giovedì 28 settembre 2017

Una guida per un consumo critico dell’energia


Dossier a cura del Centro Nuovo Modello di Sviluppo (CNMS) - Rocco Artifoni

Il Centro Nuovo Modello di Sviluppo (CNMS), fondato nel 1985 a Vecchiano (Pisa), è noto soprattutto per i materiali prodotti e per i dossier realizzati sul consumo consapevole: in particolare la “Lettera ad un consumatore del Nord” (1990) e la “Guida al consumo critico” (1996). Dietro ogni pubblicazione c’è un lavoro enorme: raccolta di informazioni, verifica delle fonti, catalogazione dei dati, preparazione delle schede, scrittura dei rapporti, ecc. In ciascuna di queste attività si possono cogliere alcune caratteristiche metodologiche di fondo: il rigore dei ricercatori, l’attendibilità della documentazione prodotta e la cura nella comunicazione, affinché tutti i cittadini/consumatori possano comprendere la posta in gioco.
Anche l’ultimo dossier del CNMS, la “Guida all’energia critica”, si può inquadrare in questa prospettiva. È un testo che si legge in poco tempo, accompagnato da piacevoli illustrazioni che aiutano a comprendere le situazioni descritte, e che con chiarezza spiega i problemi attuali e le scelte che si porranno nei prossimi anni. La necessità di elaborare questa Guida sorge dalla recente approvazione della legge n. 124 (del 4 agosto 2017), che ha decretato la fine del mercato tutelato dell’energia elettrica a partire dal 1° luglio 2019. Per quella data gli utenti con tariffe fissate dall’Autorità per l’energia dovranno stipulare un nuovo contratto di fornitura. Considerato che le famiglie costrette a scegliere un fornitore dell’energia sono circa 20 milioni, c’è da aspettarsi che ognuna sarà subissata di offerte da parte degli oltre cinquecento operatori commerciali attivi nel settore. Il dossier del CNMS è stato realizzato per dare alcuni strumenti di conoscenza della filiera dell’energia elettrica, affinché ognuno possa compiere scelte più consapevoli.
Il contenuto della Guida è chiaro e “oggettivo”: ciascun lettore riceve informazioni utili sul sistema energetico: dalla produzione alla distribuzione, dalla commercializzazione agli incentivi, dalle società che lavorano nel settore al ruolo delle autorità di controllo. Il dossier non è “neutrale”, poiché non è stato scritto soltanto per fotografare l’esistente. Anzitutto il CNMS sottolinea come la filiera energetica “svolge un ruolo strategico da un punto di vista economico, che ha una forte rilevanza ambientale e che risponde a bisogni fondamentali classificabili come diritti”. Di conseguenza, “ a nostro avviso ci sono tutte le condizioni per sostenere che l’energia elettrica va gestita come servizio pubblico, non come merce assegnata al mercato”.
Tenendo conto che la legge approvata ad agosto va nella direzione opposta, il CNMS invita a porre attenzione a due criteri che possono orientare nella scelta del fornitore di energia: “Il criterio di prodotto seleziona l’energia da acquistare in base alla fonte produttiva. Il criterio d’impresa seleziona l’azienda da cui rifornirsi in base alla struttura e ai comportamenti”. Naturalmente la Guida fa un’opzione preferenziale per le aziende pubbliche, ma considera anche imprese private dai comportamenti virtuosi (rispetto dei diritti dei lavoratori, trasparenza delle informazioni, ecc.). Per la produzione il criterio di scelta è decisamente nell'ambito delle energie rinnovabili: “È importante fare attenzione al tipo di energia che richiediamo perché può contribuire ad aggravare o a mitigare un fenomeno che sta destando grande preoccupazione per i suoi effetti sulla produzione agricola, l’innalzamento dei mari, l’avanzamento dei deserti, il moltiplicarsi di alluvioni e migrazioni forzate. Stiamo parlando dei cambiamenti climatici dovuti all'aumento della temperatura terrestre conseguente all’accumulo di anidride carbonica, che l’umanità emette in misura quasi doppia rispetto alla capacità di assorbimento del sistema vegetale e degli oceani”.
Per questa ragione il dossier propone un elenco di aziende che forniscono esclusivamente energia da fonti rinnovabili. Purtroppo l’elenco per il momento è incompleto, perché “nessuno dei due enti che conosce l’informazione (Autorità per l’energia e GSE) ha risposto alla nostra richiesta per cui siamo stati costretti ad arrangiarci”, attraverso ricerche su internet e con le interrogazioni fatte direttamente alle società. Proprio questa difficoltà a reperire dati certi è l’elemento posto in evidenza alla conclusione del dossier: “L’informazione è un bene comune da godere gratuitamente. Per questo siamo felici di aver messo il nostro volontariato a disposizione di tutti. Ma il volontariato da solo non basta. Serve anche l’apporto di professionisti che hanno diritto a un compenso. Se hai apprezzato questo lavoro e desideri che ne realizziamo altri, sostienici”. Un appello che merita di trovare un’adeguata risposta da parte dei lettori che dovrebbero conoscere la fatica e riconoscere l’impegno di chi da decenni dà un contributo significativo per una società che abbia il bene comune come propria Guida.
da qui

martedì 26 settembre 2017

Solo il carbonio vivo salverà la terra - Vandana Shiva


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Disastri climatici, resilienza climatica. Fra l’estinzione e la fuga su altri pianeti abbiamo una terza via: sopravvivere prendendoci cura di Madre Terra. Negli Stati indiani di Assam, Bihar e Uttar Pradesh le inondazioni hanno provocato 41 milioni di sfollati e ucciso circa cinquecento persone; a Houston e Mumbai hanno paralizzato ogni attività. È sempre più evidente che non stiamo vivendo all’interno dei limiti ecologici del nostro pianeta, e che per le nostre continue violazioni delle leggi della Terra, essere vivente, subiamo pesanti conseguenze.
Quest’anno si susseguono immagini di inondazioni estreme; l’anno scorso è stata la siccità a essere estrema ed estesa. Quando distruggiamo i sistemi climatici della Terra, che si autoregolano, arriviamo al caos, all’incertezza climatica, a cambiamenti imprevedibili ai quali pensiamo di sfuggire con la geo-ingegneria e l’ingegneria genetica.
I sistemi viventi evolvono, si adattano, si rigenerano. Non sono ingegnerizzati. Il dominio del paradigma ingegneristico inizia con l’era dei combustibili fossili, l’era dell’industrialismo e del meccanicismo. E la dottrina secondo la quale ogni fenomeno naturale, compresi la vita e il pensiero, possono essere spiegati sulla base di processi meccanici e chimici.Negli ultimi duecento anni una piccola parte dell’umanità ha inquinato il pianeta, a causa di un’economia alimentata da carbone, petrolio e gas, e di un sistema di conoscenza fondato su un paradigma meccanicistico, riduzionista e materialistico.

L’inquinamento dell’atmosfera ha sconvolto i sistemi e l’equilibrio climatico. La distruzione degli habitat e la diffusione delle monocolture hanno contribuito a quello che gli scienziati chiamano la Sesta estinzione, la sparizione della biodiversità a un ritmo che è mille volte quello naturale.
Mangiamo, beviamo, respiriamo petrolio. L’estrazione di combustibili fossili (carbonio morto) dal suolo, la loro combustione e le emissioni incontrollabili in atmosfera portano alla rottura del ciclo del carbonio e in questo modo alla destabilizzazione dei sistemi climatici.
Come sottolineano Steve McKevitt e Tony Ryan (in Project Sunshine), tutto il carbone, il petrolio e il gas naturale che estraiamo e bruciamo si sono formati oltre seicento milioni di anni fa. Bruciamo ogni anno venti milioni di anni di natura. Il ciclo del carbonio è spezzato. Noi lo abbiamo spezzato.
La dipendenza dal carbonio fossile, morto, induce anche scarsità di carbonio vivo, con la conseguente diminuzione della disponibilità di cibo per gli umani e per gli organismi del suolo. Una scarsità che si traduce in malnutrizione e fame da una parte e desertificazione del suolo dall’altra. L’agricoltura chimica intensifica gli input di sintesi e il capitale, riducendo la biodiversità, la biomassa e il nutrimento che i semi, il suolo e il sole possono produrre.
Per fissare più carbonio vitale, abbiamo bisogno di intensificare biologicamente le nostre fattorie e le nostre foreste, in termini di biodiversità e biomassa. La biodiversità e la densità di biomassa producono più nutrimento e più cibo per ettaro (come abbiamo mostrato nel rapporto di Navdanya intitolato Health per Acre – Salute per ettaro), affrontando così il problema della fame e della malnutrizione. Ma aumentano anche (e non solo) il carbonio vitale nel suolo, e tutti gli altri nutrienti, insieme alla densità degli organismi benefici.

