martedì 31 ottobre 2017

Sparsh Shah ha 13 anni

Incubo in valle. Alcune domande - Lino Di Gianni


L’incubo è cominciato domenica 22 ottobre: vento caldo, vento forte e incendi. Incendi nei boschi e nella frazioni di montagna. In alto, ma neanche poi tanto: se non girava il vento, tirando verso la Francia, avrebbe minacciato le case di Bussoleno, quattrocentocinquanta metri di altitudine, seimila abitanti.
Giovedi 26, giorno di mercato ad Avigliana, non si poteva respirare per la cappa pesante di fumo. Tutto sembrava avvolto da una spessa nebbia, ma era fumo di boschi bruciati. Nessun comunicato, nessuna avvertenza, nessun articolo sui giornali.
L’Arpa Piemonte dirà:
“Il principale aspetto negativo dell’attuale situazione è rappresentato dal fumo e le polveri sottili provocate dagli incendi boschivi: esso è costituito principalmente da anidride carbonica e vapore acqueo, ma sulla base di linee guida internazionali le analisi ricercano anche altre sostanze presenti in concentrazioni minori quali i VOC (composti organici volatili), l’acido cianidrico, il metano, il cloro, l’ammoniaca ed il monossido di carbonio, che costituisce il maggior pericolo per la salute…”.
Intanto, in rete e nella Valle girano queste domande:
– perché gli incendi sono esplosi praticamente tutti contemporaneamente e con più focolai?
– perché, nonostante la gravità eccezionale della situazione dagli organi regionali e di governo, nessuno ha fatto nulla per mandare aiuti e personale specializzato da altre regioni (come avviene normalmente) alla Valsusa e alla Valsangone?
– perché, nonostante il vento fortissimo, la gravità degli incendi e le persone coinvolte direttamente o indirettamente, nessun organo di informazione (tv e giornali) ha detto nulla per giorni, come se fosse tutto normale?
– perché soltanto dopo circa una settimana il presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino, si è deciso e ha dichiarato lo “stato di calamità” e non di “emergenza”?
– perché, guarda caso, nello stesso giorno, Paolo Foietta (commissario straordinario per la Torino Lione) ha inviato quella vomitevole lettera ai comuni (leggi anche Valsusa, incendi, media e sciacalli) dove dice che per la ricostruzione del territorio devastato e le opere di prevenzione da futuri eventi simili sono disponibili i soldi della compensazione e che sarà felice di incontrare i sindaci?
– esiste una struttura organizzata che semina incendi a partire da questa estate, in tutta Italia? (sono state trovate due guardie forestali con inneschi?).
Venerdì il vento caldo è ripreso, l’aria un po’ si è pulita ma gli incendi non sono estinti, il pericolo continua. Manderanno ben quaranta persone dell’esercito, contro i piromani! In un territorio che ormai riguarda tutto il Piemonte.
Insomma, la regione va in fiamme e Torino soffocata dal fumo. Le polveri sottili superiori nove volte ai limiti. Naturalmente nessun blocco delle auto: «Servono per l’emergenza»…

La Valsusa brucia, e stavolta non è una metafora. Contro le «grandi opere», per l’Unica Grande Opera - Wu Ming

Un enorme incendio sta divorando i boschi della Val di Susa, dai fianchi del Rocciamelone ai dintorni di Bussoleno, da Foresto a Caprie.
Preparato da un lungo, estenuante periodo di siccità e ora spinto dal forte vento, da due giorni il fuoco si alza, avanza, estende il proprio fronte e costringe a evacuare borgate, mettendo all’ennesima dura prova una valle già troppe volte aggredita.
E la valle resiste: ancora una volta, non ha alternative alla lotta.
E ci si sente, anche da lontano, come se le fiamme fossero intorno a casa, perché quella valle per molte e molti di noi è ormai casa, perché aprendimos a quererla, e non possiamo fare a meno di tornarci, coi ricordi e col corpo, ogni volta che possiamo.
Non è l’unico incendio grave di quest’anno, di quest’estate che a fine ottobre non vuole ancora diventare autunno: c’è stato il rogo di Messina a luglio, quello al parco della Majella ad agosto… Incendi dolosi, ma resi quasi indomabili dalle condizioni climatiche.
Gli incendi non sono l’unica conseguenza della siccità: fiumi e torrenti in secca, falde acquifere basse, il cuneo salino che entra nel Po, lo smog che affoga le città…
Né, tantomeno, la siccità è la sola conseguenza del cambiamento climatico: “bombe d’acqua” e trombe d’aria colpiscono le coste e i vicini entroterra, e le città si allagano perché la cementificazione ha reso i terreni impermeabili.
[La cementificazione ha anche effetti più profondi: se la pioggia non penetra nel suolo, le falde acquifere stentano a rialimentarsi, con conseguenze ben più vaste.]
Cambiamento climatico. Si calcola che nel giro di pochi decenni potrebbero scomparire sott’acqua non solo Venezia e il suo entroterra (il MOSE è già ora un inutile relitto), ma anche il litorale friulano, Trieste fino al Carso, il Polesine e il Basso ferrarese, la Riviera romagnola…
Già adesso, come si ricordava sopra, l’Adriatico sta risalendo il Po. Quest’estate il cuneo salino è arrivato dodici chilometri a ovest della foce, con la conseguente crisi idrica, perché se c’è acqua salata al posto di quella dolce non si possono irrigare i campi, né si può ottenere acqua potabile per il territorio circostante.
Lo studio linkato poco sopra prevede, nel caso di innalzamento dell’Adriatico di poco meno di un metro, un’ingressione nell’entroterra di circa trenta chilometri entro il 2100. Proviamo a calcolare quanti profughi potrebbe produrre un evento del genere.
Il 2100 è subito dietro l’angolo, e il processo è già cominciato. Eppure, avete mai sentito qualcuno dei politici che affollano telegiornali e talk show dire una sola parola su questo?

Tutto ciò dovrebbe costituire il problema politico, la questione n.1, la cornice entro cui svolgere ogni altro discorso, e invece rimane chiacchiera, al massimo diventa – come lo smog in questi giorni – effimera “emergenza” da affrontare con l’improvvisazione, le “toppe”, i mezzi raccoglitici.

