venerdì 29 dicembre 2017

Capovolgere i modi di pensare e di fare - intervista di Pierre Thiesset a Serge Latouche


Un giornalista ecologista molto noto ha scritto di recente: “La mondializzazione, quali che siano le condizioni nelle quali si è realizzata, permette ugualmente una espansione dell’immaginario”(1). Voi, al contrario, non cessate di insistere sul livellamento che la mondializzazione comporta, la distruzione di intere culture, la sparizione di lingue, di modi di vivere… Potreste descrivere ancora una volta questa analisi, che svolge un ruolo centrale nella vostra opera, e spiegare ai nostri lettori il carattere fondamentalmente etnocida dello sviluppo?
Dobbiamo metterci d’accordo su che cosa ognuno di noi mette dietro a ogni parola. Poiché dopo la caduta del muro di Berlino che segna la fine del secondo mondo (e dunque di conseguenza anche del terzo mondo), si è descritta la mondializzazione solo come l’avvento del trionfo planetario della società di mercato, la completa mercificazione del mondo, mentre la mondializzazione dei mercati esiste quantomeno a partire dal 1492, quando gli amerindi pieni di meraviglia hanno scoperto un certo Cristoforo Colombo. Questa “globalizzazione” del mercato segna il momento in cui si passa da una società con un mercato a una società di mercato. Da quel momento l’economia ha completamente fagocitato il sociale, o quasi, e quindi anche la cultura. In questo senso, la mondializzazione è una opportunità soltanto per le imprese multinazionali e per i loro servitori. L’immaginario che l’accompagna non è altro che quello della religione dell’economia (soprattutto di quella ultra-liberista) e della tecnoscienza e non invece il meticciato delle culture. Si tratta quindi piuttosto del compimento della occidentalizzazione del mondo.
L’etnocidio oggi non tocca più soltanto i paesi del Sud come ai tempi della colonizzazione, dell’imperialismo e dello sviluppo, è diventato planetario. Secondo le parole del filosofo Slavoj Žižek, noi tutti siamo degli indigeni nella evoluzione di un capitalismo planetario. Se diamo uno sguardo all’indietro, questa mondializzazione è una evoluzione che segue l’era dello sviluppo, che a sua volta era il seguito di quella della colonizzazione. È necessario comprendere in modo approfondito che in tutte le civilizzazioni, prima dei contatti con l’Occidente, il concetto di sviluppo era completamente assente. In numerose società africane, lo stesso nome dello sviluppo non ha alcuna traduzione nelle lingue locali. E così, in Wolof, si è cercato di trovare l’equivalente del concetto di sviluppo in una parola che significa “la voce del capo” I camerunesi di lingua Eton sono ancora più espliciti, essi parlano del “sogno del bianco”. E gli esempi si potrebbero moltiplicare(2).
Certo, oggi in Africa, lo sviluppo è diventato qualcosa di familiare, la stessa parola è diventata sacra. È un feticcio dove cadono in trappola tutti i desideri. “Fare lo sviluppo”, significa “guadagnare dei progetti” o “diventare un Bianco”, è il rimedio miracoloso per tutti i mali, ivi compresa la stregoneria. “Ci si procura dei feticci, nota l’antropologo Pierre-Joseph Laurent, per proteggere il proprio capitale: è una specie di “stregoneria di accumulazione”(3). “Lo sviluppo, fa notare inoltre, è un concetto, apparentemente strano, attraverso il quale tutto diventa possibile, tra anziani e giovanissimi, tra chi aiuta e gli aiutati”. L’opportunità dello sviluppo – io direi la sua longevità – risiede nella sua pluralità semantica. Essa conduce, attraverso la modalità del non detto o della sua non esplicitazione, a dei compromessi che talvolta sono sorprendenti. E così, nel suo nome, i mussulmani di Kulkinka hanno allevato dei maiali. Nulla è vietato se ciò porta lo sviluppo(4)!. Come si può vedere, l’occidentalizzazione dello spirito non si realizza senza porre dei problemi.
