giovedì 27 dicembre 2018

Contro il dominio dell’automatico - Amador Fernández-Savater



Trascorriamo la giornata guardando, ma siamo capaci di vedere qualcosa? Qual è il rapporto tra vedere e pensare? E in che senso la percezione è un problema politico? Il dominio degli stereotipi ci rende ciechi e ottusi.
Lo scrittore Albert Camus ha detto: “Pensare è apprendere di nuovo a vedere e a prestare attenzione”. È una frase sorprendente  perché il pensiero non si vincola al sapere, al conoscere, all’analisi o alla verità, ma alla trasformazione della percezione e dell’attenzione.
Apprendere: andare oltre il conosciuto. Di nuovo a vedere: ricreare il nostro sguardo su qualcosa, vederlo in modo diverso. E a prestare attenzione: prendere in considerazione una altro piano della realtà, un altro tipo di segnali.
Affronterò questa immagine del pensiero, come ricostruzione dello sguardo e dell’attenzione, con due esempi che ho a portata di mano. E incoraggio tutti a immaginare i propri.

Rinominare la realtà
Il primo è un articolo breve  che di recente mi ha inviato la mia amica Amarela Varela, perché sia pubblicato su eldiario.es. Amarela è una professoressa di Città del Messico e da molto tempo è impegnata – con la parola e con il corpo – nei movimenti e nelle lotte dei migranti. L’articolo parla della carovana di migranti, in maggioranza honduregni, che in questi giorni attraversa il Messico verso gli Stati Uniti, monopolizzando la visibilità mediatica globale (l’articolo di Amador è stato scritto a metà novembre, ndt).
Amarela spiega che la massiccia migrazione centroamericana non è una novità in Messico. La novità è come ora si è organizzata: dopo una lunga storia di arresti, deportazioni e massacri, i migranti si sono messi a camminare assieme, autonomamente, senza i coyotes di mezzo, con una voce pubblica e propria, accompagnati da organizzazioni per i diritti umani e da mass media.
L’articolo è un invito a vedere la politicità di questo gesto di autonomiaA smettere di guardare ai migranti solo come vittime della fatalità o come persone manipolate da qualche complotto dei potenti. A prestare attenzione e ad ascoltare la loro voce, quello che loro stessi dicono della loro situazione e della loro esperienza.
In questa nuova politicità, non troveremo sicuramente alcuni degli elementi classici (programma o slogan anticapitalistici, ecc.), ma una disobbedienza praticata con il corpo al regime delle frontiere e un interpellare positivo alla solidarietà del popolo messicano, che sta rispondendo con gesti di ospitalità radicale molto incoraggianti.
L’articolo di Amarela conclude dicendo: “Non è una carovana di migranti, ma un esodo di sfollati, però soprattutto è un nuovo movimento sociale che cammina per una vita vivibile”.
Qual è la forza di questo articolo? A mio giudizio, consiste nella sua capacità di rinominare la realtà. Rinominando la realtà, vediamo qualcosa di diverso e la nostra attenzione si attiva. Penso che quel gesto di spostamento spieghi l’impatto che il testo ha avuto su tanti lettori.
Ne posso parlare in prima persona: seguivo quanto accadeva con la carovana di migranti attraverso le immagini della televisione, ma niente di quanto veniva detto o mostrato ha rotto, in alcun momento, la barriera degli stereotipi che anestetizzava la mia percezione: “Ahi, povera gente”. Guardavo, però non vedevonulla. Niente di particolare, niente che mi colpisse.
Ma all’improvviso c’è qualcosa da vedere. All’improvviso si apre qualcosa da vedere.
Vista così, come ci propone Amarela, possiamo percepire altre cose nella carovana. Non si tratta solo di vittime spinte dalla disgrazia o manipolate dai politici, ma c’è anche capacità politica, intelligenza, autonomia. E possiamo ascoltare anche un appello: a inventare gesti di solidarietà, ma non più con la disgrazia che ha toccato gli altri, ma con una lotta che ci riguarda.
Un’immagine allontana e raffredda: “Sono le disgrazie altrui”, “Non bisogna fidarsi degli altri perché sono manipolati”. Mentre l’altra avvicina e invita: “Qui c’è una potenza, c’è qualcosa che non conosci”, “Presta attenzione e torna a guardare”.
Qualcosa che altrimenti non è chiaro. Perché l’articolo non cambia un’etichetta con un’altra, affermando per esempio: “Non sono vittime, ma un altro movimento sociale”. Questo “nuovo movimento sociale” che è la carovana, non è ovvio, non è evidente, non è un classico movimento sociale. Il testo ci propone di avvicinarci per vedere e pensare qualcosa che ancora non è stato visto e pensato.
Chiameremo “immagine feconda”, quest’immagine che ci dà qualcosa da vedere. L’immagine che ci commuove e ci colpisce. L’immagine che ricrea il nostro sguardo e che ci dà da pensare. L’immagine aperta e incompiuta che richiede da noi un movimento.