Più facciamo crescere la diversità e la biomassa, più le piante fissano il carbonio e l’azoto atmosferici, e riducono sia le emissioni che la quantità di sostanze inquinanti in atmosfera. Il carbonio viene restituito al suolo attraverso le piante. Ecco perché è davvero stretto il legame fra biodiversità e cambiamenti climatici.
Più si intensificano la biodiversità e la biomassa delle foreste e delle fattorie, più materia organica è in grado di ritornare al suolo, invertendo il trend verso la desertificazione che è la prima causa degli spostamenti di popolazione e dello sradicamento delle persone, con la creazione di ondate di rifugiati (si veda il manifesto di Navdanya Terra viva: Our Soils, Our Commons, Our Future).
Per riparare il ciclo del carbonio che abbiamo spezzato dobbiamo tornare ai semi, al suolo, al sole, aumentare il carbonio vivo nelle piante e nei suoli. Dobbiamo ricordare che il carbonio vivo dà vita, mentre il carbonio morto distrugge i processi della vita. Così, con le nostre cure e la nostra consapevolezza, possiamo accrescere il carbonio vivo sul pianeta e il benessere di tutti. Invece, più sfruttiamo e usiamo carbonio morto, più inquinamento produciamo e meno avremo per il futuro. Il carbonio morto deve essere lasciato sottoterra. È un obbligo etico e un imperativo ecologico.
Ecco perché il termine «decarbonizzazione» – senza distinzione fra il carbonio vivo e quello morto – è scientificamente ed ecologicamente inappropriato. Se decarbonizziamo l’economia, non avremo piante, che sono carbonio vivo, non avremo vita sulla Terra. Vita che crea carbonio vivo e ne è alimentata. Un pianeta decarbonizzato sarebbe un pianeta morto.
Dobbiamo ricarbonizzare il mondo con carbonio vivo. Dobbiamo decarbonizzare il mondo relativamente al carbonio morto. Quando creiamo più carbonio vivo attraverso l’agroecologia e l’agricoltura organica, abbiamo più suoli fertili che producono più cibo e trattengono più acqua, aumentando dunque la resilienza di fronte a siccità e inondazioni. L’agricoltura biologica ad alta intensità di biodiversità produce più cibo e più nutrienti per ettaro.Garantendo servizi ecologici e il controllo degli agenti infestanti, permette di fare a meno degli input di sintesi, dei veleni, evitando anche i debiti contratti per acquistarli, la principale causa di suicidio fra gli agricoltori. I redditi agricoli possono aumentare di dieci volte se si abbandona la dipendenza da input chimici costosi e dalla coltivazione di derrate i cui prezzi continuano a scendere.
Far crescere cibo vero a zero costi è la strada verso il secondo degli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile (Sdg) dell’Onu: fame zero. I combustibili fossili, la strada verso la conquista, ci hanno portati alla crisi che l’umanità è ora costretta ad affrontare.
Crediamo di essere al di fuori e al di sopra della Terra, crediamo di controllarla, di esserne i padroni. Lo crediamo. I combustibili fossili ci hanno consentito l’illusione di non dover vivere entro i limiti, le frontiere e i processi ecologici del nostro pianetaMa ecco che i cambiamenti climatici, gli eventi estremi, i disastri ci ricordano con sempre maggiore frequenza che siamo parte della Terra. Ogni atto di violenza che distrugge i sistemi ecologici minaccia anche le nostre vite.
da qui

lunedì 25 settembre 2017

La Cina è lontana, purtroppo

Cina: obiettivo 105GW solare entro il 2020 raggiunto e superato nel 2017 con 112GW



 La Cina batte tutti i record di energia solare fotovoltaica
con tre anni di anticipo.

A Repubblica e alla stampa di Puglia: se copiate, citate.
Non e' molto educato scopiazzare blog altrui.

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E mentre noi pensiamo a trivellare Santa Maria di Leuca, la Cina ha superato noi, l'Europa e se stessa. 

L'obiettivo era di arrivare a 105 GW di potenza solare nel 2020.

Ci sono arrivati, e hanno superato l'obiettivo nel Luglio 2017 (tre anni prima!) quando grazie all'installazione di numerose unità sono arrivati a 112 GW.

E infatti secondo l'AECEA (Asia Europe Clean Energy Adivisory) i cinesi hanno installato 35 GW in soli sette mesi! Più del doppio di quanto installato da tutti gli altri paesi nel 2016.


Se vanno avanti arriveranno a oltre 210 GW nel 2020, cinque volte la capacita' degli USA in questo momento.


Anche nel reparto vento non scherzano. Per il vento l'obiettivo e' di 210 GW entro il 2020, ma si stima che con l'arrivo di circa 110 GW previste da turbine onshore, l'obiettivo verra' superato e che si arriverà a 264 GW entro il 2020.

E' più di tutta la capacità dell'Europa.

In Cina c'è già il più grande campo solare del mondo, e quello galleggiante più grande del mondo. Ma non e' solo l'installazione e il "grande" in se e per se,  in Cina vogliono installare impianti con tecniche avanzati, con maggiore efficienza e integrando produzione ed uso, e vogliono incentivare sia la produzione centralizzata che sui tetti.

La strada è ancora lunga, visto che in realtà la domanda di energia è cosi grande che tutti questi gigawatt non sono che l'un percento del suo fabbisogno e che il carbone è ancora principe, ma è evidente che la strada maestra che si apre è in una direzione diversa dalle fossili. 

Vediamo dove vogliono arrivare.

Intanto in Italia ci sono i tagli *retroattivi* al fotovoltaico, incertezza normative, investitori che scappano, e tutti gli sforzi degli anni passati al dimenticatoio.

Il mondo corre, e noi scegliamo le trivelle invece che il sole.




Cina: niente piu' macchine a benzina, il futuro e' l'auto elettrica

Non hanno fissato ancora una data, ma la Cina ha appena annunciato che nel futuro prossimo verra' *vietata* la vendita di automobili alimentate da combustibili fossili. 

L'hanno gia' annunciato UK e Francia, Norvegia e Svezia, e pure l'India, ma questa mossa eseguita in Cina, ovviamente, non potra' che avere ripercussioni a livello mondiale, considerato che e' uno dei principali mercati del mondo e con la capacita' nascente ma certa di poter costruire automobili elettriche in massa. 

L'annuncio arriva dal vice ministro dell'industria e della tecnologia informatica, Xin Guobin, che dice che non ci sono date, a differenza di UK e Francia che hanno fissato il termine del 2040, ma che l'obiettivo e' certo e che le date verranno stabilite nei tempi dovuti. 

Quello che era stato fisssato in precedenza e che si vuole migliorare e' di produrre almeno il 20% di auto elettriche o ibride entro il 2025.

Sara' una trasformazione enorme, per la Cina, e per noi tutti, che la FIAT lo voglia o no.


Certo, perche' soffocano d'inquinamento, lo smog e' alle stelle, le malattie respiratorie pure, e la pressione popolare di migliorare le cose aumenta, in parallelo alla prosperita' dei cinesi.  E' una decisione che si pone sulla scia di eliminare il carbone come fonte energetica dal paese entro il 2030.

Ma ci sono altri motivi, piu' economici e di immagine.