L’abbiamo già scritto
, e non siamo certi stati i soli a farlo: anziché sperperare miliardi di euro in “grandi opere” inutili e imposte che vanno ad aggravare la situazione, bisognerebbe lavorare all’Unica Grande Opera – UGO – indispensabile e urgente: la messa in sicurezza del nostro territorio in vista dei prossimi sconvolgimenti, la riparazione del dissesto idrogeologico. Riparazione, manutenzione, prevenzione, liberazione dal cemento del maggior numero possibile di terreni, e degli argini dei corsi d’acqua.
La lotta contro le “grandi opere” è già ora parte della lotta contro il riscaldamento globale. Lo è sempre stata, perché contrasta il consumo di suolo, l’aggressione ai territori, lo spreco di risorse pubbliche, la sopravvivenza del vetusto paradigma cementizio-sviluppista. Per questo ce ne occupiamo così tanto, da anni: lo riteniamo ilterreno strategico. Ed è evidente il collegamento tra la lotta No Tav che la Val di Susa porta avanti ormai da quasi ventisette anni, e la lotta contro l’incendio che in quella valle ora divampa.
Discorsi più approfonditi seguiranno. Adesso invitiamo a seguire quel che sta accadendo in Val di Susa.  #Valsusa
Noi, per quel che vale, ci rendiamo sin da ora disponibili per qualunque aiuto ed evento benefit si voglia fare in valle.

lunedì 30 ottobre 2017

Monsanto: l’inchiesta di Le Monde - Stéphane Foucart, Stéphane Horel (prima parte)



In passato siamo già stati attaccati e calunniati, ma questa volta siamo al centro di un’offensiva senza precedenti per portata e durata”.
Christopher Wild si risiede rapidamente e smette di sorridere.
Dal suo ufficio all’ Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) si vedono i tetti di Lione.
Wild, il direttore della Iarc, ha soppesato attentamente  ogni parola, con la gravità richiesta dalla situazione.
Da due anni, infatti, l’istituzione che dirige è al centro di un duro attacco: la credibilità e l’integrità del suo lavoro sono criticati, i suoi esperti denigrati e attaccati per vie legali, i finanziamenti ostacolati.
Da quasi cinquant’anni, sotto la guida dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il compito principale della Iarc è individuare e catalogare le sostanze cancerogene, ma ora quest’importante istituzione comincia a vacillare sotto il peso degli attacchi.
Le ostilità sono cominciate il 20 marzo 2015.
Quel giorno La Iarc annuncia le conclusioni della sua Monografia n. 112 sui possibili effetti cancerogeni di alcuni pesticidi ed erbicidi organofosforici, lasciando tutto il mondo sbalordito.
Al contrario della maggior parte delle agenzie, la Iarc considera il diserbante più usato al mondo genotossico (cioè capace di danneggiare il dna), cancerogeno per gli animali e “probabilmente cancerogeno” per gli esseri umani.
La sostanza in questione, il glifosato, è il principale componente del Roundup, il più importante prodotto di una delle multinazionali più conosciute del mondo: la Monsanto, un mostro sacro dell’agrochimica.
Usato da più di quarant’anni, il glifosato entra nella composizione di almeno 750 prodotti commercializzati da un centinaio di aziende in più di 130 paesi.
Tra il 1974, data del suo lancio sul mercato, e il 2014 il glifosato impiegato nel mondo è passato da 3.200 a 825mila tonnellate all’anno.
L’aumento spettacolare è dovuto all’adozione sempre più diffusa di semi geneticamente modificati per tollerare questa sostanza, i cosiddetti semi Roundup Ready.
La Monsanto rischia addirittura di non sopravvivere se l’uso di questa sostanza sarà limitato o proibito del tutto. L’azienda statunitense ha sviluppato il glifosato e ne ha fatto la base del suo modello economico.
Ha costruito la sua fortuna vendendo il Roundup e i semi che lo tollerano.
Così, quando la Iarc annuncia che il glifosato è “probabilmente cancerogeno”, la Monsanto reagisce con una violenza inaudita.
In un comunicato critica la junk science (scienza spazzatura) della Iarc, parla di una “selezione distorta” di “dati limitati”, fatta in base a “motivazioni nascoste”, che portano a una decisione presa solo dopo “qualche ora di discussione nel corso di una riunione di una settimana”.
Mai un’azienda aveva messo in discussione in modo così brutale l’integrità di un’agenzia legata alle Nazioni Unite.
L’offensiva della Monsanto è cominciata, almeno quella che si propone d’influenzare l’opinione pubblica.
In realtà la Monsanto sa bene che questa valutazione del glifosato è stata fatta da un gruppo di esperti dopo un anno di lavoro e   dopo una riunione durata diversi giorni a Lione.
Le procedure della Iarc prevedono inoltre che le aziende legate al prodotto esaminato abbiano il diritto di assistere alla riunione finale.
Per la valutazione del glifosato, infatti, la Monsanto ha inviato un “osservatore”: l’epidemiologo Tom Sorahan, professore dell’università di Birmingham, nel Regno Unito.
Il rapporto che lo scienziato stila il 14 marzo 2015 per i suoi committenti conferma che tutto si è svolto nei modi previsti.
Il presidente del gruppo di lavoro, i copresidenti e gli esperti invitati alla riunione sono stati molto cordiali e disposti a rispondere a tutte le mie richieste di chiarimento”, scrive Sorahan in una lettera inviata a un dirigente della Monsanto.
La lettera figura nei cosiddetti Monsanto papers, un insieme di documenti interni dell’azienda che la giustizia statunitense ha cominciato a rendere pubblici all’inizio del 2017 nell’ambito di un procedimento giudiziario in corso.
La riunione si è svolta rispettando le procedure della Iarc”, aggiunge l’osservatore dell’azienda statunitense.
Il dottor Kurt Straif, il direttore delle monografie, ha una grande conoscenza delle regole in vigore e ha insistito perché fossero rispettate”.
Del resto Sorahan – che non ha risposto alle domande di Le Monde – sembra molto imbarazzato all’idea che il suo nome sia associato alla risposta della Monsanto:
Non vorrei apparire in alcun documento dell’azienda”, scrive, ma allo stesso tempo offre il suo “aiuto per formulare” l’inevitabile contrattacco che il gruppo organizzerà.