Non c’è niente da vedere: gli stereotipi
Queste immagini possono provenire dai luoghi più diversi, dal cinema o dal saggio, dalla fotografia o dalla poesia, dal teatro o dalla letteratura, si possono fabbricare con materiali molto differenti (parola, colore, gesto, movimento), ecc.
Il problema, pertanto, non è che viviamo in mezzo a un’inflazione di immagini, ma a un’inflazione di immagini sature e saturanti: gli stereotipi.
Lo stereotipo è un senso impacchettato. Che dice, cosa fa? “Qui non c’è niente da vedere”. Vale a dire: non c’è nulla che non avessimo già vistoIl mondo è già-visto, già-sentito, già-pensato.
Lo stereotipo è una risposta automaticaIl risultato dell’applicazione di un codice sulla realtà: mediatico, politico, ideologico, ecc. In questo modo non vediamo o pensiamo più, ma semplicemente riconosciamo. Non vediamo o pensiamo, ma solo ricordiamo ciò che sta nel codice.
I codici non sempre sono consci, ma funzionano attraverso di noi: siamo visti, pensati e agiti da loro. Balzano fuori automaticamente lì dove non c’è un lavoro di elaborazione propria. Durante la maggior parte del tempo, noi siamo ripetitori di stereotipi. Ci riteniamo unici, ma siamo fatti in serie.
Cos’è che vediamo se presupponiamo la realtà a partire da un codice?Solamente illustrazioni del nostro racconto precedente, metafore della nostra spiegazione del mondo, riflessi servili del codice applicato. Ogni volta lo stesso:mai oggetti o avvenimenti unici, sempre casi di una serie. Un’altra disgrazia ancora, un’altra manipolazione ancora, un altro movimento sociale ancora….
Dal codice, lo sguardo vede sempre ciò che vuole vedereLa realtà si appiattisce, si semplifica, si riduce: scartiamo come rumore tutto ciò che non rientra nel codice, che è proprio tutto ciò che potrebbe darci da pensare. Le ombre, le contraddizioni, le impurità, la confusione del reale.
Secondo il filosofo, la dignità di qualsiasi cosa – da un essere vivente fino a un evento – consiste nell’essere trattata come un fine e non come un mezzo. Lo sguardo codificato è tuttavia uno sguardo che strumentalizza: non vede nient’altro che pezzi e mezzi dei fini. Niente ha valore o potenza in sé, la potenza di dare origine a nuovi sguardi, idee o azioni.
Ci indigniamo quando vediamo come i codici altrui trattano la dignità delle cose che conosciamo e che amiamo. Perché le forzano fino a farle rientrare nelle forme precedenti e le violano fino a far loro dire quello che si vuole che dicano. Molto di rado, però, riesaminiamo in modo critico i codici stessi.
Lo stereotipo anestetizza la nostra percezione, ma non in modo freddo e spassionato. Al contrario: quasi nulla ci produce più godimento e ardore che il ripetere gli stereotipi. Li replichiamo come se stessimo affermando quanto di più intimo, più profondo e più autentico del nostro essere. Ci emozionano, ci infiammano, ci portano fino alle lacrime. C’è una vera passione per la ripetizione, la conferma, la mimesi, l’adesione. È il godimento del riconoscimento e dell’identità.
Infine, lo stereotipo cerca il potere: riprodursi, diffondersi, convincere, vincere, occupare l’intero spazio di attenzione. È un potere di saturazione, di assimilazione, di normalizzazione. Vuole di più di sé stesso, eliminare tutto il resto. Che non rimanga nulla da vedere, che non rimanga nulla da pensare.

Pensare a partire dai dettagli
Un secondo esempio, questa volta una storia personale. Pochi giorni dopo che il 15M era emerso nelle piazze di tutta la Spagna, ho sentito il desiderio di scrivere su quanto stavamo vivendo. Di solito, si scrive per condividere ciò che si è capito, ma in questo caso si trattava di scrivere per capire, scrivere proprio perché non capisci.
E come scrivere su quello che non capisci? Al riguardo, nelle conversazioni con gli amici alla Puerta del Sol, uno di loro mi cita una frase dello storico greco Erodoto sul suo metodo: “Annoto tutto ciò che non capisco”. Comincio allora a registrare dettagli della piazza che richiamano la mia attenzione e che mi danno da pensare: micropercezioni,  sensazioni, domande, appunti di conversazioni, una certa scena, un certo slogan, un certo dipinto, balbettii di interpretazione o riflessione alla luce di quanto succede, un certo intervento in assemblea, un grido, una vibrazione, un tono affettivo…
Compongo così un “quaderno di dettagli”, che pubblico a puntate (fino a nove) nel mio blog del giornale Público con il nome di “Apuntes de acampadasol”.
Vedere è la cosa più difficile, perché prima bisogna fermare il mondo. Quello che dice lo stregone Don Juan al suo apprendista Carlos Castaneda in quella serie di mitici libri degli anni 60-70 . Cosa significa fermare il mondo? Fermare la descrizione che gli dà forma giorno dopo giorno, la descrizione che condividiamo e che costruisce una percezione del mondo consensuale e normalizzata. Fermare gli automatismi.
Nel mio caso, fermare il mondo ha significato anche fermare le teorie filosofico-politiche tra le quali vivo – per vocazione e professione – e che sono state subito dispiegate per spiegare quello che succedeva. Perché qualsiasi cosa può trasformarsi in codice e non lasciarci vedere, anche una teoria molto sofisticata che è nata per rendere conto della complessità socialeApplicarla sulla realtà può essere un modo come un altro di presupporreciò che succede con schemi precedenti e non ascoltare. Quindi, invece di vedere la piazza 15M o quel che si vuole, vediamo il codice di Jacques Rancière, di Toni Negri o di Ernesto Laclau. E la materialità delle cose vive si dissolve in astrazioni spettrali.
Mettere un po’ tra parentesi le teorie e pensare a partire dai dettagli:questo è stato il mio modo particolare di fermare il mondo al fine di vedere. Un modo di entrare in contatto, lasciarsi toccare e colpire da quanto accadeva.
Mentre applicare un codice qualsiasi è un modo di dematerializzare la realtà, il dettaglio è al contrario un colpo di colore, di voce, di affetto o di intensità. E dico colpo perché non lo scegliamo esattamente noi: è il dettaglio che richiama la nostra attenzione, non la nostra attenzione che scopre il dettaglio. Ci richiede un’attenzione che non è di caccia e cattura, quanto piuttosto di attenzione galleggiante.
Il dettaglio non lo possiamo riconoscere o ricordare. Non è illustrazione, una metafora o il riflesso di un codice precedente. È quello che c’è da vedere e da pensare. Non è la conclusione di qualcosa, bensì un’apertura, un inizio del viaggio. Non ha già un senso: è ciò che apre la via alla creazione di senso.
Il dettaglio è sempre unico: non è mai il caso di una serie, ma sempre tale, così, questo, questa, qui, adesso.
E una singolarità alquanto opaca o misteriosa. È ciò che non torna, ci fa domande, ci pone problemi, ci mette a disagio, ci induce a smuoverci. Per questo motivo, quelli che vogliono elevare la “chiarezza” e la “comunicabilità” a regola generale dell’espressione o della creazione, in realtà non vogliono vedere o pensare nulla: solo il già visto e pensato è chiaro e trasparente, “immediatamente comunicabile”.
Il dettaglio passa per il corpo, ma in maniera diversa dal godimento dello stereotipo. Non ci conferma di fronte alla realtà, ma ci pone in relazione con essa. Ci commuove: ci tira fuori dalle nostre caselle e ci apre all’altro. Ci incita, ci apre gli occhi, attiva la nostra curiosità, ci connette e ci coinvolge con il mondo. Non è il godimento della stabilità, ma il piacere di una certa destabilizzazione.
Infine, il dettaglio non vuole il potere: un dettaglio non si oppone agli altri e possono esserci tanti dettagli quanti sono i viaggi del pensiero. Il dettaglio non satura il visibile, ma lo apre. Non pretende di dire ciò che si deve pensare, ma dà da pensare.