Intanto dopo il fiasco di Trump (e degli USA!) sugli accordi di Parigi, la Cina vede in se stessa un  leader nella lotta ai cambiamenti climatici e questa decisione non potra' fare altro che sigillare ancora di piu' il suo ruolo o la sua aspirazione di diventare paese-guida ora che gli USA non ci sono piu'.  E infatti il presidente Xi Jinping e' uno dei piu' ferventi sostenitori degli accordi sui cambiamenti climatici.

E poi... Poi c'e' un enorme mercato da conquistare con le auto elettriche e i cinesi vogliono che siano i loro produttori di veicoli a prendersi questo mercato, e non Elon Musk con la sua Tesla o gli europei. Con l'obbligo dell'auto elettrica i produttori cinesi inizieranno ad essere piu' competitivi e a sviluppare progetti elettrici per il paese in modo piu' urgente e sostenuto, cosi' da avere un elettrico made-in-China prima che arrivino gli altri a prendersi il mercato interno. 

E chissa' magari anche a favorire le esportazioni di automobili cinesi a basso prezzo.  

Insomma, vogliono riprodurre il successo di Tesla in Cina.

Ma il governo cinese e' furbo.

Tutte le case automobilistiche straniere che intendono vendere in Cina devono entrare in consorzi 50-50 con ditte cinesi e fare e vendere i loro veicoli e camion in Cina. A causa delle alte tariffe sulle importazioni, e' difficile per le ditte straniere importare veicoli dai loro paesi d'origine, perche' non e' conveniente.

Dunque, chiunque vuole entrare nel mercato cinese deve farlo con queste joint ventures.

Non ci sono scorciatoie.

I cinesi possono fare questo perche' il mercato e' enorme, con 28 milioni di auto vendute nel 2016, un +14% rispetto al 2015. Basti solo dire che negli USA le vendite sono a 17.5 milioni di automobili, a tasso costante rispetto al 2015.

Quindi, per fare business in Cina, devi metterti in una joint venture con i cinesi. Il governo cinese, per ora, paga le royalties su eventuale proprieta' intellettuale che gli stranieri usano in queste joint ventures, ma intanto hanno preso ed applicato al loro paese il sapere sviluppato altrove.

Ma anche questo cambiera', perche il governo cinese prevede di eliminare la clausola sul pagamento delle royalties. E cosi, le ditte straniere non potranno far altro che prendere eventuali profitti sulle auto vendute, senza poter proteggere la proprieta' intellettuale.

Tutto questo non e' molto bello: ci vogliono anni ed investimenti per sviluppare tecnologie nuove e la Cina semplicemente usa i suoi numeri per prendersi i risultati del lavoro di altre ditte.

Si prevede che l'amministrazione Trump non la prendera' troppo bene, ma tutti sono in una cattiva posizione, europei ed americani.

Per non perdere quote di mercato in Cina, europei ed americani dovranno in un certo senso regalare anni dei loro studi e perfezionamenti sulle auto elettriche ai concorrenti cinesi.

La Cina non e' certo nota per la qualita' delle sue macchine. Ma l'idea e' che invece di cercare di superare l'occidente con i tradizionali motori a scoppio, lo faranno con l'elettrico. Per esempio, la Cina non ha mai dominato il mercato delle lampadine tradizionali, ma e' diventata il leader mondiale delle lampadine a LED una volta che il mercato ha preso questa direzione.

L'idea e' di fare lo stesso con le auto elettriche. Superare l'occidente non con il motore a scoppio ma con l'auto elettrica.

Ma cosa produce per adesso la Cina? Molte delle macchine elettriche di piccolo taglio non sono di alta qualita', ma alcuni modelli sono gia' alla pari con quelli europei, in particolare le ditte BYD e  Geely che ha comprato la Volvo nel 2010.

E gli altri?

Beh, gli altri hanno preso la sfida: Mercedes, Jaguar, Volkswagen hanno gia' annunciato che molti dei loro modelli saranno offerti sul mercato in versione elettrica fra il 2020 e il 2030.

Cina o non Cina, mi sa che in un certo senso ci vinciamo un po' tutti con questa corsa verso l'auto elettrica.

domenica 24 settembre 2017

progettisti e ingegneri italiani brava gente

La Aleanna Resources a trivellare fra le risaie di Pavia, il pozzo si chiama "Bella 1" - Maria Rita D'Orsogna


 La Aleanna Resources chiede di trivellare in area di:

"intensa attività agricola"
"area di inondazione per piena catastrofica"
"unita' paesaggistica delle fasce fluviali"

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I nomi di coloro che lavorano su questo scellerato progetto  sono: 

Martina Gadoni, project specialist
Mattia Bergamini, project specialist
Antonino Cuzzola, senior hydrogeologist,
Vincenzo Nappa, senior project specialist

A loro posso solo dire una parola: vergognatevi.

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Ma... che li abbiamo firmati a fare gli accordi di Parigi?

Ci sono trivelle e altre trivelle in tutta Italia, da nord a sud, come cavallette!

Questa volta e' toccato a Costa de' Nobili a venti chilometri da Pavia. E il lupus in fabula e' la Aleanna Resources, un'altra micro ditta americana che vuole venire a bucare l'Italia.

Il pozzo esplorativo si chiama Bella 1, e la concessione di 322 chilometri quadrati e' per la maggior parte in Lombardia anche se una piccola frazione cade in Emilia Romagna. Le province interessate sono Pavia, Milano, Lodi e Piacenza.

Il fiume Po e' a meno di 4 chilometri.

Iniziamo a leggere quest'altro affronto alla nostra nazione.

Gli amici di cui sopra ci spiegano che il territorio e' pianeggiante e *interamente adibito a coltivazione agricola*. Distruggeremo cioe' le campagne di Pavia per farci trivellare la Aleanna Resources del Delaware, USA.

Quello che vorranno fare qui i nostri amici americani e' creare una "piazzola di perforazione" con "relativi impianti ed accessi", perforazione del pozzo con l'immissione di fanghi di perforazione, e poi, una volta finito "ripristino" dell'ambiente.

La durata della perforazione del pozzo e' stimata in circa 15 giorni. Se trovano idrocarburi, resteranno in loco per altri dieci giorni se no, se ne andranno.  Il loro target principale e' il gas metano.

Ora, per chi legge queste cose per la prima volta: tutto questo e' fuorviante ed e' la politica del carciofo. Una foglia alla volta, finche' non si arriva al cuore di cio' che si vuole. O anche divide et impera. Cioe' qui dicono che al massimo-massimo staranno a Costa de' Nobili per 25 giorni,  in realta' ci si sta preparando la strada per attivita' estrattiva permanente che durera' per anni e anni, se le cose vanno come la Aleanna Resources vorrebbe.

Quindi, il tempo per opporsi e' adesso, in modo preventivo e per evitare decenni di fanghi e di trivelle. A loro non interessa stare sul terreno 25 giorni, quanto 25 anni.

Continuiamo a leggere.

Nell'area ci sono risaie, pioppeti, coltivazione di legumi e di "piante industriali" (ipse dixit!) e ci sono coltivazioni di cereali e di foraggi, con allevamenti di mucche.

La stessa Aleanna parla di forte sviluppo di un’agricoltura intensiva legata alla coltivazione di cereali e di foraggi che hanno comportato un intenso incremento dell'allevamento bovino da latte e da carne. 

Come il loro pozzo possa integrarsi con tutto il circondario e' un mistero che solo loro posso sognare dal Delaware, e infatti nel rapporto di valutazione ambientale non dicono neanche una parola sul loro pozzo in questo contesto.

Chi mai vorrebbe legumi o riso con un po di idrocarburi dentro?

E quindi stanno zitti.

L'area, teniamoci forte, e' classificata come area "di inondazione per piena catastrofica", in fascia C cioe' la piu' pericolosa. La parola "catastrofica" parla chiaro, no?  Ci possono essere "inondazioni e eventi di piena più gravosi di quella di riferimento".