Qualche mese dopo, infatti, tutti gli scienziati non statunitensi del gruppo di esperti della Iarc sul glifosato ricevono una lettera inviata da Hollingsworth, lo studio legale della Monsanto, che intima di consegnare tutti i file legati al loro lavoro per la Monografia 112: bozze, commenti, tabelle, tutto quello che è passato attraverso il sistema informatico della Iarc.
Se dovesse rifiutare”, avvertono gli avvocati, “le chiediamo di prendere tutte le misure ragionevoli in suo potere per conservare questo materiale intatto, in attesa di una richiesta formale ordinata da un tribunale degli Stati Uniti”.
La vostra lettera è intimidatoria e pericolosa”, scrive uno degli scienziati nella sua risposta del 4 novembre 2016. “Trovo la vostra procedura criticabile e priva di ogni riguardo, anche in base agli standard contemporanei”.
Il patologo Consolato Maria Sergi, professore dell’università dell’Alberta, in Canada, aggiunge: “La vostra lettera è dannosa, perché cerca di provocare volutamente ansia e apprensione in un gruppo di studiosi indipendenti”.
Sugli esperti statunitensi del gruppo si esercitano pressioni con altri mezzi, ancora più “intimidatori”. Negli Stati Uniti il Freedom of information act (Foia), la legge sulla libertà d’informazione, permette a qualunque cittadino, nel rispetto di determinate
condizioni, di chiedere l’accesso ai documenti prodotti dalle istituzioni e dai loro funzionari, come gli appunti, le email e i rapporti interni.
Secondo le informazioni in possesso di Le Monde, gli studi legali Hollingsworth e Sidley Austin presentano cinque richieste.
La prima nel novembre del 2015 ai National Institutes of Health (NIH), l’agenzia del dipartimento della salute statunitense a cui appartengono due esperti del gruppo.
Per gli altri ricercatori vengono fatte richieste all’Agenzia Californiana per la Protezione dell’Ambiente (CalEpa), alla Texas A&M University e all’Università Statale del Mississippi.
In seguito alcune di queste istituzioni sono addirittura citate dagli avvocati della Monsanto nei procedimenti
giudiziari sul glifosato e sono costrette a consegnare alcuni documenti interni.
L’obiettivo di queste manovre intimidatorie è far tacere le critiche?
Alcuni scienziati di fama mondiale, di solito disponibili a parlare con i mezzi d’informazione, hanno preferito non rispondere a Le Monde, nemmeno attraverso semplici incontri informali.
Altri hanno accettato di parlare per telefono su una linea privata e fuori dagli orari d’ufficio.

I parlamentari statunitensi non hanno bisogno di fare ricorso al Foia per chiedere informazioni alle istituzioni scientifiche federali.
Il repubblicano Jason Chafetz, che presiede la commissione della camera statunitense per il controllo e la riforma dello stato, scrive al direttore dei Nih, Francis Collins, il 26 settembre 2016.
Gli ricorda che le scelte della Iarc “hanno suscitato molte polemiche” e che, nonostante un “passato ricco di polemiche, ritrattazioni e incoerenze”, l’istituto beneficia di “significativi finanziamenti pubblici” statunitensi attraverso l’agenzia.
In effetti 1,2 milioni di euro sui 40 milioni del bilancio annuale della Iarc provengono dal Nih.
Il deputato chiede quindi a Collins chiarimenti e giustificazioni sulle spese dell’agenzia legate alla Iarc.
Il giorno stesso quest’iniziativa viene elogiata dall’American chemistry council (Acc), la potente lobby dell’industria chimica statunitense di cui fa parte anche la Monsanto: “Speriamo che sia fatta luce sulla stretta e opaca relazione” tra la Iarc e le istituzioni scientifiche statunitensi, si legge in un documento.
Senza dubbio l’Acc ha trovato in Chafetz un alleato prezioso.
Già nel marzo del 2015 il deputato repubblicano aveva scritto alla direzione di un altro organismo di ricerca federale – il National Institute of Environmental Health Sciences (Niehs) – per chiedergli informazioni sulle ricerche relative agli effetti nocivi del bisfenolo A, un elemento molto diffuso in alcune plastiche.
La qualità del lavoro
Tagliare i fondi è senz’altro il mezzo migliore per bloccare un’istituzione.
Nei mesi successivi alla pubblicazione della Monografia 112 la Croplife International, l’organizzazione che difende a livello mondiale gli interessi dei produttori di pesticidi e sementi,
contatta i rappresentanti di alcuni dei 25 paesi riuniti nel consiglio direttivo della Iarc per lamentarsi della qualità del lavoro dell’agenzia.
Il problema è che questi “stati partecipanti” contribuiscono per circa il 70 per cento al bilancio dell’istituto.
Secondo ila Iarc, vengono contattati almeno Canada, Paesi Bassi e Australia. Nessuno dei rappresentanti di questi paesi ha voluto rispondere a Le Monde.
Nella saga del glifosato appaiono anche alcuni personaggi che sembrano usciti da un romanzo di John Le Carré.
Nel giugno del 2016 un uomo che si presenta come giornalista, ma che non è iscritto ad alcun albo professionale, partecipa alla conferenza organizzata dalla Iarc a Lione per il suo cinquantesimo anniversario. Contattando scienziati e funzionari internazionali, parla con molte persone della Iarc dei suoi finanziamenti, del suo programma di monografie.
Mi ha fatto pensare a quelle persone ambigue che s’incontrano negli ambienti delle organizzazioni umanitarie. Non si sa chi sono, ma si capisce che cercano di ottenere informazioni”, ha raccontato una delegata della conferenza che ha preferito mantenere l’anonimato.