Questa mancanza delle parole per indicarlo costituiscono un segnale, ma che non sarebbe da solo sufficiente a dimostrare l’assenza di qualunque visione sviluppista. Soltanto, i valori sui quali poggiano lo sviluppo e soprattutto il progresso, non corrispondono minimamente a delle aspirazioni universali profonde. Questi valori sono legati alla storia dell’Occidente, essi non hanno con ogni probabilità alcun senso per le altre società. Per quel che riguarda l’Africa nera, gli antropologi hanno sottolineato che la percezione del tempo è caratterizzata da un netto orientamento verso il passato. Così, i Sra del Ciad ritengono che ciò che si trova dietro ai loro occhi e che essi non possono vedere, è l’avvenire, mentre il passato si trova davanti perché è ben conosciuto. Sembra che tutto ciò sia molto diffuso e non sia vero soltanto in Africa; ma, per non uscire dal tema, questa rappresentazione non facilita la comprensione di una nozione come il progresso che invece svolge un ruolo essenziale per l’immaginario dello sviluppo. A tutto ciò si deve aggiungere la mancanza diffusa della credenza nel controllo sulla natura nelle società animiste. Se il pitone è un mio avo, come credono gli Ashanti, a meno che non lo sia il coccodrillo, come per i Bakongo, è molto difficile fare delle cinture o dei portafogli con le loro pelli. Se le foreste sono sacre come si farà a sfruttarle in modo razionale? In Africa ci si scontra, ancora oggi, con questo tipo di ostacoli allo sviluppo.
Non è privo di interesse notare che si ritrova in queste visioni africane una aspirazione verso il buen vivir, un vivere bene dei popoli amerindi che di recente ha dato luogo a delle rivendicazioni molto vivaci alternative allo sviluppo.“In Bolivia, si utilizza il termine aymara suma quamana, e in Ecuador la parola in lingua kichwa sumak kawsay, e ambedue significano “vivere bene”, “vivere pienamente”, che vogliono dire “vivere in armonia e in equilibrio con i cicli della Madre Terra, del cosmo, della vita e di tutte le forme di esistenza”, secondo F. Huanacuni Mamani. Noi possiamo aggiungere che il termine aymara implica una convivialità necessaria per poter vivere in armonia con tutti, e ciò porta a condividere piuttosto che a entrare in competizione con tutti gli altri. Questi due concetti sono diversi dalla nozione del “vivere meglio” occidentale, che è sinonimo di individualismo, di disinteresse per gli altri, di ricerca di un profitto, da cui deriva la necessità di sfruttare gli esseri umani e la natura(5) . Anche nell’America del Nord si trova ugualmente, presso un certo numero di gruppi amerindi, questa nozione del “ben vivere”, in particolare presso i Cree(6). Sarebbe un controsenso trasformare tutto ciò in un nuovo modello di sviluppo, sia pure di uno “Sviluppo Indigenista” come lo chiamano alcuni, fondato su una concezione biocentrica.
Anche nell’India braminica, secondo l’analisi di Louis Dumont, se i valori che si avvicinano allo sviluppo economico esistono certamente, essi fanno parte dell’Artha, cioè di una sfera di attività inferiore. I comportamenti coinvolti nello sviluppo sono in larga misura contrari alla sfera che più viene ritenuta valida, quella del Dharma (il dovere)(7). Nella visione Brahmanica, il compito dell’uomo secondo Madeleine Biardo “è unicamente quello di mantenere ciò che esiste con una attività in primo luogo rituale”. Tutte le altre attività metterebbero in pericolo l’ordine cosmico(8).
Al di fuori dei miti che costituiscono la base alla pretesa di controllare la natura e alla fede nel progresso, l’idea di sviluppo è completamente priva di senso e le pratiche che ad esso sono legate sono assolutamente impossibili in quanto sono inconcepibili o addirittura vietate. L’universalizzazione dell’Uomo Economico significa la distruzione delle culture e il trionfo della lotta di tutti contro tutti, vale a dire una forma di regressione a una mitica legge della giungla, quella nella quale l’uomo diventa un lupo per l’uomo stesso.
Nella recente riedizione del vostro lavoro Il pianeta dei naufraghi (uscito inizialmente nel 1991), voi perdete le speranze che avevate espresso trent’anni fa riguardo all’economia informale: voi constatate che la resistenza alla modernizzazione non cessa di rifluire e che la “colonizzazione degli immaginari”, termine che vi è caro, diventa generale. Il mercato della megamacchina è implacabile? Potrebbe ritornare su questa nozione di “megamacchina”, questa organizzazione sociale nella quale l’umano si trova subordinato alla tecnica e all’economia? In quale modo, in questi ultimi anni, il potere del mercato e delle macchine sulle nostre vite si è ulteriormente intensificato, in particolare attraverso le protesi numeriche che si mescolano sempre di più nelle nostre relazioni sociali e riescono perfino a modificare la nostra interiorità?