Mmh. E se mai dovesse arrivare la "piena catastrofica" , come resistera' il pozzo della Aleanna? E non quello temporaneo, quanto quello permanente? E tutta l'infrastruttura che questi si porteranno appresso? E' sicuro mettere pozzi ed oleodotti e fanghi in un territorio a rischio allagamento?

Aggiungono che un "ulteriore elemento simbolo dell’intensa attività agricola è la presenza di una vasta rete irrigua", e che il pozzo "ricade pienamente nell’unità paesaggistica delle fasce fluviali".

E' qui previsto che vengano innanzitutto preservati "i caratteri di naturalità dei corsi d’acqua,
i meandri dei piani golenali, gli argini e i terrazzi di scorrimento".


Mmh. Abbiamo tutti visto cosa e' successo in Basilicata con il Pertusillo, lago petrolizzato, da cui ogni tanto arrivano scie e concentrazioni fuori controllo di idrocarburi. Pensiamo veramente che con le trivelle "la naturalita'" dei corsi d'acqua sara' preservata?

Con un po di idrocarburi dentro?

Oltre a una fitta rete di torrenti e fiumi, c'e' qui anche zona boschiva a 500 metri dal pozzo e ben due aree protette, una "important bird area" e una zona a protezione speciale, riconosciuta dall'UE. Sono:

1. il Fiume Po dal Ticino a Isola Boscone - IBA199 (area di importanza internazionale per l’avifauna – Important Bird Areas) a 3.8 chilometri dal pozzo

e

2. il Po da Albaredo Arnaboldi ad Arena Po - ZPS IT2080701A (zona di protezione speciale) che secondo la stessa Aleanna "presenta le condizioni per ospitare una fauna ricca e diversificata".

Un po piu lontano, a circa sei chilometri, c'e' il Parco della Collina di San Colombano; a sette chilometri il sito di importanza comunitario Fiume Po da Rio Boriacco a Bosco Ospizio, e a otto chilometri un altra zona di protezione speciale, il Po di Pieve Porto Morone.

Come pensano che boschi, uccelli, fiumi e fauna ricca e diversificata non verranno intaccati? Il pozzo non nasce nel nulla, ci saranno camion (parlano loro stessi di 30 autoarticolati!, escavatori, rulli e rullatrici), esalazioni, oleodotti, infrastruttura. E ne l'aria ne gli animali conoscono confini.

E' inevitabile che l'ecosistema ne risentira'.

Tirano fuori pure tutte le regolamentazioni nazionali e locali, i piani di indirizzo forestale, di governo del territorio, le direttive della provincia.

Indovinate?

E' tuttapposto!

Il pozzo Bella 1 non interferira' con niente, e' in linea con tutto e nulla verra' modificato.
Dei pozzi invisibili!

Ora, siccome il governo impone di studiare "l'alternativa zero" cioe' cosa succede se non si trivella Bella 1, quelli della Aleanna vengono fuori con una serie di astrusi ragionamenti che solo i petrolieri possono tirare fuori.

Dicono infatti che, secondo il governo, ci deve essere priorita' per lo sviluppo di energie rinnovabili, efficenza e sicurezza energetica, decarbonizzazione entro il 2030, e progressi nella tecnologia, ricerca e innovazione.

Ah si? E cosa c'entrano allora le trivelle con queste nobili prorita' del nostro governo? Trivelle con tecnologia da anni sessanta, ubercarbonizzazione, zero sicurezza con pericoli di scoppio e di inquinamento?

C'entrano, perche' secondo la Aleanna senza il loro pozzo saremo penalizzati in quanto limiteremo la  "la possibile crescita della produzione interna" e non contribuiremo "ne' alla riduzione del deficit ne' al raggiungimento degli obiettivi previsti dalla Strategia Energetica Nazionale."

Ovviamente faranno tutto questo nel rispetto dei "piu' elevati standard ambientali e di sicurezza internazionali", con investimenti, lavoro, gioia e felicita' per tutti.

Ha ha ha.

Bella 1, secondo loro,  "potrebbe aiutare a sostenere l’attuale situazione di criticità del mercato italiano del gas" che e' in crisi grazie alla "riduzione della produzione nazionale dovuta alla diminuzione delle riserve nazionali e crescente dipendenza di forniture dall’estero".

Il loro pozzo dunque portera' a vantaggi socio-economici.

Ha ha ha.

Come in Basilicata, dove l'emigrazione e' alle stelle e le statistiche dicono che la poverta' c'era 20 anni fa e c'e' tuttora, gas o non gas, petrolio o non petrolio.

E' una canzone che abbiamo gia' sentito e che e' sempre, sempre, stata solo il canto delle sirene di Ulisse.

Scusate, ma avete idea di quanto potremmo fare in termini di crescita della produzione interna di energia con le rinnovabili? Quanto lavoro potremmo dare ai nostri imprenditori *locali* con sole e vento invece che darli a una microditta del Delaware? Quanti soldi risparmieremmo evitando inquianmento ed emissioni?

E poi, lo sapete meglio di tutti che la produzione e l'uso di gas e' in calo a causa del fatto che sebbene sofficate da governi ciechi e stupidi, le rinnovabili hanno messo piede in Italia e hanno portato via richiesta di gas. E poi c'e' la crisi che in dieci anni ha contribuito al calo dei consumi, fra cui quello di gas. E ancora, il prezzo e' cosi basso, e i giacimenti cosi scadenti, che spesso non e' competitivo trivellare le micro-riserve italiane.

Suvvia, cara Aleanna, lo sapete bene che la vostra e' solo *speculazione* e che lo scopo ultimo e' di portare soldi ai vostri investitori, costi quel che costi. Il resto e' solo blabla per abbindolare i politicanti italiani.

Mmh. Continuo a leggere e mi chiedo quando mai arriveranno alla descrizione dei fluidi di perforazione.  Parlano di tutto, altezza, velocita', potenza delle trivelle di ultimissima generazione che saranno pure insonorizzati, trenta "autoarticolati".  Dicono pure quanto sara' il consumo di combustibile dei loro mezzi, ma di fluidi che verranno pompati nella pancia della terra di Pavia, non c'e' traccia.

Cosa c'e' dentro questi fluidi? Quanto ne verra' pompato? Che influenze ha questa monnezza su campi e persone? Chi li smaltira? Dove finiranno? Non si sa.

Dicono solo che l'acqua usata per preparare tali fluidi sara' prelevata altrove (non si sa dove) e che tutto sara' impermeabilizzato.

Questa era forse la parte piu' importante, sapere cosa pomperanno sotto i nostri piedi.

Ma non ce lo dicono.

Perche'?

Perche' qui non possono arrampicarsi sugli specchi. Come potranno mai dire che ci servono miscele tossiche, a volte cancerogene e radioattive, nel nostro sottosuolo?  Come possono dirci i volumi coivolti e pensare che la gente non voglia questa robaccia nelle proprie risaie?  Come possono pensare che si possa accettare il passaggio di camion avanti e indietro con materiale tossico dentro?

E quindi non dicono niente.

Anzi, dicono che per mitigare tutto... laveranno le ruote dei loro camion. Non scherzo!

E infine, ci sono, su 46 pagine, dieci righe piu o meno su cosa accadra' in caso “situazioni emergenziali” di possibile "fuoriuscita di fluidi". Niente paura, ci sono "speciali apparecchiature meccaniche di sicurezzamontate sulla testa pozzo  che lo chiuderanno, sempre.

E cosi sara'. Tutto ha impatti lievi, trascurabili e nulli.

In Italia va bene pure trivellare fra i campi di riso, vicino a boschi e zone di protezione per gli uccelli,  in zone di rischio allagamento catastrofico.