Alla fine di ottobre del 2016 l’uomo si fa rivedere, questa volta alla conferenza annuale organizzata dall’Istituto Ramazzini, un famoso e rispettato istituto di ricerca indipendente sul cancro con sede a Bologna.
Perché al Ramazzini?
Forse a causa di un annuncio fatto qualche mese prima
dall’istituto italiano su uno studio sul potere cancerogeno del glifosato.
Il presunto giornalista si chiama Christopher Watts e fa domande sull’autonomia dell’istituto e sulle sue fonti di inanziamento.
Dal momento che usa un’email che termina con “@economist.com”, i suoi interlocutori non mettono in dubbio il suo legame con il prestigioso settimanale britannico The Economist.
Agli scienziati che gli chiedono spiegazioni dice di lavorare per l’Economist Intelligence Unit, una società di ricerca e analisi del gruppo Economist.
L’Economist Intelligence Unit ha confermato che Watts ha realizzato diversi rapporti per l’azienda, ma ha sottolineato di non “sapere a che titolo assisteva” alle due conferenze: “In quel periodo lavorava su un articolo per l’Economist che alla fine non è stato pubblicato”.
La redazione del settimanale, però, sostiene di non avere “alcun giornalista con questo nome”.
L’unica cosa chiara è il nome di un’azienda creata da Watts alla fine del 2014, la Corporate Intelligence Advisory Company. Watts, che secondo alcuni documenti amministrativi risiede in Albania, non ha voluto rispondere alle domande di Le Monde.
In pochi mesi almeno cinque persone si presentano come giornalisti, ricercatori indipendenti o assistenti di studi legali per avvicinare gli scienziati della Iarc e i ricercatori che collaborano ai suoi lavori.
Tutti cercano informazioni molto precise sulle procedure e sui finanziamenti dell’istituto.
Uno di loro, Miguel Santos-Neves, che lavora per la Ergo, una società di spionaggio economico con sede a New York, è stato incriminato dalla giustizia statunitense per aver usato un’identità falsa.
Come ha raccontato il New York Times nel luglio del 2016, Santos-Neves indagava per conto di Uber su una persona in causa con l’azienda di trasporto privato e aveva interrogato i suoi colleghi di lavoro con falsi pretesti.
La Ergo non ha risposto alle domande di Le Monde.
Come Watts, anche due organizzazioni dalla dubbia reputazione cominciano a interessarsi non solo alla Iarc, ma anche all’Istituto Ramazzini.
L’Energy and Environmental Legal Institute (E&E Legal) si presenta come un’organizzazione no profit che ha tra le sue missioni quella di “chiedere spiegazioni a chi aspira a una regolamentazione governativa eccessiva e distruttiva, fondata su decisioni politiche dalle intenzioni subdole, sulla scienza spazzatura e sull’isteria”.
La Free Market Environmental Law Clinic, invece, “cerca di fornire un contrappeso al cavilloso movimento ambientalista, che promuove negli Stati Uniti un regime regolamentare economicamente distruttivo”.
Secondo alcuni elementi a disposizione di Le Monde, queste organizzazioni hanno presentato almeno 17 richieste di documenti ai NIH e alla Environmental Protection Agency (Epa), l’agenzia del governo statunitense per la tutela dell’ambiente.
Impegnate in un’aggressiva guerriglia giudiziaria e burocratica, chiedono la corrispondenza di diversi funzionari statunitensi in cui siano “contenuti i termini ‘Iarc’, ‘glifosato’, ‘Guyton’” (Kathryn Guyton è la scienziata della Iarc responsabile della Monografia n.112).
Inoltre chiedono tutti i dettagli sulle borse di studio, le sovvenzioni e le relazioni, finanziarie o meno, tra questi organismi statunitensi, la Iarc, alcuni scienziati e l’Istituto Ramazzini.
Le due organizzazioni sono dirette da David Schnare, uno scettico del cambiamento climatico noto per aver fatto forti pressioni su diversi climatologi.
Nel novembre del 2016 Schnare lascia temporaneamente la E&E Legal per unirsi allo staff di Donald Trump.
Tra i dirigenti dell’organizzazione c’è anche Steve Milloy, un famoso esperto di marketing legato all’industria del tabacco.
Alle domande sulle motivazioni di questa associazione
e sulle sue fonti di finanziamento, il presidente della E&E Legal ha risposto per email: “Salve, non siamo interessati”.
La notizia di queste richieste di documenti viene ripresa da alcuni mezzi d’informazione.
Per esempio da The Hill, un sito molto seguito dai protagonisti della vita parlamentare a Washington.
Il sito è curato da una squadra di giornalisti che, come ha documentato l’organizzazione non profit Us Right to Know (Usrtk), ha legami consolidati con l’industria agrochimica e con istituzioni conservatici come lo Heartland Institute o il George C. Marshall Institute, entrambi impegnati nel negare i cambiamenti climatici.
Nei loro articoli compaiono gli stessi argomenti e talvolta le stesse espressioni: si critica la “scienza approssimativa” di una Iarc indebolita da conflitti d’interesse e “molto criticata”, anche se non dice mai da chi.
Gli avvocati coinvolti nei processi in corso negli Stati Uniti hanno rivelato che la Monsanto ha usato mezzi anche più discreti.
Rispondendo sotto giuramento alle domande dei difensori di persone malate che attribuiscono il loro tumore al Roundup, alcuni responsabili dell’azienda hanno parlato di un programma segreto chiamato ‘Let nothing go’ (Non lasciar passare niente), che aveva l’obiettivo di rispondere a tutte le critiche.
I verbali di queste audizioni sono stati secretati, ma alcuni appunti trasmessi dagli studi legali coinvolti nelle inchieste permettono di avere qualche informazione.
Secondo queste note, la Monsanto avrebbe fatto ricorso ad aziende che “usano delle persone in apparenza senza legami con la multinazionale per lasciare commenti sugli articoli online e sui post di Facebook favorevoli alla Monsanto, ai suoi prodotti chimici e agli ogm”.
Un nuovo fronte
Nei mesi successivi la coalizione contro la Iarc diventa ancora più forte.
Alla fine di gennaio del 2017, alcuni giorni dopo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, l’American Chemistry Council apre un nuovo fronte sui social network, lanciando una “campagna per l’accuratezza della ricerca nella sanità pubblica”.
L’obiettivo è ottenere una “riforma” del programma delle monografie della Iarc.
Su un sito creato appositamente e su Twitter, la potente lobby della chimica non va tanto per il sottile: “Un pezzo di bacon o di plutonio? Per la Iarc è la stessa cosa”.
Il testo è accompagnato da un fotomontaggio che mostra due cilindri verdi fosforescenti accanto a delle uova fritte con il bacon.
In quel periodo, nell’ottobre del 2015, la Iarc aveva definito gli insaccati “cancerogeni” e la carne rossa “probabilmente cancerogena”, proprio come il glifosato.
Forse, grazie ai legami con i collaboratori più stretti di Trump, le industrie chimiche e agrochimiche pensano di essere onnipotenti.
Del resto Nancy Beck, la direttrice dell’American Chemistry Council, è la responsabile dei servizi per la regolamentazione dei prodotti chimici e dei pesticidi dell’Epa, l’autorità statunitense che dovrebbe riesaminare il dossier sul glifosato.
Andrew Liveris, amministratore delegato della Dow Chemical, è stato nominato da Trump in persona alla direzione della Manufacturing jobs initiative, un gruppo di esperti che consiglia il presidente sull’occupazione nel settore manifatturiero.
Alla fine di marzo il deputato repubblicano Lamar Smith, presidente della commissione della camera dei rappresentanti statunitense sulla scienza, lo spazio e la tecnologia, rivolge un’interrogazione al ministro della sanità, Tom Price, sui legami finanziari tra il National institute of environmental health sciences (Niehs) e il Ramazzini.
Il suo obiettivo è “sincerarsi che i beneficiari delle sovvenzioni rispondano ai più alti standard d’integrità scientifica”.
La richiesta del parlamentare è bastata a due giornalisti vicini all’industria, Julie Kelly e Jef Stier, per trasformare l’iniziativa in “un’inchiesta del congresso” su “un’oscura organizzazione”, il Ramazzini.
Subito dopo l’interrogazione, Kelly e Stiefer pubblicano sulla National Review un articolo che attacca Linda Birnbaum, la direttrice del Niehs, accusandola di promuovere un programma “chemiofobico”.
Invece Christopher Portier, ex vicedirettore del Niehs, che ha seguito i lavori della Iarc come “specialista invitato”, viene definito un “noto militante anti-glifosato”.
Secondo l’articolo sia Birnbaum sia Portier “fanno parte del Ramazzini”.
Per Kelly e Stier questo sarebbe “un ulteriore esempio del modo in cui la scienza è stata politicizzata”.
L’informazione viene anche ripresa da Breitbart News, il sito di estrema destra fondato da Steve Bannon, il consigliere strategico di Trump.
Definire il Ramazzini “un’oscura organizzazione” o una “sorta di Rotary club per scienziati militanti” è quanto meno ignoranza, se non una menzogna.
Fondato nel 1982 da Irving Selikof e Cesare Maltoni, due grandi medici della sanità pubblica, il Collegium Ramazzini è un’accademia di 180 scienziati specializzati nella sanità ambientale e professionale.
Linda Birnbaum e Christopher Portier ne fanno parte, così come il direttore del programma delle monografie della Iarc, Kurt Straif, e altri quattro esperti del gruppo di lavoro della Monografia n. 112, ognuno nel suo settore di competenza.
Sono tutti scienziati di alto livello.
Nel maggio del 2016 il Ramazzini ha avviato uno studio di tossicologia a lungo termine sul glifosato.
Questo ha ovviamente attirato molte critiche sull’istituto, noto per la sua competenza in materia di tumori.
La responsabile delle ricerche del Ramazzini, Fiorella Belpoggi, è una delle poche specialiste ad aver accettato di parlare con Le Monde.
Non siamo molti”, ha detto. “Abbiamo pochi soldi, ma siamo bravi scienziati e non abbiamo paura”.

