con villa a Liscia di Vacca, il proprietario della Mapei Carlo Rossi, l’armatore tedesco Friedrick Harmstrof Alanwick e Carl Horst Hahn, già general manager di Volkswgen, il manager della Philip Morris Jacob Everhard Heeringa, l’ex modella russa Irina Garber, che ha acquistato – e ampliato – la villa che fu di Marta Marzotto a Punta Volpe.
A scorrere i documenti non ci sono, chiaramente, solo i nomi di chiara fama, ma un esercito infinito di cittadini – come si vedrà più in particolare nei prossimi giorni – che dalla Regione e dai Comuni ha ottenuto, in barba alle norme di tuteladella costa e in forza delle deroghe incostituzionali del Piano Casa, un perenne lasciapassare per le colate di cementoa due passi dalla battigia. O a un chilometro dal mare: il discorso poco cambia. Per finire, ai singoli cittadini si sommano alberghi e società private. Ai quattro angoli dell’Isola, come si vedrà sempre nei prossimi giorni.
Da Carloforte a Porto Raphael, da Villasimius a Stintino, dal 2009 al pronunciamento della Corte Costituzionale e oltre, il cemento ha regnato incontrastato. Così come gli appetiti fuori misura di alcuni nomi noti. È il caso di Marina Swarovsky, la ‘principessa dei cristalli’ proprietaria dell’immensa Villa Trinitaria, a Porto Rotondo. Beneficiaria del Piano Casa, nel 2013 ha dovuto aprire le porte di casa agli agenti del Corpo forestale che, su disposizione dell’allora procuratore capo di Tempio Domenico Fiordalisi, dovevano apporre i sigilli alla magione. Non contenta della cubatura extra concessa dal Piano Casa, l’imprenditrice aveva pensato bene di realizzare – raccontano gli uomini della Procura e le cronache – novanta metri quadri in più. È finita a processo.

domenica 4 febbraio 2018

Piano Casa e sanatorie a valanga, così si stanno mangiando le coste sarde - Pablo Sole

Da direttore del servizio comunale Verde pubblico di Milano si vantava d’aver fatto respirare nuovamente la città mettendo a dimora 70mila nuovi alberelli e realizzando 2 milioni di metri quadri di nuove aree verdi. Ad Arzachena invece, meta prediletta per le vacanze estive, la stessa funzionaria costruiva “un fabbricato unifamiliare” in zona vincolata, oltre a trasformare un garage in “locale abitabile”. Il tutto senza autorizzazioni. Spietata la reazione dell’ufficio comunale per la tutela del paesaggio, interrogato per sanare l’abuso: la colata di cemento? “Nessun danno ai beni tutelati”. Nel caso di Arzachena: l’intero territorio comunale. “Paghi una sanzione di 2.800 euro per l’immobile e 330 per il garage-abitazione e per noi è tutto risolto”, tagliano corto in municipio. Un bell’affare, in una zona dove gli immobili sono valutati in media 6.500 euro al metro quadro: fatti due conti, un profitto che fa concorrenza ai Bitcoin dei bei tempi. Peccato che l’autorizzazione paesaggistica ‘in sanatoria’ – ovvero dopo aver realizzato gli interventi – non può essere concessa né per nuove superfici, né per nuovi volumi. Lo dice la legge. Che in molti Comuni dell’Isola interpretano forse in maniera un poco lasca.
Si potrebbe pensare ad un caso isolato. E invece no. A scorrere la lista infinita delle autorizzazioni e delle sanatorie concesse dal 2012 a oggi dall’ufficio Tutela del paesaggio della Regione e dai singoli Comuni delegati – a occhio e croce circa 15mila pratiche – c’è da rimanere esterrefatti, tanto che il caso della funzionaria meneghina pare una quisquilia.
Un’anticipazione: tra le carte compare anche Luigi Del Fabbro, che per conto di Mediolanum SpA chiede quindici accertamenti paesaggistici in sanatoria, per altrettanti interventi sugli immobili che la banca di Ennio Doris e Silvio Berlusconi possiede a due passi dal mare di Cala del Faro, a Porto Rotondo. Spicca il placet richiesto per “l’ampliamento” di un fabbricato “con modifiche interne ed esterne”, chiaramente in ambito vincolato. Gli uffici comunali non battono ciglio: 583 euro e il problema è risolto.
Di nomi illustri, come si vedrà nei prossimi giorni, i documenti sono zeppi: politici di primissimo piano, personaggi dello sport e dello spettacolo, magnati e capitani d’industria che in Sardegna hanno trovato il paradiso del mattone (e spesso dell’abuso) a costo zero. Come un noto imprenditore, in questo caso isolano doc, che dalla Regione ha ottenuto una decina di nullaosta per altrettanti interventi realizzati nel suo albergo di lusso in riva al mare, sulla scorta del condono Berlusconi del 2003, che però non ammette sanatorie per nuovi volumi in ambito vincolato, come in questo caso: in Regione non se ne sono accorti. Tutto sanato ex post, come gli scantinati che si trasformano in abitazioni col benestare degli uffici comunali e a volte con esiti tragici, si veda alla voce alluvioni. 
E se non si è trattato di condoni e sanatorie, nel 2009 a soccorrere gli amanti del cemento castrati dal Piano paesaggistico regionale sono arrivati il governatore Ugo Cappellacci e l’assessore all’Urbanistica Gabriele Asunis,padri nobili del Piano casa. Al grido di “liberi tutti”, il colpo di spugna permetteva di ignorare gli indici massimi di edificabilità e le normative regionali, a partire proprio dal Ppr. Cosa puntualmente avvenuta, con le colate di cemento anche entro i 300 metri dal mare – possibilità cassata dalla giunta Pigliaru in sede di proroga – e perfino nel bel mezzo di un parco nazionale, come si vedrà nei prossimi giorni. Tra i fan del Piano casa: Silvio Berlusconi con Villa Certosa,l’immobiliarista ed editore Sergio Zuncheddu con l’ampliamento dell’hotel di lusso Abi d’Oru nello splendido golfo di Marinella, una nutrita schiera di oligarchi russi innamorati della Costa Smeralda e degli ampliamenti volumetrici.
In definitiva il Piano casa ha fatto da cavallo di Troia per bypassare con nonchalance ogni norma, prima di stramazzare miseramente al suolo nel 2016, quando la Corte Costituzionale ha sancito che quelle “deroghe” non erano propriamente costituzionali. Ad esempio, non potevano scavalcare il Ppr. Peccato che dall’approvazione del Piano Casa al pronunciamento della Consulta siano trascorsi sette anni e gli uffici della Regione abbiano accordato, durante quel periodo, una valanga di autorizzazioni senza colpo ferire. E spesso saltando un passaggio obbligato: la richiesta del parere vincolante della Soprintendenza ai Beni architettonici e paesaggistici. Anche per questo associazioni ambientaliste come il Gruppo di intervento giuridico hanno segnalato tutto alla Procura di Cagliari. E lo stesso ha fatto, come risulta a Sardinia Post, un solerte funzionario della Regione Sardegna, che oltre a interessare la magistratura, ha informato anche l’Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione e il Corpo forestale dello Stato.
Il quadro complessivo fa tremare i polsi. Ne daremo conto nei prossimi giorni, con nomi e cognomi.