Tuttapposto.  

sabato 23 settembre 2017

Comitati: “Metanizzazione progetto nocivo e obsoleto”



Un’altra battaglia prende forma nelle Sardegna delle mille vertenze ambientali, sanitarie ed energetiche, quella del metano.
“No alla metanizzazione dell’Isola, progetto nocivo e foriero di nuove servitù, sì ad un nuovo corso energetico – da stimolare anche attraverso incentivi e agevolazioni fiscali – basato sull’autoconsumo e la generazione distribuita da fonti rinnovabili rispetto agli impianti di grossa taglia. Solo in questo modo sarà possibile creare reale valore aggiunto ad impatto prossimo allo zero. E una reale indipendenza energetica per cittadini ed aziende. Oltre a prevenire la dipendenza energetica da altri Stati”. È questa la sintesi del comunicato con cui Coordinamento Comitati Sardi, ISDE –Medici per l’Ambiente SardegnaAssotziu Consumadoris SardignaConfederatzione Sindacale Sarda (CSS)Sardegna Pulita e Italia Nostra – Sardegna prendono posizione sull’infrastrutturazione che comprende depositi di stoccaggio, rigassificatori e metanodotti cui la Regione ha affidato il compito di dotare l’Isola del gas naturale. Un programma titanico, definito “figlio di un rivendicazionismo fuori dal tempo e della solita politica eterodiretta ad appannaggio di terzi che farà della Sardegna un hub del metano al centro del Mediterraneo”. “Il rischio – aggiungono comitati e associazioni – è che l’ eccessiva capacità di stoccaggio del Gnl qual è quella prevista dal programma possa favorire lo sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi allo stato gassoso nel Mar di Sardegna e sulla terra ferma, incrementando inoltre il consumo di suolo, già fuori misura per l’uso distorto delle fonti rinnovabili”. Ecco perché agli occhi di comitati e associazioni l’arrivo del metano appare come una nuova servitù.
Alla base del no ci sono anche ragioni di carattere ambientale e sanitario.
“Sebbene il metano sprigioni meno CO2, giova ricordare che si tratta di un gas serra 25 volte più efficiente della CO2 nel trattenere il calore della radiazione infrarossa, pertanto è incompatibile con le indicazioni emerse durante la Cop21 tenutasi a Parigi nel 2015. Il punto –  argomentano i comitati – è che la Sardegna, con un coefficiente emissivo per ogni unità di energia prodotta dalle centrali termoelettriche sarde pari a 842 gCO2/kWh contro la media italiana di 505 gCO2/kWh dà un contributo significativo al riscaldamento climatico“. Un ragionamento, questo, che sfocia in un diretto attacco politico: “Con ogni evidenza, dunque, il problema del clima non è in cima all’agenda del presidente Francesco Pigliaru. Piuttosto, rivela la crisi programmatica e progettuale dell’“élite” al momento al governo della Regione”.
Per quanto riguarda, invece, l’impatto sulla salute, il tentativo di ridurre l’impatto ambientale e sanitario della produzione energetica attraverso un altro combustibile fossile viene definito  “schizofrenico”. “Va, infatti ricordato che ogni forma di combustione, compresa quella del metano, genera ossidi di azoto e di zolfo, ma anche metalli pesanti, IPA, molecole diossino-simili, particolato fine e ultrafine. Ne deriva uno scadimento della qualità dell’aria con gravi danni per la salute”, si legge nel comunicato. “Il punto – continua il testo – è che  oggi dovrebbe essere chiara a tutti la criticità delle condizioni di salute delle popolazioni che risiedono nelle aree ricomprese nei Siti d’Interesse Nazionale per bonifiche (S.I.N. di Porto Torres/Sassari e del Sulcis/Iglesiente/Guspinese), e possiamo aggiungere a quelle le aree metropolitane. Ma, ciononostante, i “costi esterni”, cioè i dati sanitari relativi alle malattie e ai morti prematuri legati alle emissioni inquinati con ricaduta locale, pur essendo richiesti dalla programmazione Europea, non vengono calcolati. La scarsa conoscenza di tali tematiche è sconcertante e tutto questo è inaccettabile per uno Stato civile che abbia a cuore il benessere dei propri cittadini”.
Scetticismo da parte di associazioni e comitati anche sulla questione del prezzo dell’energia. “Se si parla di energia elettrica, gli utenti continueranno a pagare l’energia al costo del Prezzo unico nazionale (P.u.n), molto poco sensibile alle quantità di energia prodotta in Sardegna”. “Al contrario –  ricordano citando il Piano energetico regionale – la causa del prezzo dell’energia più elevato in Italia che nel resto d’Europa è proprio il metano, mentre le rinnovabili hanno un effetto ribassista sui prezzi dell’energia. Nel mirino degli attivisti finisce anche l’assenza di un quadro regolatorio sulle tariffe del Gnl, che determina incertezza sul suo prezzo e gli incentivi che gli utenti saranno costretti a pagare per sostenere ogni passaggio della filiera del gas. “Secondo stime prudenziali, si aggirano intorno ai 200 milioni di euro l’anno”, viene calcolato.
Per i comitati, l’obiettivo di soddisfare il fabbisogno energetico dell’Isola attraverso le rinnovabili è a portata di mano. Innanzitutto, notano, “il surplus di energia esportata verso il Continente tramite il cavo Sapei rivela che l’Isola quindi può già ridurre il proprio parco impianti da combustibili fossili, a meno che non si voglia continuare ad utilizzare la Sardegna come una piattaforma energetica il cui tubo di scarico è puntato sulla popolazione sarda”.
Oggi, inoltre, le rinnovabili coprono il 40% circa del fabbisogno energetico sardo. E preme anche sottolineare che, ormai da anni – quasi si trattasse di un piano deliberato – l’idroelettrico appare ampiamente sottosfruttato. Nell’ottica della generazione distribuita occorre anche sostenere l’installazione di sistemi di accumulo dell’energia, ormai disponibili. In Sardegna, inoltre, il problema della non programmabilità e dell’interrompibilità delle rinnovabili può essere essere attenuato o del tutto risolto attraverso il complesso di dighe, salti e centrali idroelettriche del Taloro, che può anche giocare un ruolo decisivo – com’è avvenuto in passato – per bilanciare la rete. Un problema, questo, che come noto, può essere risolto anche tramite il cavo Sapei e/o gli accumulatori di Codrongianos.
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venerdì 22 settembre 2017