Molto probabilmente gli attacchi al Ramazzini e alla Iarc continueranno anche in futuro, perché altri prodotti chimici figurano nella lista delle “priorità” della Iarc, come alcuni pesticidi, il bisfenolo A e l’aspartame.
Il Niehs è uno dei principali finanziatori della ricerca sulla tossicità del bisfenolo A, mentre lo studio che per primo ha parlato delle proprietà cancerogene dell’aspartame è stato realizzato diversi anni fa proprio dal Ramazzini.
Prima di queste polemiche non me n’ero resa conto”, osserva Belpoggi, “ma se dovessimo sbarazzarci della Iarc, del Niehs e del Ramazzini, rinunceremmo a tre simboli dell’indipendenza della scienza”.
Intanto, a cominciare dal 20 marzo 2015, la rabbia della Monsanto ha attraversato discretamente l’oceano Atlantico.
Quel giorno una lettera, una vera e propria dichiarazione di guerra, arriva a Ginevra, in Svizzera, presso l’Organizzazione mondiale della Sanità, da cui dipende la Iarc.
L’intestazione della lettera mostra il celebre ramo verde all’interno di un rettangolo arancione, il logo della Monsanto.
Ci sembra di capire che la Iarc abbia deliberatamente scelto d’ignorare decine di studi e di valutazioni regolamentari, disponibili pubblicamente, secondo cui il glifosato non comporta rischi per la salute umana”, scrive Philip Miller, il vicepresidente della Monsanto incaricato delle questioni legali.
Nella lettera il manager chiede un “appuntamento  urgente” per discutere delle “misure da prendere immediatamente per rettificare questa ricerca e queste conclusioni molto discutibili”.
Miller intende inoltre chiarire i criteri di selezione degli esperti e analizzare i “documenti contabili in cui figurano i finanziamenti destinati alla classificazione del glifosato da parte della Iarc e i donatori”.
A quanto pare i ruoli si sono rovesciati: ormai è la Iarc che deve giustificarsi di fronte alla Monsanto. Nell’estate del 2015 la CropLife International prosegue questa politica intimidatoria, in cui le ingerenze si mescolano alle minacce velate.
Per la Iarc non è il primo momento difficile.
Non è la prima volta che deve affrontare critiche e attacchi. Anche se non hanno alcun effetto sulle normative che regolano l’industria, le sue valutazioni minacciano interessi commerciali a volte enormi.
Fino a quel momento il precedente più importante riguardava i pericoli del fumo passivo, valutati dalla Iarc alla fine degli anni novanta.
Ma anche all’epoca dei grandi scontri con i giganti del tabacco, gli scambi erano sempre rimasti corretti. “Lavoro alla Iarc da quindici anni e non ho mai visto niente di simile a quello che è successo negli ultimi due”, dice Kurt Straif, il responsabile delle monografie dell’agenzia.  (Continua)
(*) Tratto da Le Monde. Tradotto e pubblicato da Internazionale

domenica 29 ottobre 2017

Quei nomi noti che sorpassano i neolaureati al concorso per i dottorati di ricerca - Pablo Sole