Lewis Mumford, ne Il mito della macchina, ci ha insegnato che la macchina più straordinaria inventata e costruita dall’uomo è proprio l’organizzazione sociale. La falange macedone, l’organizzazione dell’Egitto dei faraoni, la burocrazia celeste dell’Impero Ming sono delle “macchine” di cui la storia ha riconosciuto l’incredibile potenza. L’impero di Alessandro ha stravolto in modo duraturo i destini del mondo, le piramidi dell’Egitto meravigliano ancora l’uomo del ventesimo secolo e la Grande Muraglia cinese resta ancora oggi la sola costruzione umana visibile dalla luna. In queste organizzazioni di massa, che combinano la forza militare, l’efficienza economica, l’autorità religiosa, le soluzioni tecnologiche e il potere politico, l’uomo diventa un ingranaggio dentro un meccanismo complesso che consegue un potere quasi assoluto: una Megamacchina. Le macchine semplici o sofisticate partecipano al funzionamento dell’insieme e ne costituiscono il modello.
Tempi moderni, dei quali Chaplin ci ha dato un’indimenticabile descrizione cinematografica, hanno indubbiamente costituito una tappa in questo processo di aumento di potenza. Walter Rathenau, nella Germania di Weimar, parlava intelligentemente di una “meccanizzazione del mondo”. Ure, nella Filosofia delle manifatture, citato da Marx e da Mumford, parla della fabbrica della grande industria come del “grande automa”. L’essenziale consiste nella “distribuzione delle differenti membra del sistema in un corpo collaborativo, che fa funzionare ciascun organo con la delicatezza e la rapidità desiderate, e all’interno si infiltra nella istruzione degli esseri umani per far loro rinunciare alle loro abitudini sconnesse di lavorare e farli invece identificare nella regolarità invariabile di un automa”(9). Nel periodo tra le due guerre il mondo affascinato o terrorizzato ha così visto nascere l’impresa fordista con la catena di montaggio, la macchina da guerra e da sterminio del regime nazista, il socialismo burocratico che combinava, secondo la formula di Lenin, i soviet e l’elettrificazione. All’interno di queste Megamacchine, l’individuo non è più una persona, e meno ancora un cittadino, è semplicemente un ingranaggio.
Se queste tre Megamacchine sono crollate come dei colossi con i piedi di argilla, i meccanismi più sofisticati del mercato mondiale hanno costruito accuratamente sotto i nostri occhi i differenti ingranaggi di una nuova Megamacchina dalle dimensioni planetarie: la macchina-universo. Sotto il segno della mano invisibile, tecniche sociali e politiche (dalla persuasione clandestina della pubblicità alla violazione delle folle della propaganda, grazie alle autostrade dell’informazione e ai satelliti delle telecomunicazioni…) tecniche economiche e produttive (dal toyotismo alla robotica, dalle biotecnologie all’informatica) si scambiano, si fondono, si integrano, si articolano in una vasta rete mondiale creata da imprese transnazionali gigantesche (gruppi multimediali, trust agroalimentari, conglomerati industriali-finanziari di ogni settore) sottomettono ai loro servizi Stati, partiti, sette, sindacati, organizzazioni non governative, ecc.
L’impero e il controllo della razionalità tecnoscientifica ed economica, della quale il potere e il controllo delle espressioni numeriche informatiche sono oggi l’aspetto più spettacolare, danno alla Megamacchina contemporanea una ampiezza inedita e poco usuale nella storia degli uomini. Stiamo assistendo a una reale mutazione antropologica.
Dobbiamo rilevare che tutti i progetti attuali, per guardare ancora più lontano, della cibernanthropia (mescolanza di uomo e di macchina) o del miglioramento biogenetico, non tendono a “migliorare” la specie, e nemmeno i felici beneficiari di queste tecniche in direzione della giustizia, dell’altruismo e nemmeno della capacità di essere felici (attraverso l’inserimento di geni specifici, o lo scambio di embrioni adeguati) ma soltanto ad accrescere le sue capacità di funzionamento, cioè la sua aggressività. E da questo punto di vista, Ellul è stato veramente “l’uomo che aveva (quasi) tutto previsto”.