Intensificare un sapore
Tutta una venerabile tradizione di pensiero diffida dei dettagli in modo radicale. Platone diceva: “Per pensare bisogna strapparsi gli occhi”. Ciò che è sensibile porta all’errore: vediamo una cosa, ma la verità è altrove. Bisogna sospettare di quanto accade e perseguire l’eterno, il fisso e l’immutabile. I dettagli sono solo apparenze o sintomi di ciò che è essenziale e vero. Si tratta di astrarli, vedere il mondo con l’occhio della mente.
Seguendo questa tradizione, nelle nostre accademie e università, oggi si obbligano gli studenti che fanno un lavoro a elaborare anzitutto un “quadro teorico”. In primo luogo, fabbricarsi delle lenti. Quindi, applicarle a questo o quell’oggetto di pensiero. In realtà, ciò che così si insegna è a diffidare di quello che si vede. Di quello che uno può vedere per conto suo, dei dettagli che lo colpiscono e che possono attivare il pensiero.
Due sono le conseguenze nefaste di questa procedura. In primo luogo, lo studente rimane, così, insicuro e fragile: il quadro teorico non sarà mai sufficientemente solido, mancheranno sempre riferimenti e letture. Nell’idea del sapere come accumulazione saremo sempre in deficit, in difetto. In secondo luogo, lo studente si trasforma in un ripetitore: vede solo quello che il quadro teorico (un autore o una serie di autori) lo lascia vedere. Non si permette di vedere da solo, di trasformarsi lui stesso in autore.
Pensare è fuggire da questa prigione. Autorizzarci a pensare a partire dai dettagli che ci colpiscono, come il solo modo di produrre qualcosa di diverso e di nostro.
Il dettaglio non è il piccolo, l’isolato, ciò che trova il suo senso in un’altra parte (la parte di un tutto), bensì quel che contiene in sé il mondo (il tutto sta nella parte). Possiamo distendere il dettaglio: tirarlo e tirarlo fino a dispiegare il mondo intero che contiene.
I riferimenti esistenti possono servire per intensificare i dettagli. Proviamo a pensare che il dettaglio sia un sapore. Quali condimenti intensificano quel sapore? Ci sono condimenti (e modi di combinarli) che cancellano il sapore, lo annullano. Ma altri lo possono prolungare e raffinare. Un certo autore o una certa teoria valgono se e solo se intensificano il sapore unico del dettaglio.
È una questione di cucina. Il buon condimento coglie e valorizza il sapore del dettaglio. E quello cattivo lo copre: non ci permette di apprezzare la materialità di una situazione, la particolarità di questo o quel dettaglio della realtà. Non ci fa assaporare il mondo da una prospettiva singolare, la prospettiva di qualcuno. Lo schema teorico sostituisce il dettaglio invece di intensificarlo. E allora tutti i dettagli hanno lo stesso sapore. Riconosciamo così un cattivo autore.

Credere nel mondo
Comprendere senza pensare, pensare senza ascoltare, ascoltare senza sentire: il dominio degli stereotipi è profondamente nichilista. Ci aliena dal mondo. Come mai? In che senso?
Nulla di ciò che c’è si prende in modo affermativo, per la sua potenza di dar luogo a, ma sempre in funzione del nostro codice, di quello che vogliamo vedere. Con lo stereotipo non succede mai nulla, torna sempre qualcosa.
L’importante non è mai qui e ora, davanti agli occhi, ma nelle linee del nostro codice. Il mondo e i suoi dettagli non ci importano più, non ci richiedono più: è la vittoria dell’indifferenza e della sfiducia verso quanto c’è, verso quanto accade.
Al contrario, l’immagine feconda fa succedere qualcosa, rilancia e condivide qualcosa che ci è successo. Ci permette così di tornare a “credere nel mondo”: ci sono cose da vedere, cose da pensare, cose da fare.L’immagine feconda ci apre alla ricchezza di quanto viene dato come ovvio, di quanto è catturato nello stereotipo. Quello che (ci) succede, importa. Il mondo è pieno di dettagli, quindi è pieno di punti di potenza. Possiamo averne fiducia.
La povertà o la nullità di una situazione si trova prima nel nostro sguardo stereotipato rispetto alla situazione stessa. Pensare (e dar da pensare) è imparare di nuovo a vedere e a porre attenzione. È, in definitiva, apprendere a essere presenti nel mondo, a essere vivi nella vita.