Idonei ma non ammessi per carenza di posti. Deve essere stata grande la delusione degli studenti universitari che non sono riusciti ad accedere ai dottorati di ricerca promossi dal Dipartimento di Agraria dell’Università di Sassari: hanno passato le selezioni ma l’esiguità dei posti a disposizione li ha tagliati fuori. Si prendano ad esempio il dottorato in Biotecnologie microbiche agroalimentari – appena due posti – e quello in Scienze e tecnologie zootecniche, che di posti ne aveva tre. Ebbene, tra gli assegnatari – senza borsa – spiccano due nomi: Antonio Casula e Giuliano Patteri.
Il fatto è curioso ed è per questo che abbiamo deciso di raccontarlo, documenti alla mano, così che ognuno possa farsi un’opinione. Ed è curioso perché non si parla di due neolaureati, ma di due pezzi grossi di Forestas, già Ente foreste della Sardegna: Casula è direttore generalePatteri è responsabile dell’ufficio tecnico della direzione generale. Ed entrambi, grazie ai ruoli che ricoprono, intrattengono strettissimi rapporti professionali con l’Università di Sassari e in particolare con il Dipartimento di Scienze agrarie, già diretto dall’attuale amministratore unico di Forestas Giuseppe Pulina, professore ordinario in aspettativa.
Si diceva degli stretti rapporti tra Forestas e il Dipartimento di Agraria. Si prenda in primis Giuliano Patteri. Il neo ammesso al dottorato in Scienze e tecnologie zootecniche fa anche parte del Comitato di indirizzo del Dipartimento di Agraria (guarda) in rappresentanza di Forestas, su investitura dell’amministratore unico Pulina. Nel comitato, al fianco di Patteri siedono il direttore del Dipartimento Antonio Pazzona – già vicario di Pulina quando quest’ultimo fu nominato commissario dell’Ente foreste – e il professore associato Nicolò Macciotta, ovvero il segretario della sub commissioneche ha valutato la preparazione di Patteri per l’ammissione al dottorato. A presiedere la sub commissione c’era invece il ricercatore Gianni Battacone (guarda), che il 16 febbraio scorso si trovava a Campobasso per un convegno organizzato dalla Aissa, l’Associazione italiana società scientifiche agrarie. Presentava una relazione sul “Bosco e l’allevamento nelle aree interne della Sardegna: il caso del suino di razza autoctona”. Tra gli estensori del documento, insieme con Battacone: Giuliano Patteri e Antonio Casula (guarda).
Del Comitato di indirizzo – insieme con Patteri, Pazzona e Macciotta – fa parte anche il professore associato Quirico Migheli, che da presidente della sub commissione relativa al dottorato in Biotecnologie ha valutato la preparazione di Antonio Casula. Che conosce benissimo, al pari di Giuliano Patteri, l’ateneo sassarese.
Forestas, come detto, ha dei rapporti privilegiati con il dipartimento di Agraria. Si veda ad esempio la collaborazione per lo sviluppo e la riqualificazione dell’apicoltura, siglata da Pulina per Forestas e Pazzona per l’Università di Sassari. Il responsabile del progetto per conto di Forestas, così come si legge negli atti firmati da Pulina e dal Dg Casula, è Giuliano Patteri. Porta infatti la sua firma la relazione con la quale viene proposta la collaborazione con l’ateneo sassarese. Ma c’è anche il protocollo d’intesa siglato nel 2015 dall’allora Ente foreste, da Agris e dal Dipartimento di Agraria per la “realizzazione del parco tecnologico della montagna mediterranea nelle foreste demaniali del Goceano”. Nel gruppo di lavoro, per l’Università di Sassari compare Gianni Battacone e le firme in calce alla convenzione sono quelle del direttore generale dell’Ente foreste Antonio Casula e del direttore vicario del Dipartimento Antonio Pazzona. Quest’ultimo faceva le veci di Giuseppe Pulina, nominato pochi mesi prima commissario straordinario di Forestas.
Le commissioni non si saranno certo fatte condizionare dai rapporti professionali con i due candidati, ma rimane un interrogativo: è una situazione opportuna? Lo chiediamo anche agli interessati che, se lo riterranno, avranno tutto lo spazio necessario per dire la loro.

lunedì 23 ottobre 2017

I muscoli del Capitano, dagli yacht di lusso al salvataggio dei migranti – intervista di Pablo Sole a Michele Angioni


“No, non tutti arrivano vivi. E noi a bordo non abbiamo celle frigorifere, quindi caliamo una lancia, ci sistemiamo dentro i cadaveri e la rimorchiamo. Appena troviamo una nave con le celle, effettuiamo il trasbordo delle salme. E non è una bella esperienza”. Michele Angioni, 29 anni, al comando della Astral, un imponente veliero preso a nolo dalla Ong spagnola Pro Activa Open Arms e subito spedito nel Canale di Sicilia a salvare vite, ci è arrivato per caso. Natali quartesi, consegue il diploma al Nautico di Cagliari, si specializza a Genova e nel giro di pochi anni intraprende la carriera mercantile. Gira un bel pezzo di mondo ma non può sfuggire all’atavico richiamo della sua Isola-sirena. Torna in Sardegna e si mette al timone di lussuosi yacht da diporto, circondato da facoltosi turisti che sganciano un bel po’ di quattrini per veleggiare tra le calette di Santa Teresa, Caprera e Porto Cervo. Qui conosce il collega Riccardo Gatti, che ai ponti dei panfili a noleggio alterna quelli delle navi che salvano i migranti in zona Frontex. Per Michele è una folgorazione: dimentica Capriccioli e punta su Lampedusa. Quando prende il comando della ‘Golfo azzurro’, uno dei primi velieri affittati dalla Pro Activa, è il 16 dicembre 2016. Ancora non lo sa, ma andrà a sbattere a tutta velocità e senza cinture di sicurezza contro una realtà complessa fatta di drammi e sorrisi: lo scontro perenne per strappare alle onde donne e bambini, disperati e cadaveri, e la gioia negli occhi di chi ce l’ha fatta e ha trovato finalmente un porto sicuro. Questa è la cronaca dei dieci mesi trascorsi a salvare vite umane nel Canale di Sicilia.
I cadaveri sulla lancia a rimorchio
Recuperare i corpi dei migranti che non sono riusciti a sopravvivere alla traversata è stata chiaramente l’esperienza più devastante. Una cosa è vederlo nei filmati, su uno schermo. Un’altra è provare quell’esperienza sulla propria pelle. Sono ammassati nei gommoni, in mezzo alle persone che invece ce l’hanno fatta. Da un lato fai salire a bordo i vivi, dall’altro metti in mare una lancia, carichi i cadaveri e rimorchi. Quando si incrocia una nave con le celle frigorifere, si fa il trasbordo. Molti volontari rimangono scioccati, per questo a bordo abbiamo un team di psicologi. Ma l’impatto rimane comunque fortissimo, per qualcuno devastante.
Le donne stuprate che partoriscono in spiaggia, gli uomini tenuti a bada a forza di botte
La maggior parte delle donne che abbiamo soccorso ha subito abusi sessuali durante il viaggio per arrivare sulla costa oppure vengono stuprate durante la permanenza in Libia, in attesa di partire. Qui i migranti vengono suddivisi per paese d’origine e ‘sistemati’ in centri appositi. O più semplicemente ‘carceri’. Se una donna è incinta, la fanno partorire in spiaggia e poi si parte sui gommoni. Non è raro che a bordo ci siano neonati. Su una parete della nave abbiamo appeso la scarpetta di un bambino che aveva pochi giorni: ora sta bene. Gli uomini spesso arrivano con le ossa rotte, per tenerli ‘calmi’ vengono picchiati. Molti sul gommone si agitano, non sono pochi quelli che arrivano dall’Africa Nera e non hanno mai visto il mare.
I gommoni scomparsi in mezzo al mare, i giubbini di salvataggio che “ti portano giù”
Non sempre riesci a salvare tutti. È frustrante, perché a volte non puoi fare altrimenti. In un anno siamo riusciti a portare in salvo circa 15mila persone, ma in tutto il 2016, prima che io arrivassi, ne sono morte 5mila. A maggio ho vissuto la situazione più drammatica. In mezzo al mare c’erano ventidue gommoni, alcuni erano bucati e andavano a fondo. Li vendono su internet: “Gommoni per migranti, 800 dollari”, dice un annuncio su Alì Baba, l’Amazon cinese. Nel ‘prezzo’ della traversata è compreso anche giubbino di salvataggio: non serve a niente se non a farli affogare, visto il materiale con cui sono fatti. In quell’occasione abbiamo fatto partire le operazioni di recupero ma quattro gommoni sono rimasti in mare: i posti di salvataggio erano finiti e anche i salvagente. “Il vento li riporterà sulla costa, state tranquilli”, ci ha detto un operatore Frontex. Che fine hanno fatto quelle persone? Non l’abbiamo mai saputo. Non credo sia difficile immaginarlo.
I soldati libici che prima sparano, poi parlano. E chiedono il pizzo ai migranti
Quando abbiamo a che fare con la Guardia costiera libica – se così si può chiamare – la storia è quasi sempre la stessa. Partono col warning shot (sventagliate di mitra d’avvertimento, ndr), sparano in aria, poi aprono il canale radio. Capire perché si comportano in questo modo è semplice, l’abbiamo visto molte volte. Prima ci mandano via, lontano dai migranti, quindi abbordano i gommoni e ci richiamano: “Venite, salvateli voi”. Quando le persone salvate salgono a bordo, confermano i sospetti: per lasciarli andare, gli uomini della Guardia costiera si sono fatti pagare.
Libia e ricatti
Stiamo finanziando non si sa bene chi. Ci stiamo comportando come la Spagna con il Marocco: i primi pagano, i secondi bloccano le partenze. Solo che con la Libia non si capisce con chi si abbia a che fare. La Guardia costiera? Che risponde a chi? A quale fazione? Stiamo armando e soprattutto finanziando dei cani sciolti, delle vere e proprie milizie: ognuno lavora per chi vuole e come vuole, sono senza alcun controllo. E sia chiaro: lì in mezzo al mare c’è una guerra. Vera.
da qui