La Scuola della Terra, in Sardegna

Col proprio lavoro la “Scuola della Terra in Sardegna” intende interrogarsi e aprire spazi di confronto, mediazione e progettualità sulla condizione umana e ambientale nel corrente periodo di disgregazioni collettive e irrigidimenti identitari. A questo fine la Scuola propone esperienze di formazione ecologica incentrate sulla transizione a modelli efficaci di cittadinanza, sulla nuova ruralità, sulle agricolture naturali, sulle trasformazioni agrourbane e sulla conversione ecologica dell’economia.
Partiamo dalla constatazione che gli schemi convenzionali del potere come dominio (“potere su”) si stanno rivelando inadatti ad affrontare adeguatamente la complessità del mondo attuale e a conseguire comportamenti umani accettabili. Riteniamo che per affrontare le criticità di sistemi sociali sempre più interconnessi su scala globale sia indispensabile sviluppare una visione cosmocentrica dell’esistenza. La ricerca di nuove forme di convivenza e di stili di vita più consapevoli e sobri si va affermando come ragionevole alternativa alla perpetuazione di conflitti, distruzioni ambientali, guerre e sradicamenti forzati, anche di intere popolazioni.  Ricercando soluzioni non verticistiche e indirizzandoci a scelte di coevoluzione (“potere con”) vorremmo segnalare e percorrere strade  di superamento o mitigazione degli atti prevaricatori che con svariati impatti negativi caratterizzano la vita umana organizzata. Perciò ci opponiamo alle forme di strumentalizzazione della diversità, storicamente ridotta a strumento di discriminazione (sessista, religiosa, etnica, nazionalistica o di classe) e di auto-oppressione della specie umana.
La Scuola impiega modelli aggiornati di conoscenza sulle realtà ambientali-territoriali-sociali e propone momenti di confronto e iniziative sulla tutela della rete della vita (umana ed extra-umana) e sulla difesa dei beni comuni indispensabili al suo sostegno. Ad approcci didattici-scientifici si affiancano laboratori pratici ed esperienze formative “autoctone” (fondate cioè sull’espressione di saperi contestuali). I destinatari della Scuola sono insegnanti scolastici di ogni ordine e grado, agricoltori, professionisti e operatori del territorio, amministratori di enti pubblici, studenti, specializzandi universitari e tutti coloro che intendono impegnarsi in percorsi di cittadinanza attiva. Focalizziamo la nostra attenzione sulle attività indispensabili alla sussistenza umana: come si sono sviluppati i sistemi di produzione e consumo del cibo e di tutte le esigenze di base, e come potrebbero essere ristrutturati in modo equo e sostenibile? Come riconfigurare le attività produttive e i modelli di consumo dei beni e delle merci per non squilibrare ulteriormente i nostri contesti ambientali e sociali ed anzi per pervenire a soddisfacenti livelli di qualità della vita quotidiana? Ci interessano lo stato del pianeta e dei suoi cicli ecologici, l’esercizio dei diritti democratici, la rigenerazione dei saperi civici e delle economie locali, la sovranità energetica e alimentare.
A proposito di queste ultime due espressioni, precisiamo che per noi la nozione di sovranità non va confusa con rivendicazioni genericamente “sovraniste” che vanno ultimamente diffondendosi presso un’opinione pubblica sempre più colpita e frastornata dagli effetti negativi della globalizzazione finanziaria e della corrispondente crisi economica. Prendiamo le distanze da malintese forme di nazionalismo e di protezionismo politico, culturale ed economico. Sotto le insegne di certi nuovi sovranismi, le istanze di controllo sulle risorse vengono rivendicate in base a genuini malumori e bisogni popolari; eppure, non a caso, nessuna seria riflessione interviene sulle regole basilari della moderna organizzazione sociale, né vengono minimamente messi in discussione i meccanismi produttivi delle economie di crescita. Le regole della governance sociale ed economica continuano così ad essere dettate da élitarie “cabine di regia” che si autoproclamano protettrici di un supposto bene comune o “interesse nazionale”.
Sovranità alimentare non vuol dire quindi per noi essere «padroni in casa nostra» quanto piuttosto auto-organizzarci alla ricerca di modelli appropriati di responsabilizzazione delle nostre comunità umane ad usi appropriati (quindi non smodati né insostenibili) dei beni naturali essenziali alla vita.
In questo senso ci riallacciamo, tra vari riferimenti possibili, alla definizione enunciata da ARI-Associazione Rurale Italiana:
La sovranità alimentare è il  diritto dei popoli ad alimenti sani e culturalmente appropriati, prodotti con metodi realmente sostenibili. La sovranità alimentare appare come una delle risposte più potenti e realmente attuabili per la disponibilità di cibo, per la povertà e la crisi climatica. La sovranità alimentare è il diritto dei popoli di definire direttamente e attivamente il proprio cibo e i propri sistemi agricoli: è, dunque, il mettere in primo piano i bisogni, le aspirazioni e il sostentamento di coloro che producono, distribuiscono e consumano alimenti nel cuore dei sistemi alimentari, e non è il mettere al centro degli interessi le esigenze dei mercati.
La sovranità alimentare, inoltre, è priorità di produzione alimentare locale e del suo consumo; offre a un Paese il diritto di proteggere i suoi produttori locali da importazioni a basso costo e dal controllo della produzione; assicura che i diritti di utilizzo e di gestione di terre, territori, acqua, sementi, bestiame e della biodiversità siano nelle mani di chi produce il cibo.
Via Campesina ha definito il concetto di “sovranità alimentare” nel 1996, in occasione del Vertice mondiale sull’alimentazione. Questa idea è oggi un cardine globale della reale sostenibilità, i cui valori sono riconosciuti e sostenuti da una grande varietà di attori della vita sociale e politica internazionale.



Motivazioni, finalità, metodi

La Scuola della Terra in Sardegna propone riflessioni sul mondo dirette alla mitigazione delle crisi ecologiche, culturali, sociali e politiche contemporanee, presentando e discutendo riflessioni interdisciplinari sulle dinamiche dei sistemi ecologici e socio-territoriali.
La Scuola focalizza la sua attenzione sulla rete della vita planetaria e sugli intrecci di processi naturali (realtà fisico-chimico-biologica) e socioculturali (mondo storico-insediativo) sedimentatisi nel corso del tempo sul globo terrestre.
Nelle proposte culturali della Scuola questi complessi fasci di relazioni sono analizzati in rapporto alle specializzazioni di docenti e facilitatori via via chiamati a collaborare ai suoi eventi, ma   tutti sono invitati a dare spazio ad approcci dialoganti e a modalità inter e transdisciplinari di trattazione.
L’obiettivo generale è confrontarsi su come tutelare i beni comuni naturali essenziali alla vita. La Scuola della Terra si occupa della Terra come pianeta da abitare e come suolo e sistema di risorse vitali. La nostra intenzione è anche comprendere come si siano evoluti gli attuali sistemi di produzione e consumo e come essi potrebbero essere ristrutturati e posti in essere secondo principi di sostenibilità ed equità.
In particolare ci focalizziamo sulle attività primarie (agroforestali ed agroalimentari) indispensabili alla sussistenza umana. Come connettere efficacemente i beni alimentari agli insediamenti esistenti? E come riconfigurare sistemi produttivi per conseguire un efficace metabolismo economico tra società e ambiente?
Con le nostre iniziative intendiamo suscitare interesse per la rete della vita sul pianeta, i suoi cicli ecologici e le sue trasformazioni antropiche. Il nostro impegno è rivolto a stabilire  legami progettuali con le giovani generazioni, alla rigenerazione dei saperi civici e all’esercizio dei diritti democratici, alla (ri)proposizione di pratiche artigianali e innovative, così come di economie sostenibili e territorializzate.
Nelle nostre attività cerchiamo di produrre consapevolezza della centralità dei sistemi di sostegno della vita – e in particolare  del suolo – per la nostra esistenza biologica di organismi umani, mettendo in primo piano le condizioni e le istanze di salvaguardia delle acque e di ricostruzione di terreni integri e fertili, ad ogni livello dimensionale.
Ricorrendo ad approcci interattivi, puntiamo a una comprensione integrata delle questioni in gioco. Agli approcci analitici propri delle scienze accademiche intendiamo affiancare percorsi formativi pratici, che si raccordino alle forme “autoctone” dello stare al mondo espresse dagli abitanti del territorio in cui si svolge la Scuola della Terra in Sardegna.
Destinatari della Scuola della Terra sono insegnanti scolastici di ogni ordine e grado, agricoltori e operatori del settore primario, professionisti e operatori del territorio, amministratori di Enti pubblici, studenti e specializzandi universitari, soggetti coinvolti in percorsi e azioni di cittadinanza attiva.