Riferimenti:
Questa è una versione delle note che ho letto di recente in due contesti di lavoro sull’immagine cinematografica: Zineleku (Vitoria)  e  Cine por Venir (Valencia).
I migliori riferimenti, come sempre, sono le conversazioni con tutti gli amici e maestri nell’arte del vedere: Marta Malo, Hugo Savino, Amarela Valera, Miriam Martín, Arantza Santesteban, Diego Sztulwark, Juan Gutiérrez, Jun Fujita, Lucía Gómez, José Miguel Fernández-Layos, Franco Ingrassia (al quale rubo l’espressione “immagine feconda”), Francisco Jodar (che mi ha fatto vedere la questione di “credere nel mondo” a partire da Gilles Deleuze).
Il sapore dei dettagli e gli stereotipi si è intensificato con i concetti di “segni” e “tensori” di Jean François Lyotard in  Economia libidinale.
L’immagine in alto è un dettaglio dell’opera  Esto es lo verdadero, di  Rafael Sánchez-Mateos Paniagua e Fernando Baena, anche loro maestri nel vedere, nel lasciar vedere.

Articolo pubblicato su eldiario.es con il titolo “Dar a ver, dar que pensar: contra el dominio de lo automático“.
Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo

mercoledì 26 dicembre 2018

Sorpresa: il governo del cambiamento regolarizzerà gli abusivi della sanità - Elisa Serafini



Fisioterapisti, ostetrici, tecnici della riabilitazione. Si stava per istituire un albo professionale per queste figure. Ma il ”Governo del cambiamento” ci ha messo lo zampino. Aprendo a chi non ha svolto i corsi universitari le porte della professione. Non sapremo sotto le mani di chi finiremo.
C’è fermento tra chi, in Italia, ha studiato fisioterapia, ostetricia, tecniche della riabilitazione e altri corsi delle facoltà sanitarie italiane. Centinaia di migliaia di giovani che hanno scelto di investire in percorsi universitari, sostenendo decine di esami e svolgendo tirocini professionalizzanti.
Professioni, per loro natura, molto delicate, visto l’impatto che hanno sulla salute di pazienti e cittadini. Ebbene queste professioni, oggi, rischiano di essere letteralmente calpestate da un emendamento sostenuto dal Governo, che equipara, di fatto, la professione svolta da chi è abilitato con corsi universitari, a quella di chi, magari, non ha neanche mai aperto un libro o effettuato un’esercitazione.
Andiamo con ordine: lo scorso anno, su richiesta delle diverse categorie delle professioni sanitarie, il Ministro Lorenzin aveva avviato la creazione di specifici albi professionali, con l’obiettivo di regolarizzare lo svolgimento delle professioni sanitarie I professionisti (infermieri, fisioterapisti, ostetriche, tecnici riabilitativi ecc..), erano quindi stati invitati a versare, nell’arco del 2018, un contributo di circa 300 euro, per potersi iscrivere all’albo, la cui entrata in vigore era prevista per il 2019. Facendo una rapida stima, considerando i circa 250.000 professionisti, un incasso di oltre sette milioni di euro. Non male.
Pochi giorni fa, però, la sorpresa. Viene presentato un emendamento (il numero 1.6003, modifica alla legge 42/99) che istituisce un elenco “speciale”, che garantisce la continuità della professione, a chi ha svolto per trentasei mesi, anche non continuativamente, negli ultimi dieci anni, l’attività professionale senza averne i titoli.
Una persona che in questi ultimi dieci anni, ha svolto per almeno 36 mesi, autonomamente o da dipendente, una professione sanitaria senza titolo di studio, potrà continuare ad esercitare la stessa professione di chi ha seguito un percorso universitario
Tradotto: una persona che in questi ultimi dieci anni, ha svolto per almeno 36 mesi, autonomamente o da dipendente, una professione sanitaria senza titolo di studio, potrà continuare ad esercitare la stessa professione di chi ha seguito un percorso universitario di tre anni con tirocini, specializzazioni e quant’altro.
Una persona che ha effettuato un corso professionale di qualche mese, potrà quindi scrivere sul biglietto da visita la stessa professione di un professionista che ha conseguito la laurea in un corso di professioni sanitarie. Non solo, potrà anche scrivere “iscritto all’albo”, creando ancora più confusione tra i consumatori e i pazienti. Per questo motivo, le associazioni di categoria hanno diramato diversi comunicati, tuonando contro il Ministro Grillo complice di aver scelto di sostenere una politica di “sanatoria tombale”.
Qualcuno riterrà, che dovrebbe essere il mercato a stabilire chi può o non può svolgere una professione.Vero, ma quando si tratta di salute è legittimo domandarsi se l'asimmetria informativa che si verifica tra paziente e professionista, non debba essere compensata, almeno in parte, dalla trasparenza di accesso ai titoli di chi esercita la professione poichè effettuare una scelta di consumo che riguarda la propria salute, non è proprio come scegliere un avvocato, un tassista, o un notaio.
Il governo riesce magistralmente in due obiettivi: scontentare chi è a favore degli albi e della regolamentazione delle professioni, e chi è contrario agli ordini professionali, incassando, al tempo stesso, milioni di euro.
Infine il paradosso, ed il capolavoro dell’esecutivo: istituendo ben due albi, il governo creerà nuova spesa pubblica, peggiorerà gli adempimenti burocratici, e incasserà milioni di euro senza tutelare, alla fine, proprio nessuno: nè professionisti, nè pazienti.

martedì 25 dicembre 2018

Perché salvare insieme dune e spiaggia di Chia non vuol dire “pagare un riscatto”