“Non c’è alcuna misura comune – scriveva nel 1983 – tra la proclamazione dei valori (giustizia, libertà, ecc.) e l’orientamento dello sviluppo tecnologico. Quelli che sono gli specialisti dei valori (teologi, filosofi, ecc.) non hanno alcuna influenza sugli specialisti delle tecnologie e non possono ad esempio chiedere che si vieti questa ricerca o quel mezzo esistente in nome di un valore. (…) Non ci si chiede quale tipo di uomo si vuole creare. E quando una tale domanda viene formulata sembra evidente che siano gli scienziati o i tecnici a dover decidere che tipo di uomo si vuole creare”.(10)
È ormai l’umanità stessa dell’uomo che è minacciata dai progetti di transumanesimo. E inoltre, non è la società stessa che intende realizzarli che è ancora più minacciata?

I grandi movimenti migratori attuali sono anch’essi degli indicatori di questa distruzione delle capacità di sussistenza autonoma, dei modi di vita non integrati nella megamacchina? Lo sradicamento e la deculturazione non diventano l’aspetto comune di tutta l’umanità, quando i nostri stessi desideri sono costretti ad assumere la forma imposta dallo sviluppo egemonico?
La risposta si trova nelle spiegazioni date alle altre domande.
Ne L’ Epoca dei limiti, voi scrivete che la decomposizione del tessuto politico comporterebbe per reazione delle risposte identitarie e delle nuove feudalità. Quali osservazioni, dal punto di vista della decrescita, potete fare sui conflitti identitari attuali e sull’aumento delle tentazioni secessioniste? Di che cosa essi sono i sintomi?
Nell’ultimo messaggio spedito a sua madre l’11 marzo 2015, Foued Mohamed-Aggad che si sarebbe fatto esplodere due giorni più tardi, dopo la carneficina del Bataclan, scriveva: “Questa dounia (questo mondo materiale) è effimero, tutto è effimero, ingannevole”(11). Il tema dell’illusione del mondo, del Faichè Welt, del mondo illusorio, è certamente uno dei temi, dei luoghi comuni, più utilizzati dai religiosi, dai saggi o i poeti che hanno vissuto di più. Ma, che sia un giovane di vent’anni che lo prende alla lettera è rivelatore del “nichilismo della realtà” tanto sottolineato da Jean Baudrillard ai suoi tempi. Stigmatizzare questo giovane francese di debolezza come hanno fatto certi media è un modo abusivo di rifiutare di affrontare la realtà.
Il sacrificio di questi ragazzi deviati che avrebbero potuto dire come Paul Nizan: “Avevo vent’anni e non permetterò a nessuno di dire che è l’età più bella della vita”,dovrebbe suscitare in noi delle domande riguardo all’orrore del massacro dei loro coetanei. Per comprendere l’emergenza del terrorismo e la potenza della seduzione che Daesh ha potuto esercitare su dei giovani frustrati e senza punti di riferimento, non necessariamente di origine magrebina, attraverso i metodi di propaganda dei djihadisti sul modello dei videogiochi e la loro perfetta padronanza di tutti i metodi hollywoodiani, è importante capire che si tratta innanzitutto di una reazione alla perdita di senso generata dalla società della crescita. Il processo di radicalizzazione, come si dice oggi, non ha molto a che vedere con l’islam autentico, ma molto con il fascino del carattere distraente della guerra.
Ciò che noi chiamiamo il terrorismo è, in realtà, un controterrorismo di risposta al totalitarismo del mercato e al terrorismo dell’imperialismo culturale occidentale che Jean Baudrillard definiva anche come “il fondamentalismo terrorista di questa nuova religione sacrificale della prestazione(13)”. Si tratta in realtà di una reazione all’occidentalizzazione del mondo. Questa analisi si contrappone frontalmente alle due analisi statunitensi più diffuse dai media dopo il il 1989, quella de “La fine della storia” di Francis Fukuyama e quella de “La Guerra delle civilizzazioni” di Samuel Huntington.
La mondializzazione che rappresenta il compimento relativo di un’epoca è tutto tranne che felice; si tratta piuttosto di una “immondializzazione”, cioè di una globalizzazione immonda. E se la storia sembra conclusa e che una fase sia terminata, la successione degli avvenimenti che ha fatto seguito alla caduta del muro di Berlino non ha nulla di definitivo e ancor meno di auspicabile. Il “terrorismo islamico” non è da questo punto di vista l’ultimo soprassalto di un mondo che avrebbe trovato il suo giudizio finale con lo sposalizio tra la democrazia e il mercato… È chiaro che ciò che è terminato è un certo regime di storicità, mentre ciò che si apre è una avventura indecifrabile e, per noi, letteralmente insensata.