domenica 22 ottobre 2017

Il turismo? Non c'entra più col viaggiare, è solo masturbazione - Andrea Coccia

 

Nel 1817, quando pubblicò il secondo volume del suo mastodontico Viaggio in Italia basato su diversi viaggi da lui compiuti una trentina di anni prima, Johann Wolfgang von Goethe non avrebbe mai potuto sospettare di essere in procinto di porre una delle prime pietre di una delle più terribili dinamiche che l'Occidente abbia mai partorito: il Turismo.
Quello in cui si muoveva Goethe era un altro mondo: senza treni, senza aerei, senza traghetti, un mondo in cui la velocità del viaggio era quella delle carrozze di posta, dei cavalli presi a nolo e lasciati di stazione in stazione, quando andava male di un mulo o addirittura delle proprie gambe stesse. Non c'erano macchine fotografiche per immortalare tramonti, scorci cittadini e spiagge solitarie, né tantomeno canali di comunicazione digitali su cui condividere istantaneamente tutta quella bellezza con il mondo.
C'era solo il viaggiatore, quasi sempre solitario, che si avventurava senza guide, giusto qualche mappa, i soldi necessari per vivere due o tre mesi in giro — ché anche ai bancomat mancava più di un secolo e mezzo — e tempo, tanto tempo.
Duecento anni dopo, in una Europa che non somiglia più se non lontanamente a quella dei tempi di Goethe, anche il viaggiare non somiglia più quasi per niente a quello che facevano i ricchi figli della grande borghesia nord europea come il tedesco, gente che poteva permettersi di stare lontano dalla propria casa e dai propri affari per mesi con il solo scopo di visitare altri luoghi e, al posto di quella attività solitaria da privilegiati ci ritroviamo il suo surrogato peggiore, quel Turismo di cui sopra.
Al posto di quella manciata di viaggiatori eleganti e sofisticati, ora assistiamo a un fenomeno di massa, con più di un miliardo di persone al mondo che ogni anno viaggiano generando un giro di affari pazzesco che, nel 2016, si aggirava intorno ai 7,61 trilioni di dollari, qualcosa come 7mila miliardi. Una vera e propria invasione, che se ci fermiamo al solo dato economico potrebbe sembrarci positiva, sta però avendo effetti devastanti sulla vita delle comunità locali coinvolte, tanto che in molte di queste comunità — da Barcellona a Venezia, da Dubrovnik a San Sebastian — sta crescendo un sentimento di ostilità verso i turisti e il turismo, accusato di minare la sopravvivenza delle comunità stesse.

Il fenomeno più evidente è quello della controgentrificazione causata dall'uso sempre più massiccio di servizi di affitto come Airbnb da parte dei grandi proprietari di immobili situati in luoghi “turistici” — esempio numero uno Barceloneta — una dinamica che sta causando un fenomeno molto particolare: in buona sostanza i padroni di casa preferiscono affittare ai turisti che ai residenti, con la conseguenza che gli affitti aumentano e che, paradossalmente, questi luoghi sono sempre più visitati dalle truppe cammellate dei turisti di mezzo mondo, ma sempre meno abitati da chi ci ha sempre vissuto. Un po' come se nella Napoli di cui si innamorò Goethe ci fossero più tedeschi e inglesi che napoletani.
Non ci possiamo sorprendere però. Perché se è vero che i cavalli vincenti si capiscono alla partenza, la stessa cosa vale anche per quelli zoppi, e il turismo è zoppo dalla nascita e contiene in sé alcune delle peggiori e più inveterate idiosincrasie della società consumista occidentale, al pari degli zoo.
Il turista, al pari del visitatore dello zoo, è più simile al colonizzatore che al viaggiatore. Frappone tra sé e il mondo che visita una griglia culturale ancora più coriacea di quella che, allo zoo, separa gli spettatori dagli animali, rifiutando senza nemmeno passare dal via la possibilità di non giudicare quello che ha davanti con le proprie categorie. E di più, perché non soltanto queste sbarre il turista fa finta di non vederle, ma le desidera, le desidera sopra qualsiasi altra cosa. Perché se i Goethe almeno si sforzavano di uscire dalla propria comfort zone e andavano in giro con una rivoltella per difendersi dei briganti, i moderni Goethe imbrutiti, che lavorando guadagnano e guadagnando pretendono, non fanno un passo fuori dalla propria comfort zone.
Perché ai turisti dei luoghi che visitano non interessa nulla. Il viaggio del turista non è un movimento di apertura, al contrario, è impermeabile a tutto, soprattutto all'altro da sé che incontra sul cammino. Non gli interessa, perché il turista cerca di replicare la propria comfort zone quotidiana in ogni luogo che visita, pronto anche a deturparlo piuttosto che essere al sicuro. Non è un caso che il momento culminante del viaggio non sia più l'esperienza stessa del muoversi, né lo scoprire o il conoscere, ma la rappresentazione del proprio viaggio. È quella che conta ormai, la sua condivisione.
Solo che quando lo faceva Goethe il risultato era un'opera d'arte. Ora ormai è difficile finanche ritrovarsi in quelle grottesche serate diapositive di una volta. Ormai il turismo è solo masturbazione: una sega a due mani in onda 24/7 su Facebook e Instagram.