E’ davvero molto grande il sostegno collettivo creatosi in pochissimi giorni in favore della campagna promossa dall’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridico onlus Salviamo insieme dune e spiaggia di Chia” con il coinvolgimento di tantissime personeche hanno ben compreso il significato “popolare” dell’acquisto di parte delle   dune e della spiaggia di Chia, uno straordinario gioiello del Mediterraneo.
L’obiettivo, come noto, è salvaguardare le dune e la spiaggia anche per le generazioni future e garantirne la fruizione pubblica.
Non vogliamo certamente sostituirci a chi istituzionalmente deve perseguire il fine pubblico della tutela ambientale.
Non ci passa nemmeno per l’anticamera del cervello.
StatoRegioniComuni, qualsiasi amministrazione pubblica competente dovrebbe farlo per dettato costituzionale (artt. 9 e 117 cost.).
Ma che succede se non accade?
In Sardegna dovrebbe provvedere specificamente l’Agenzia per la Conservatoria delle coste, lodevolmente istituita qualche anno fa proprio su nostre forti richieste, ma colpevolmente è consegnata da anni alla completa inoperattività.
La presenza anche dei più forti vincoli di tutela lungo le coste non esclude, poi, che il proprietario possa chiudere l’accesso ai comuni mortali.
E’ successo e continua a succedere: da Capo Ceraso allo Scoglio di Peppino, alla Valle dell’Erica.
Se qualsiasi intervento di tutela ambientale e per salvaguardare gli interessi collettivi dovesse essere prerogativa esclusiva delle amministrazioni pubbliche, non esisterebbero le associazioni ambientaliste: per esempio, il WWF non avrebbe potuto acquistare la foresta di Monte Arcosu, meritoriamente salvandola dal taglio e contribuendo a salvare il Cervo sardo, il F.A.I.non avrebbe potuto acquisire Casa Dal Prà per poterla meritoriamente poi aprirla al pubblico, Legambiente non dovrebbe svolgere le meritorie giornate di Puliamo il Mondo, visto che si tratta di tipica attività di competenza delle amministrazioni locali, né meritoriamente Italia Nostra potrebbe gestire e aprire al pubblico la Torre Canai.
Non si tratta nemmeno di “pagare il riscatto” per liberare un bene ambientale, come qualcuno potrebbe pensare.   Non significa che associazioni e cittadini debbano comprare tutte le aree costiere “a rischio”.   Questo sì, sarebbe compito delle amministrazioni pubbliche.
Acquistare parte delle dune e della spiaggia di Chia non significa sostituirsi ad alcuna amministrazione pubblica, significa intervenire per tappare un buco al fine di garantire la salvaguardia di un’area ambientale di elevatissimo pregio e la permanenza della fruizione pubblica.
Possiamo farlo insieme.
Per farlo abbiamo bisogno dell’aiuto di tutte le persone che tengono al proprioambiente, alla propria identità, al futuro della propria Terra.
Contribuisci all’acquisto delle dune e della spiaggia di Chia con un versamento sul conto corrente postale n. 22639090 intestato a “associazione Gruppo d’Intervento Giuridico“ (causale “dune e spiaggia di Chia”) oppure con un bonifico bancario con il codice IBAN IT39 G076 0104 8000 0002 2639 090 (per i versamenti dall’Estero il codice BIC/SWIFT è BPPIITRRXXX).
A chi contribuirà con almeno 30,00 euro sarà inviato un simbolico attestato di benemerenzae la tessera associativa, se gradita.
Ricordiamo, fra le tante agevolazioni previste, che per le erogazioni liberali in favore delle onlus come il Gruppo d’Intervento Giuridico è prevista la detrazione del 19% degli importi donati fino a un massimo di 2.065,83 euro (art. 15, comma 1°, lettera i – quater, del D.P.R. n. 917/1986 e s.m.i., testo unico delle imposte sui redditi – T.U.I.R.).
Naturalmente anche imprese e aziende rispettose dell’ambiente possono contribuire e ne sarà dato ampio risalto.
Il nostro ambiente e la nostra identità non sono in vendita, insieme possiamo dimostrarlo concretamente!
Gruppo d’Intervento Giuridico onlus

domenica 23 dicembre 2018

La matematica degli ultimi - Alessandro Ghebreigziabiher




C’erano una volta leggere far di conto.
Ah, quanto erano importanti, essenziali e imprescindibili da ogni umano scopo, allora.
Eppure, quanto lo sono ancora oggi, malgrado l’acuto starnazzare là fuori, con tutto il dovuto rispetto per il volatile verso.
Leggi pure come il rumore della folla senza volto di quantità artificiosamente gonfiata.
Ecco, esatto, il gioco, ovvero il trucco è tutto là.
Le parole ingannevoli in una mano e i numeri fasulli nell’altra.
E celate nelle maniche di entrambe i sottovalutati cuore coscienza, dalla cui percezione nell’espressione altrui potresti avere la più attendibile macchina della verità mai esistita.
Nondimeno, leggere e far di conto, oggi sembrano superati.
Nel mondo attuale, tu guarda credi, agli slogan, certo, ma soprattutto ai loro, di numeri.
Dove una donna coraggiosa, Patricia Okoumou, la quale scalò la Statua della Libertà per protestare contro una nazione insensibile innanzi alla migrazione che è linfa stessa del suo esistere, diventa l’una, la sola, punita per educarne cento.

Il mondo dove i governi non si fanno eleggere più con le promesse, più o meno mantenute, bensì con il cuoricino di gradimento e la popolarità sottoscritta ancor prima di avere le dovute risposte, senza i quali né Salvini e tantomeno Di Maio avrebbero in mano il destino di un paese.

Da ciò, l’assurda, inquietante, eppur ormai dimostrata equazione: due, loro, moltiplicati per milioni di “mi piace” e “ti seguo” – giammai voti –uguale guidare sessanta milioni di persone.
Il mondo, altresì, dove inevitabilmente e per fortuna la politica infame contro i rifugiati e addirittura l’aborto ti porta a rimanere solo, magari con al fianco l’Ungheria, di fronte al resto, compatto delle Nazioni Unite.