Quanto alle guerre di civiltà, si tratta di un vecchio fantasma occidentale riciclato che cerca di diventare una profezia autorealizzantesi. È il fantasma liberista, quello della indifferenza verso i suoi stessi valori e proprio per questo di una intolleranza totale verso coloro che sono diversi per una qualunque passione. E non è l’elezione di Donald Trump che lo smentirà… Si deve anche aggiungere che lo sterminio universale non è meno insopportabile quando si manifesta sotto la sua forma “di sinistra” della compassione paternalista o nella sua forma etno-nazionalista neo-conservatrice.
Anche se sarebbe un abuso il vedere nel terrorismo anti-occidentale un nuovo “soggetto della storia”, esso rappresenta in qualche modo “La rivincita del popolo dello specchio”, per riprendere il titolo di un racconto famoso di Jorge Luis Borges. In quel testo, i vinti dell’impero sono condannati a restare dall’altra parte dello specchio e a riflettere i gesti dei loro dominatori. Ma
“un giorno forse, dice il testo di Borges, essi ( le genti dello specchio) si scuoteranno da questo letargo magico. Le forme cominceranno a risvegliarsi. Essi diventeranno poco a poco diversi da noi, e ci imiteranno sempre meno. Essi spaccheranno le barriere di vetro e di metallo e questa volta non saranno vinti”.
Ciò che si vede meno, è che questa egemonia, questa presa del potere di un ordine mondiale di cui i modelli – non solamente tecnici e militari, ma culturali e ideologici – sembrano irresistibili, si accompagna a una recessione straordinaria attraverso la quale questa potenza è lentamente minata, rosicchiata, cannibalizzata, da coloro che ne sono le vittime.
Voi l’avevate già annunciato, con la crisi dell’occidente suona l’ora della verità: una fuga in avanti che rischia di essere sempre più violenta o la strada verso la decrescita. Ora, malgrado il fatto che la ricerca sfrenata della crescita lascia dei naufraghi e che essa devasta il nostro ambiente (la catastrofe ecologica è abbondantemente documentata, escono continuamente dei rapporti sull’estinzione di massa delle specie, la desertificazione di interi territori, ecc.) la decrescita sembra sempre una eresia, la corsa non si arresta, e la “pedagogia delle catastrofi” non si realizza. Siamo diventati incapaci sia pure soltanto di immaginare una qualunque forma di società diversa, non strutturata intorno all’imperativo della crescita?
Non si può dire che la pedagogia delle catastrofi non si è realizzata. Le disfunzioni ineluttabili della megamacchina, le contraddizioni, le crisi, i rischi tecnologici principali, i bloccaggi, sono fonti di sofferenze insopportabili e sono delle disgrazie che si possono soltanto deplorare. Tuttavia, sono anche delle occasioni di presa di coscienza, di rifiuto, anche di rivolta. Certamente gli esempi di catastrofi che non determinano alcun cambiamento o peggio che provocano dei ripiegamenti che possono dar luogo a delle reazioni di tipo “fascista” non mancano. L’elezione del presidente Trump ne costituisce un buon esempio… Tuttavia, vi sono anche numerosi esempi in senso contrario. Richiamiamo qui un caso tra gli altri, nel dicembre 1952, lo smog di Londra aveva ucciso 4.000 persone in cinque giorni! Ma ciò provocò una reazione tale che portò ad approvare la legge sull’aria pulita del 1956. La storia della mucca pazza è nello stesso tempo una buona testimonianza della follia degli uomini e un segnale forte che ha determinato dei cambiamenti nelle maniere di alimentarsi. Tutto ciò peraltro non è sufficiente a provocare la grande rottura auspicata dal movimento per la decrescita. Ricordiamoci che malgrado tutto la preoccupante canicola dell’estate 2003 ha fatto molto più di tutti gli argomenti da noi presentati per far comprendere la voce della decrescita e per convincere almeno una minoranza della necessità di orientarsi verso una società dell’abbondanza frugale o della prosperità senza crescita.