Nuovi LEA 2017: ecco la Guida alle esenzioni per le malattie rare


I nuovi LEA sono entrati in vigore il 15 settembre 2017, definiti dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 12 gennaio 2017, che ha aggiornato l’elenco delle malattie rare esentabili.
L’elenco, completamente riorganizzato dal punto di vista dei codici, della nomenclatura e delle patologie, introduce 134 nuovi codici di esenzione, che fanno riferimento ad un totale di 201 malattie.
Osservatorio Malattie Rare, in collaborazione con Orphanet-Italia, ha realizzato una vera e propria Guida alle nuove esenzioni: uno strumento pratico destinato ai pazienti, alle ASL e, più in generale, a quanti operano nel mondo sanitario, per orientarsi nelle innovazioni introdotte dai LEA 2017 attraverso l’elenco ragionato dei nuovi codici, l’elenco completo in ordine alfabetico di tutte le patologie esenti e tutte le indicazioni per ottenere l’esenzione. La Guida descrive inoltre brevemente le nuove malattie rare esenti e offre alcune indicazioni per l’ottenimento degli altri benefici, di natura economica e non economica, ai quali i malati rari possono accedere in base alla normativa vigente.
I dati forniti dalla guida sono il risultato di un meticoloso lavoro di confronto tra il vecchio e il nuovo elenco ministeriale ed aiutano a fare chiarezza su tutte le variazioni introdotte dal Ministero. Il progetto editoriale, a cura dell’Osservatorio Malattie Rare in collaborazione con Orphanet Italia, è stato reso possibile grazie al contributo incondizionato di Alexion Pharma Italy, Alnylam Italia, Pfizer, Sanofi Genzyme e Shire.
“Questo aggiornamento e ampliamento della lista delle malattie rare esenti era atteso da tempo dai pazienti e rappresenta un passo veramente importante, soprattutto per il metodo dei ‘gruppi aperti’ adottato – dichiara Ilaria Ciancaleoni Bartoli, Direttore Osservatorio malattie rare – che ha consentito di andare ben oltre le 109 nuove malattie aggiuntive che inizialmente ci si attendeva. Questo non vuol dire che ogni malattia rara avrà l’esenzione: se una persona è affetta da una patologia che non compare in elenco come singola malattia, né può essere fatta afferire a un gruppo di patologie presenti nello stesso elenco, allora questa persona non avrà diritto all’esenzione ticket, ma il passo avanti rispetto al passato è enorme”.
“Questa iniziativa è nata dalla recente ‘rivoluzione’ introdotta in Italia nel campo delle malattie rare – spiega il prof. Bruno Dallapiccola, Responsabile del progetto Orphanet-Italia – e si è concretizzata nella realizzazione di una guida sintetica, di facile lettura, in grado di aiutare tutti i portatori di interesse a muoversi all’interno del Decreto appena entrato in vigore e del nuovo elenco delle malattie esenti dal ticket, che arriva a 16 anni di distanza dal primo elenco. La logica dei gruppi aperti consente a tutte le malattie afferenti ad uno determinato gruppo, anche quando non specificate nell’elenco, di essere ricomprese ed esentate. Si tratta di un provvedimento che allinea l’Italia con quanto già avviene in alcuni altri Paesi Europei. Questo evento, che coincide con l’avvio delle Reti di Riferimento Europee, nelle quali l’Italia è il Paese più autorevolmente rappresentato, dà motivo di considerare il 2017 come un anno storico per le malattie rare”.  
COME LEGGERE LA GUIDA
La Guida è in formato pdf. Può essere facilmente letta da pc e dispositivi mobili, ma può essere anche stampata. Tutto il contenuto della guida è stato realizzato in formato testuale, quindi è possibile utilizzare i consueti comandi di ricerca (ad esempio CTL+F) con i quali è possibile individuare la patologia e le altre informazioni di proprio interesse. Ricordiamo che la Guida può essere stampata unicamente per uso domestico. Qualunque utilizzo della Guida diverso da quello privato (come ad esempio la stampa e la distribuzione della guida in sedi associative, Caf, Sindacati, etc.) deve essere autorizzato preventivamente, inviando una richiesta alla mail indicata nelle prime pagine della Guida stessa. Una versione tipografica della stessa Guida sarà resa disponibile a breve, solo ed unicamente su richiesta.
SCARICA QUI LA GUIDA IN VERSIONE INTEGRALE e condividi questo articolo con tutti i tuoi contatti!
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mercoledì 20 settembre 2017

accanto all'amico morto





Ha vegliato per ore il suo amico morto: l'incredibile storia è di questa mattina quando un cane è stato investito sulla via Tuscolana e il suo inseparabile amico è rimasto a vegliarlo. A notare quanto stava accadendo è stata una pattuglia dei vigili urbani. L'investimento è avvenuto infatti proprio in mezzo alla carreggiata. I pendolari hanno pazientemente rallentato. In tanti, commossi dalla scena.

sabato 16 settembre 2017

Qualche domanda per Altromercato - Saverio Pipitone



“L’uomo che salverà il mondo” è il titolo dello spot web di Altromercato per migliorare il pianeta cominciando con il semplice gesto di una colazione equosolidale.
Nato nel 1988 sotto forma di Consorzio con sede legale a Bolzano e operativa a Verona, Altromercato promuove e realizza pratiche di sviluppo sostenibile ed economia solidale.
Aggrega più di 100 consorziati fra cooperative ed associazioni non-profit che coinvolgono attivamente 30.000 persone e 5.000 volontari con la gestione di circa 260 botteghe sul territorio italiano per la vendita di alimenti, abbigliamento, oggettistica, cosmesi, igiene domestica ed altro.
Intrattiene rapporti di cooperazione e scambio equo con oltre 150 organizzazioni di produttori del sud del mondo che comprendono decine di migliaia di contadini e artigiani marginalizzati dal mercato. Al produttore paga un giusto prezzo che valorizza i costi reali di lavorazione e consente una retribuzione dignitosa del lavoro, nel pieno appoggio alle piccole realtà locali, garantendogli trasparenza e continuità nella relazione commerciale, per creare nel lungo periodo delle forme di auto-sviluppo economico e sociale.
Altromercato esorta i consumatori a chiedersi sempre da dove provengono i beni di consumo e a usare il potere della scelta consapevole per evitare lo sgradevole ingrediente dello sfruttamento delle popolazioni mondiali.
Nella campagna pubblicitaria suggerisce 7 mosse per iniziare la giornata da filantropo e una di queste è: “Cerca un biscotto che sia il frutto della collaborazione tra diversi partner che lavorano per uno sviluppo sostenibile”. Nelle botteghe lo troviamo alle gocce di cioccolato o al cacao/arachidi nella linea Buona Colazione, ma chiediamoci: è un prodotto al 100% equosolidale?
È un SI’ per le materie prime che arrivano dagli agricoltori svantaggiati dei paesi latinoamericani, africani e indiani, ma è un NO per la produzione perché effettuata nello stabilimento Tonon a Verona.
Quest’ultimo è di proprietà dell’azienda piemontese di prodotti da forno Monvisio, a sua volta controllata nell’ambito delle private equity inserendosi nel secondo fondo di investimento italiano Pm&Partners, di cui importante investitore è l’olandese Alpinvest, riconducibile alla statunitense Carlyle Group.
Le private equity svolgono attività speculativa, disponendo di capitali macroscopici (valutati complessivamente per 820 miliardi di dollari nel 2016) con l’acquisizione di imprese ad alto potenziale di crescita, che talvolta riorganizzano con profondi tagli dei costi, al fine di massimizzare i profitti nel breve periodo e disinvestire in 3/4 anni con la vendita delle azioni, ottenendo delle plusvalenze che ammontano quasi sempre al doppio dell’investimento iniziale. I settori più gettonati per la speculazione sono difesa, energia, sanità, infrastrutture, tecnologico, telecomunicazioni, immobiliare, retail e largo consumo.
Tra gli investimenti fatti da Carlyle Group vi sono: l’industria di armamenti TEXTRON, specializzata nella produzione delle micidiali bombe a grappolo, che sganciate da velivoli ed elicotteri colpiscono per il 98% i civili; l’agenzia di rating canadese DBRS che, insieme alle statunitensi Fitch, Moody’s e Standard & Poor’s, rappresentano i demiurghi delle crisi finanziarie che attraverso delle controverse valutazioni di declassamento destabilizzano l’equilibrio finanziario di interi Paesi.
Primi azionisti di Carlyle Group sono le banche d’affari newyorkesi Morgan Stanley e Goldman Sachs. Qui siamo al top della finanza aggressiva! Parliamo di superspeculatori mondiali sulle commodity (materie prime/derrate alimentari) nel doppio ruolo di investitori e di trader che gli consente il reperimento e l’utilizzo di informazioni privilegiate per giocare sui prezzi a rialzi inflazionistici o ribassi deflazionistici, assumendo posizioni monopolistiche nella distribuzione di cibo, minerali e petrolio, con l’unico obiettivo di conseguire profitti miliardari nel più breve tempo possibile, a scapito dei Paesi più poveri in Africa, in India e nell’America Latina.
Un’amara colazione per il consumatore etico che voleva salvare il mondo e invece lo peggiora sostenendo un mercato tutt’altro che equosolidale.