sabato 21 ottobre 2017

L’agricoltura è un enorme tritacarne - Francesco Gesualdi


Nella scala dei bisogni, mangiare e bere sono al secondo posto, subito dopo il respirare. Senza cibo non si cresce, non si impara, non si lavora. Si è larve umane. Secondo la Fao, ottocento milioni di persone sono in condizione di fame cronica, ossia assumono meno di 1800 calorie al giorno. Ma se allarghiamo la visuale anche a chi soffre per altre forme di carenza alimentare, scopriamo che i sottoalimentati sono oltre 2 miliardi, quasi un terzo della popolazione mondiale. Colpa della insufficiente produzione di cibo? Non proprio a giudicare dai 2 miliardi di individui sovrappeso, 650 milioni dei quali decisamente obesi.
Chi mangia troppo, chi troppo poco: schizofrenia di un sistema agricolo che ormai non produce più cibo per la vita di tutti, ma merci per l’arricchimento di pochi. E non certo dei contadini a diretto contatto con la terra, ma di chi occupa ben altre posizioni. Se esaminiamo la filiera agricola scopriamo che il settore è strutturato a sandwich. Sopra ci sono le imprese che forniscono gli ingredienti per l’agricoltura: sementi, fertilizzanti, pesticidi. Sotto le imprese che fanno incetta di prodotti agricoli da rivendere alle industrie alimentari e ai supermercati. Nel mezzo gli agricoltori che finalmente seminano e raccolgono. È l’economia dell’estrazione dove le imprese di sopra e di sotto sono quelle che fanno i soldi con strategie contrapposte: le prime imponendo alti prezzi sui prodotti che vendono, le seconde imponendo bassi prezzi sui prodotti che acquistano. Potere della loro posizione dominante considerato che una manciata di multinazionali, fra cui Bayer, Monsanto, Syngenta, DuPont, controlla il mercato degli ingredienti, mentre un’altra manciata, fra cui Cargill, Bunge, ADM, Dreyfus, controlla i mercati di sbocco di cereali, soya, cacao.

Nella logica dei soldi, cosa produrre, come e per chi, non ha importanza. L’importante è vendere sempre di più creando un divario sempre più ampio fra spese e ricavi. In fondo il nocciolo del capitalismo è tutto qui. Così l’agricoltura è stata trasformata in un gigantesco tritacarne dentro il quale la terra è un semplice substrato da inondare di chimica per ottenere la germinazione e la crescita forzata delle piante, le sementi un’accozzaglia di molecole da modificare in base ai calcoli di migliore resa finanziaria, i lavoratori braccia da sfruttare, i consumatori anatre da ingozzare in base alla loro capacità di acquisto: a digiuno chi non ha soldi da spendere, all’ingrasso tutti gli altri. E i risultati si vedono non solo sul piano sociale, ma anche quello ambientale, due ambiti inseparabili come ci ricorda papa Francesco che ci invita ad affrontare congiuntamente le due tematiche nella prospettiva dell’ecologia integrale.
Secondo le Nazioni Unite, l’agricoltura industriale provoca ogni anno la perdita di 75 miliardi di tonnellate di suolo fertile e non è un caso se in perfetto stile coloniale si è rimesso in moto la corsa all’accaparramento di terre da parte delle grandi imprese dell’agroindustria d’occidente come d’oriente. Stiamo parlando del landgrabbing, alla lettera furto di terre, che coinvolge principalmente l’Africa, il grande continente eternamente saccheggiato (leggi ad esempio I predatori della savana). E mentre i nostri mercati sono inondati di fiori, fagiolini e ogni altra primizia fuori stagione, in paesi come Etiopia, Kenya, Camerun, migliaia di contadini sono espulsi dalle loro terre e ricacciati fra le fila degli affamati.
La chiave per uscire da questa situazione è al tempo stesso nelle mani dei cittadini-consumatori e dei governi. Dei cittadini perché possono condizionare il mercato tramite il voto col portafoglio e nuove abitudini alimentari. Comprando prodotti a km zero, richiedendo prodotti biologici e di stagione, aderendo ai gruppi di acquisto solidale, possiamo rafforzare le piccole aziende locali che operano all’insegna della responsabilità sociale e ambientale. Riducendo il consumo di carne possiamo indebolire un sistema agricolo perverso che ha dato vita ad una pletora di animali per assorbire una pletora di cereali prodotta da una pletora di chimica. Non senza danni per l’intero ecosistema, considerato che l’allevamento animale contribuisce al 14 per cento dell’intera produzione di anidride carbonica.


La soluzione è anche nelle mani dei governi e dei parlamenti perché possono, anzi debbono, intervenire per impedire che le imprese ci trascinino in avventure tecnologiche dagli esiti ignoti per la natura e gli esseri umani. Devono intervenire per interrompere i processi di concentrazione proprietaria che permettono a pochi colossi di determinare le sorti alimentari dell’intera umanità. Ma soprattutto devono smetterla con l’atteggiamento pilatesco di tipo neoliberista che demanda al mercato ogni decisione sulla forma che deve assumere la filiera agricola e alimentare. I governi devono tornare ad assumersi la responsabilità di ruolo guida del sistema agricolo e dell’intera economia. Devono tornare ad utilizzare gli strumenti della fiscalità, della produzione legislativa, della spesa di bilancio, per spingere il sistema produttivo verso la piena inclusione lavorativa, la salute pubblica, la sostenibilità ambientale, l’equità, la dignità umana. Devono farlo prima che sia troppo tardi. Dovrebbero ricordarselo i ministri dell’agricoltura del G7 (leggi anche Il buon seme si salva insieme), facendo seguire passi concreti alle dichiarazioni di intenti.