Ciò nonostante, laddove quell’uno sia il più potente e temuto tra tutti, ecco che ogni calcolo può risultare irrisorio.
Se tutto ciò non bastasse, il mondo dove, ripetendo esattamente non il retto esempio, piuttosto uno tra i più atroci crimini del passato, le genti più fragili e bisognose di protezione e sostegno, come i bambini, vengono marchiati con dei numeri ignobili.

Ebbene, voi che contate sull’ineluttabilità delle vostre disumane formule, sappiate che dove il vostro avido occhio non può di certo arrivare esiste un’altra matematica.
Quella degli ultimi.
La storia lo racconta, la natura lo dimostra, questo è il nostro teorema.
Noi dividiamo lo zero che ci avete lasciato in parti uguali ed è così che diviene infinito.
Noi possiamo solo sottrarre, è vero, perché le somme le avete tutte voi, ma non siete in grado di immaginare quanto sia possibile sopravvivere alle privazioni.
Si chiama resistenza, è un assioma incorruttibile, ed è per questo che in ogni secolo fate l’errore di sottovalutarlo.
È così che ciò che per voi è poco, per noi diventa tutto.
Lentamente, certo, senza clamori, d’accordo.
Ma è così che ci riprendiamo il nostro.
Come fa la terra, così facciamo noi.
Come fiocchi di neve calpestata, costretti a un’esistenza ripida, inesorabilmente ci facciamo valanga.
Come granelli di polvere gettati nel vento, come tale torniamo indietro più forti di prima.
Come gocce di sangue martire, ci consoliamo a vicenda di ogni patimento.
Questo ci rende popolo reale, quello che voi non sarete mai.
C’erano una volta, quindi, leggere far di conto.
Ecco, verrà il giorno in cui
sarete obbligati ad allontanare lo sguardo dai sacri andamenti della borsa per vedere a occhio nudo e finalmente capire.
Cosa voglia davvero dire.
Essere in tanti


sabato 22 dicembre 2018

Una medaglia di sabbia dal Niger - Mauro Armanino


La seconda medaglia storica ai giochi olimpici di Rio del 2016 è d’argento. In continuità con la lotta tradizionale nigerina, il giovane Alfaga Abdoulrazak è arrivato in finale nella specialità di taekwondo. Si è guadagnato l’argento  e meritatamente gli onori di casa. È diventato da allora un modello per i giovani nigerini, abituati a vedere il proprio Paese in fondo alle altre classifiche. Per esempio l’indice sullo sviluppo umano che ci conferma in un discutibile ultimo posto nella lista dei paesi esaminati. C’è invece un primato di cui andiamo fieri e che portiamo con dignità. Con un’ètà media di 15, 4 anni siamo il più giovane paese del mondo. A titolo di illustrazione potremmo ricordare che in Italia, uno dei paesi più vecchi, la media di età è di circa 45,5 anni. I nostri, qui, sono anni spuntati da poco, da quindicenni appunto. Anni verificabili sulle strade, nelle campagne e soprattutto nei reparti di maternità. Portiamo con onore la medaglia di sabbia.
Il primo ad entrare nella leggenda sportiva del Niger è stato un pugile che ha guadagnato la medaglia di bronzo. Si tratta di Issaka Daboré che l’aveva ricevuta nel lontano 1972, ai giochi olimpici di Monaco in Germania. Dopo il bronzo c’è stato l’argento del giovane Abdoulrazake. Festeggiamo adesso ciò che ci compete d’ufficio, una medaglia di sabbia tutta per noi, il Paese più adolescente del mondo. Ci perdonerete se facciamo confusione tra regolare o irregolare, tra certificati di nascita e visa turistico. Per i numerosi colpi di stato, per le eccezioni alla carta costituzionale e ai progetti di sviluppo che non arrivano mai a buon fine. Abbiamo dalla nostra parte l’adolescenza, la prima giovinezza e l’infanzia che ci accompagna. Non ci sogneremmo mai di competere con voi in altri ambiti ben più importanti. Alla vostra età si presume un saggezza che non abbiamo. Per esempio fare armi sofisticate, banche virtuali, speculazioni finanziarie, muri di cinta e ponti levatoi tra un mare e l’altro. E non è finita qui. Con 45 anni di media avete paura di vivere invece di rischiare come da noi. 

C’è chi è ancora più piccolo di noi, la bimba guatemalteca che, dopo non aver mangiato e bevuto per alcuni giorni, è morta disidratata prima di raggiungere l’ospedale. Aveva sette anni e aveva appena passato l’ultima frontiera della vita con suo padre e altri migranti come lui. Un lungo viaggio senza ritorno dal suo Paese all’Altro. Quello dove le frontiere sono armate, assediate e studiate perché le bambine come lei non arrivino mai a destinazione. Sette anni sono pochi, soprattutto per chi possiede una media di età che si avvicina ai cinquanta. La piccola è più vicina alla nostra media, appena quindici anni e tutta una vita davanti. Ecco perché, in definitiva, cominciamo a pensare che la saggezza non dipende dall’età, ma dal luogo di nascita. C’è chi a sette anni è molto più maturo di chi ha una media di età che supera i quarantacinque anni. Pochi di voi, possiamo supporre, mai non hanno mangiato e bevuto per alcuni giorni. Meno ancora coloro che hanno passato illegalmente le frontiere. La saggezza della piccola non è bastata a salvarla. Vorremmo dunque dare a lei, la piccola guatemalteca di sette anni, la medaglia di sabbia a cui tenevamo tanto. Come un fiore tra i capelli.