angelo maddalena
Il commercio equo e solidale è in una crisi irrisolta da almeno vent’anni, da quando, nel 1997 anno più anno meno, Alex Zanotelli, che aveva contribuito a lanciare in Italia il commercio equo e solidale, aveva scritto su Avvenimenti di oscuri giochi di Altromercato che stipulava contratti esclusivi con alcuni produttori per non farli collaborare con altre centrali di importazione. Nel tempo si sono succeduti vari “scandalucci” e paciocchi dalla Sicilia all’Umbria Solidale di cui sono stato tristemente testimone. In Francia da anni già sono usciti libri di critica all’economia etica, in Italia c’è una cappa per far evitare di esprimere critiche o far venir fuori lati poco chiariti di realtà etiche e solidali. L’idea che mi sono fatto, da Milano all'Umbria, alla Toscana alla Sicilia, sfiorando o frequentando amici e persone conosciute di passaggio del circuito del commercio equo, è che c’è un tessuto di cattocomunisti che frequenta come volontari e come lavoratori il circuito del commercio equo. Le condizioni di lavoro delle cosiddette cooperative, al limite tra volontariato, sfruttamento e cose del genere l’ho visto a Milano come in Sicilia come in Umbria. Il tessuto psicologico, o sostrato che dir si voglia, mi è apparso profondamente o tendenzialmente “repressivo”, o comunque tipico di persone che se anche fanno riferimento a principi come il cattolicesimo e il comunismo, lo fanno in modo poco approfondito, e quindi rimangono a un livello di individui che non “escono” dalla comunità, dal collettivo o dalla cooperativa, e così facendo rimangono “schiacciati” e schiaccianti nei confronti di chi esprime un pensiero libero e individuale quindi critico nei confronti della sacralità del collettivo o del circuito di commercio equo e solidale. Una solidarietà molto superficiale però: ho visto più di una persona militante del commercio equo e solidale duramente ostile nei confronti di pratiche estremamente pacifiste ma di azione diretta e individuale, e poi una confusione tra pubblico e comune, per cui la critica o l’azione diretta meramente simbolica nei confronti dello Stato viene fraintesa come illegalità e quindi condannata, tutto ciò porta all'immobilismo e alla depressione latente. Detto questo, devo riconoscere di dovere ad amici del commercio equo e solidale la solidarietà e l’avermi aperto negli anni ’90 possibilità di coscienza politica internazionale, ho lavorato anche come venditore della Bottega Quetzal di Modica e ho fatto progetti nelle scuole medie ed elementari di educazione alla mondialità. Francesco Terreri in un Inforum di Altromercato a Paestum nel 2000 diceva che il commercio equo e solidale è comunque elitario perché si rivolge a un target di 200 milioni di persone in tutto l’Occidente (Europa e Stati Uniti credo), cioè una minoranza che può permettersi di comprare prodotti con prezzi più alti della media, a volte poco più alti altre volte molto più alti. Daniele Novara, nel libro Educare alla pace, cita il commercio equo e solidale come esperienza importante ma cita alcuni punti critici, tra cui il fatto che alimenta l’importazione di prodotti coloniali (caffé, thé, cacao..) che comunque comportano un impatto ecologico non molto leggero per via dei trasporti a lunga distanza (navi, aerei ecc.). C’è una canzone molto dura ma molto bella dei Perturbazione che si chiama Io sono vivo voi siete morti, dedicata proprio al commercio equo e solidale. Poi da almeno 15 anni a questa parte, oltre a diventare una moda per ripulire la coscienza di benpensanti e benestanti cattocomunisti al ribasso, il commercio equo (Altromercato in testa) ha assunto manager e responsabili di marketing di alto livello, abbandonando tra l’altro la, piccola distribuzione delle botteghe e approdando negli scaffali dei supermercati, dalla Coop all’Esselunga (questa una delle critiche di Zanotelli tra l’altro). Non vorremmo che diventi sempre di più marketing commerciale travestito da equo e solidale

giovedì 14 settembre 2017

Gli indigeni di una tribù incontattata dell’Amazzonia sono stati uccisi e fatti a pezzi

Dieci indigeni appartenenti a una tribù finora incontattata che vive lungo il confine tra il Brasile e il Perù sono stati uccisi e fatti a pezzi da alcuni cercatori d’oro.
Secondo quanto riporta il New York Times, è stata aperta un’indagine su denuncia della Fondazione nazionale dell’Indio (Funai), l’organo del governo brasiliano preposto all’elaborazione e all’implementazione delle politiche sui popoli indigeni, per la quale stanno lavorando i procuratori federali del Brasile.
Per Leila Silvia Burger Sotto-Maior, coordinatore Funai, quei minatori sostenevano “di aver tagliato i loro corpi e averli gettati in acqua. Dicevano che dovevano ucciderli o sarebbero stati uccisi”.
“Stiamo seguendo delle piste ma i territori sono grandi e l’accesso è limitato. Anche il Funai ha informazioni sporadiche su queste tribù: è un lavoro difficile che richiede il lavoro congiunto di tutti i servizi governativi”, ha detto il procuratore Pablo Luz de Beltrand che ha avviato l’indagine sui fatti di sangue nella valle di Javari.
Proprio partendo da questo episodio e da altri che documentano l’inizio di un possibile genocidio, è scattata l’indagine sulla morte dei dieci indigeni, tra cui donne e bambini, avvenuta lungo il fiume Jandiatuba, nella foresta amazzonica.
Sono due le tribù incontattate di cui si conosce l’esistenza e che vivono nella foresta amazzonica nel Brasile occidentale: i Kawahiva e i Piripkura. Su di loro gravano diverse minacce, tra cui l’esposizione a contatti umani ed epidemie, le violenze dei taglialegna, le mire espansionistiche delle multinazionali, interessate ai territori ricchi di risorse abitati da queste popolazioni e le battaglie per le concessioni minerarie.
Per l’organizzazione non governativa Survival International, che si batte per i diritti degli indigeni, le uccisioni nelle piccole comunità tribali incontattate dell’Amazzonia potrebbe significare “l’eliminazione di un gruppo etnico remoto. Se i fatti saranno confermati, questo significa che fino a un quinto dell’intera tribù è stato annientato”.
“L”area dove è avvenuto il massacro è nota come la Frontiera Incontattata poiché ospita più tribù incontattate di qualsiasi altro luogo al mondo”, si legge ancora nel comunicato.
“Molte delle squadre governative che prima proteggevano i territori degli indigeni incontattati, hanno di recente subito tagli finanziari da parte del governo brasiliano, e hanno dovuto chiudere”, prosegue la nota del movimento mondiale per i diritti dei popoli.
Survivor incolpa l’attuale presidente brasiliano Michel Temer di aver sottratto fondi al finanziamento delle organizzazioni che si occupano della protezione di queste popolazioni a rischio estinzione.
“Se queste denunce saranno confermate, il presidente Temer e il suo governo avranno la pesante responsabilità di questo attacco. I tagli ai finanziamenti del Funai hanno lasciato decine di tribù incontattate indifese contro migliaia di invasori – cercatori d’oro, allevatori e taglialegna – che vogliono disperatamente rubare e saccheggiare le loro terre”, ha dichiarato Stephen Corry, direttore generale di Survival International.
“Tutte queste tribù avrebbero dovuto avere le loro terre adeguatamente riconosciute e protette da anni. L’evidente appoggio del governo nei confronti di coloro che vogliono invadere i territori indigeni è del tutto vergognoso, e sta facendo arretrare i diritti indigeni in Brasile di decenni”.
Nel 2014 la tribù Txapanawa, è entrata in contatto con una spedizione di antropologi. La tribù è composta da almeno 300 persone, che coltivano banane, patate dolci, manioca e arachidi e praticano caccia e pesca.
Altre tribù sono presenti in Brasile, dove a dicembre del 2016, il fotografo brasiliano Ricardo Stuckert ha fotografato casualmente una tribù amazzonica che vive in totale isolamento, dopo che l’elicottero sul quale volava per fare un reportage su altre tribù ha cambiato rotta a causa di un temporale.