Inoltre, non manchiamo di immaginazione per proporre delle alternative alla civilizzazione capitalista occidentale, ma per realizzare a livello delle masse lo scatto sufficiente per rompere con la tossicodipendenza del consumismo e per procedere alla necessaria decolonizzazione dell’immaginario, non si può certo contare solo sulla pedagogia delle catastrofi. Il vero problema, come sottolinea Jean Pierre Dupuy, è che
“noi non riusciamo a dare un peso di realtà sufficiente all’avvenire che si prospetta, e, in particolare, all’avvenire catastrofico”(14). La catastrofe, scrive ancora, ha questo di terribile che non si crede solamente che essa si produrrà quando anche si hanno tutti i motivi per sapere che essa si produrrà, ma che una volta che essa si è realizzata essa sembrerà far parte dell’ordine normale delle cose. La sua realtà stessa la rende banale. Essa non era stata giudicata possibile prima che si realizzasse; ma eccola integrata senza alcuna forma di processo nel “mobilio ontologico” del mondo, per usare il gergo dei filosofi. (…) È questa metafisica spontanea dei tempi delle catastrofi che costituisce l’ostacolo maggiore alla definizione di una prudenza adeguata ai tempi attuali.
In altri termini, conclude, ciò che rappresenta qualche possibilità di salvarci è ciò stesso che ci minaccia. Io credo che questa sia l’interpretazione più profonda di ciò che Hans Jonas chiama “l’euristica della paura”(16). “Sarebbe meglio – scrive Jonas – ascoltare la profezia della disgrazia piuttosto che quella della felicità”(17). Tutto ciò, non per un gusto masochista dell’apocalisse, ma proprio per scongiurarla. La politica dello struzzo è in ogni caso una forma di ottimismo suicida. E inoltre, non si ha alcuna certezza che ciò funzionerà nei tempi previsti. Tuttavia, non si ha nulla da perdere a fare il tentativo.
Tutte le saggezze, le filosofie, le religioni insistevano sulla virtù della temperanza e sulla necessità dell’autolimitazione. E tuttavia, la decrescita sembra oggi come una provocazione finale, mentre la trasgressione è proclamata essere la norma. Come spiegare questo immenso sconvolgimento, la perdita del senso della misura? Dobbiamo ritornare nelle biblioteche per riannodare una visione del mondo e una concezione dell’esistenza in contrapposizione alla volontà di potenza distruttrice che divora le nostre società? La decrescita, è prima di tutto una questione di senso, per rimettere in gioco i valori sui quali si basa l’Occidente moderno, “capovolgere i nostri modi di pensare”?
La decrescita implica certamente di “capovolgere i nostri modi di pensare”, ma comporta certamente delle nostre modalità di fare. Per cambiare i nostri comportamenti e a livello collettivo, cambiare il sistema, cambiare il paradigma e anche la civilizzazione, in breve per uscire dalla società della crescita, è necessario decolonizzare (vale a dire soprattutto de-economicizzare) i nostri immaginari. Per fare questo, si deve dapprima comprendere come tutto ciò è stato colonizzato, e quindi fare una “metanoia”, un percorso inverso di tutto il pensiero. Come le saggezze, le filosofie, le religioni, come voi dite, che insistevano sulla virtù della temperanza e sulla necessità dell’autolimitazione, sono state abbandonate, rifiutate, tradite. È una lunga storia. Ciascuna delle tappe che hanno portato alla società globalizzata del mercato contemporaneo è stata accompagnata da cambiamenti importanti nei differenti ordini: tecnico, culturale, politico. L’invenzione della contabilità a partita doppia e della banca, degli ordini mendicanti e delle spinte eretiche, dell’autogoverno delle piccole repubbliche italiane e fiamminghe, per la prima fase del capitalismo mercantile in una Europa cristiana e feudale.
La riforma, il capovolgimento etico di Bernard de Mandeville e il cambiamento dell’egemonia culturale con il trionfo dei Lumi e della modernità grazie alle rivoluzioni politiche delle borghesie nazionali, quando è emersa la società termo-industriale, caratterizzata dalla scelta del fuoco e l’utilizzazione delle energie fossili. La rivoluzione numerica e l’installazione del virtuale, la controrivoluzione neoliberista, sono tutte cose che hanno fatto sparire le ultime barriere contro l’illimitato e la dismisura, con l’emergere contemporaneo dell’impero mondiale del mercato.
Liberarsi dalla cappa di piombo dell’ideologia così dominante, quando l’enorme macchina mediatica si sforza di decerebrarci, non è certo una cosa da poco. Per fortuna, noi abbiamo due emisferi nel cervello e la parte sinistra resiste sempre… E può risvegliarsi in qualunque momento. Ogni speranza non è quindi perduta ed è opportuno gioire serenamente del miracolo di essere ancora semplicemente vivi.

Articolo apparso su La decroissance, tradotto da Alberto Castagnola per Comune.
Altri articoli di Latouche sono leggibili qui.

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