Niamey, dicembre 2018

giovedì 20 dicembre 2018

il turismo procreativo - Massimo Crivelli

Certo che noi sardi a volte siamo un po' bizzarri. Siamo capaci di prendere cappello per una battuta infelice (il "sorcio nero" di Panatta a un giocatore rossoblù, il "Ti mando a Ovodda!" di Amendola in uno sceneggiato televisivo) - delle inezie, insomma - e invece non battiamo ciglio di fronte ad autentiche nefandezze che riguardano questioni serie e che, occorre aggiungere, spesso sono dei veri e propri autogol che confezioniamo senza il concorso dei tanto vituperati "continentali".
Credo che i trasporti e la sanità siano purtroppo forieri di esempi lampanti. Dalla continuità territoriale vecchia e nuova sino alla sciagurata riforma della sanità potremmo pescare a piene mani argomenti per alzare la voce, reclamare un drastico cambio di rotta da parte dei nostri governanti regionali. Invece tutto passa senza grandi scossoni. E a errore si aggiunge un altro errore, fino a che - improvvisamente- ci svegliamo e ci chiediamo: come è stato possibile arrivare a tanto?
Per limitarci alla sanità, l'ultima perla è un emendamento alla Finanziaria di sette consiglieri regionali (e già approvato) che, nella sostanza, smonta quella che senza tema di smentita possiamo definire una delle nostre eccellenze. Sto parlando della struttura complessa di ginecologia e diagnosi genetica prenatale del Microcitemico di Cagliari. Un reparto sorto nel 1982 grazie alle competenze di un luminare come il professor Antonio Cao e alla sensibilità di un fine politico come Emanuele Sanna.
Negli anni questa struttura pubblica ha acquisito una lusinghiera fama nazionale e internazionale, consentendo a tantissime donne sarde di effettuare indagini prenatali o di accedere alle tecniche di procreazione assistita, sia omologa che eterologa. Bene, l'emendamento in questione ha ottenuto lo stanziamento di una cospicua somma per "garantire" alle coppie residenti in Sardegna l'accesso a queste tecniche medicalmente assistite presso "strutture pubbliche o private accreditate in ambito nazionale ed estero". Cioè, anziché potenziare e accreditare una struttura pubblica sarda che funziona egregiamente, si è preferito dirottare risorse fuori dall'Isola, prevedendo tra l'altro un contributo che di certo non basterà a coprire gli ingenti costi di una procreazione eterologa in una struttura privata.
Vado oltre i problemi di privacy (qual è la coppia che dichiarerà a cuor leggero di voler accedere alla procreazione eterologa?) e di certificazione (chi vidimerà la pratica, un consigliere regionale?), e arrivo alle amare conclusioni. A furia di affidarci a politici che assomigliano ad apprendisti stregoni stiamo snaturando i criteri della sanità, perché i due sistemi, pubblico e privato, vanno contemperati in maniera intelligente e non avventata. E così si torna ai tempi dei viaggi della speranza, con la variante del turismo procreativo.

da qui

mercoledì 19 dicembre 2018

Sofferenza ecologica - Pietrina Chessa



La questione dei diritti animali contiene implicazioni sociali, sanitarie, finanziarie e, non ultime, etiche. Tempo fa, il settimanale “Panorama” ha pubblicato una classifica che attribuiva un voto ai canili da 1 a 5 stelle, sulla base delle condizioni in cui vengono tenuti i cani. Sono stati censiti anche alcuni canili sardi, uno dei quali, a Sassari, è stato definito addirittura la “favelas” dei cani.
A queste notizie se ne sono aggiunte, tempo fa, altre più allarmanti, provocate da una denuncia della Presidente del movimento U.N.A. (Uomo Natura Animali) Leila delle Case, nella quale ha informato sia la Procura della Repubblica, sia l’Assessore Regionale On. Dirindin, sul presunto invio di cani che dalla Sardegna verrebbero trasferiti in Germania, accompagnati da volontari, presso famiglie adottanti. Ci si è chiesti : ma non ci sono cani a sufficienza in Germania, per quelle famiglie i disponibili all’adozione, o, il “cagnetto sardo” sta diventando più ambito e richiesto del “porcetto sardo “? La Sardegna potrebbe diventare famosa per la produzione di randagi da export, mentre importa suinetti, agnelli e cavalli ? Ma tant’è, l’Europa …e la direttiva Bolkenstein forse spingono in questa direzione!
La stampa riporta inoltre che , vi sono Amministrazioni Comunali, che propongono un’alimentazione nelle mense scolastiche fatta esclusivamente di prodotti sardi.
Noi valutiamo positivamente quest’orientamento, legato alla esigenza della tracciabilità, tuttavia, riteniamo opportuno, affiancare alle possibilità di scelta, anche un menu di tipo vegetariano. I cittadini orientano i propri consumi verso alimenti la cui produzione non sia causa di sofferenza animale. Sono numerosi i genitori che si fidano dei nutrizionisti, che sfatano la convinzione secondo la quale la dieta carnea sia la più adatta soprattutto per i bambini e gli adolescenti. Possiamo , a tal proposito citare Benjamin Spock, pediatra di reputazione mondiale. Nella settima edizione del suo “Baby and Child Care”, 1998, (rivista ed ampliata) sostiene : “Per i bambini una dieta a base di vegetali è generalmente più salutare di una dieta che contenga colesterolo, grassi animali ed eccessive proteine che si trovano nella carne e nei latticini. Tuttavia, una dieta vegetariana non deve essere povera di calorie. Le calorie debbono provenire da un’ampia varietà di vegetali a foglia verde, frutta, cereali integrali, fagioli e altri legumi “. Alle considerazioni di tipo salutistico, vanno aggiunte quelle di tipo sociale: Indagini di etnografi, antropologi, storici ed anche biologi mostrano come il consumo di carne abbia poco a che fare con le esigenze alimentari ma, sia, piuttosto, un fatto di abitudini e di costume. Anche lo stile di vita alimentare determina il consumo di gran parte delle risorse del pianeta. Infatti, una dieta carnea prevede questo perverso meccanismo : si adibisce un terreno a pascolo o a coltivazioni di vegetali per nutrire animali da carne o da latte. Ma per ogni chilo di carne ottenuto, ogni animale di media avrà consumato almeno sei chili di vegetali, cereali soprattutto.
Alle considerazioni salutistiche e sociali, si aggiungono quelle etiche: essere vegetariani è un passo necessario per agire, in prima persona, a favore di una vita migliore per la terra e per tutti i suoi abitanti, e per ridurre il fenomeno della fame nel mondo. I dati ribaditi dalla FAO ultimamente sono ormai noti a tutti: 850 milioni di persone al mondo soffrono la fame! Cosi come, termini tipo “ impronta ecologica” sono ormai di comune conoscenza.
Nel numero del 13 settembre la rivista scientifica internazionale “The Lancet”, nell’articolo “Cibo,
allevamenti, energia, cambiamenti climatici e salute” mostra quanto questi aspetti siano correlati
tra loro e quanto sia urgente una diminuzione drastica del consumo di carne per evitare il disastro
ambientale. Nel mondo, le attività agricole, soprattutto l’allevamento del bestiame, sono responsabili per circa un quinto del totale delle emissioni di gas serra, che contribuiscono al cambiamento climatico. L’attuale media dei consumi di carne è di 100 grammi al giorno per persona, ma con molte differenze (anche di 10 volte) tra le varie regioni del mondo.
L’unica soluzione è quella di ridurre il consumo di prodotti animali nei paesi più
ricchi, e fissare una soglia da non superare per i paesi in via di sviluppo, in modo che tutti i
paesi convergano verso lo stesso livello di consumo, molto più basso di quello attuale dei paesi
ricchi: non più di 90 grammi di carne al giorno pro-capite.
“The Lancet “ pubblica inoltre una tabella sui consumi giornalieri di carne pro-capite in grammi
Africa – 31
Asia meridionale e orientale – 112
Asia occidentale (compreso il medio oriente) – 54
America Latina – 147
Paesi in via di sviluppo (media) – 47
Paesi sviluppati (media) – 224
Totale – 101
Per arrivare a 90 grammi, nei paesi industrializzati come l’Italia, occorre dunque più che dimezzare
il consumo di carne, arrivare a un consumo che sia del 40% rispetto all’attuale.
Maggiore sarà la contrazione dei consumi di alimenti animali, maggiore sarà il benessere che si può raggiungere da ogni punto di vista: impatto sull’ambiente, consumo di risorse ed energia, salute, benessere degli animali.
I cittadini più responsabili non si accontentano più di chiedere i cambiamenti necessari alla politica , che sembra molto preoccupata per lo stato del pianeta dal punto di vista ambientale e meno per quello animale, separandolo, come se questo fosse un aspetto a sé stante. Capita che tanti si commuovano occasionalmente per l’orso ucciso dal boccone avvelenato o per la tartaruga o il delfino che si disorientano in mare, a causa dell’inquinamento, ma meno del vitello costretto ad una vita infame per mantenere le sue carni innaturalmente bianche.
Sul consumo di carne, così come sui diritti degli animali – problematiche connesse l’una con l’altra, esiste un’ampia letteratura, in parte frutto di ricerca scientifica. Ha fatto scuola ed è uscito dalla cerchia dei catastrofisti dove era stato confinato Jeremy Rifkin, il quale in Ecocidio (Mondadori, Milano, 2001), esamina e mette a confronto aspetti economici, medici, ecologici ed etici e offre un’ampia rassegna degli studi e della produzione letteraria in merito.
In qualità di presidente ( di sinistra ) di un’associazioni animalista, mi preme sensibilizzare i cittadini, facendoli riflettere sul fatto che la questione dei diritti degli animali è un cosa “di sinistra”, perché : riguarda esseri indifesi, che non hanno voce, cosi come è stato storicamente per tutte le classi subalterne che si sono dovute emancipare, per acquisire pari diritti e dignità, gli schiavi, le donne, le persone di diverso colore, gli omosessuali , i bambini. E cosi dovrà essere per gli animali che, se avessero una vita dignitosa, contribuirebbero a rendere il mondo migliore. Rispettare il loro ciclo di vita naturale è la cartina tornasole dello stato di benessere del pianeta. Le loro condizioni di vita devono essere compatibili con la loro natura, ma ciò non avviene quando vivono stipati in allevamenti intensivi, ingrassati con l’ausilio di farmaci per aumentare il loro peso prima del tempo, perchè l’imperativo è : venderli al più presto. Le loro deiezioni , avvelenano il suolo e l’aria e contribuiscono all’aumento dei costi energetici. Inoltre, altro aspetto importante per il “cittadino consumatore”, la carne di questi animali è gonfia di antibiotici. Chi consuma carne di cavallo, ignora che gli equini provengono dai paesi dell’Est, dove vivono allo stato brado e brucano l’erba di campi contaminati da veleni depositati al suolo, perche’ in quei Paesi , non esistono normative ambientali adeguate agli standard europei. Per non parlare delle sostanze nocive depositate anche a seguito dei conflitti di qualche anno fa. Quei cavalli importati ed avviati alla macellazione, dopo viaggi di sofferenza, nonostante siano previste per legge le soste , guadagnano le prime pagine dei giornali se si rovescia il tir in autostrada o se qualche personaggio famoso ne parla. Il comune cittadino deride gli animalisti perché si preoccupano eccessivamente degli animali, e non si rende conto che gli animalisti, difendendo gli animali, difendono anche la sua salute., Anche la produzione di carne, aggiungendosi all’effetto “dumping” degli altri settori alimentari, aumenta l’impoverimento di masse diseredate e contribuisce ad aumentare la fame nel mondo.