giovedì 31 agosto 2017

Liberare l’economia dallo sviluppo - Maurizio Pallante


Nella fotografia analogica descrive il procedimento che rende visibile un’immagine latente in un supporto fotosensibile. In geometria la distensione su una superficie piana di una figura geometrica solida. Tutti i processi di sviluppo sono caratterizzati dall’uniformità. Se non si completano rigorosamente tutte le loro fasi nelle successioni e nei tempi previsti, lo sviluppo non arriva a buon fine: gli esseri viventi subiscono delle limitazioni, la fotografia non rispecchia la realtà che il fotografo si proponeva di rappresentare, il disegno non riporta fedelmente le misure e le proporzioni del solido geometrico a cui si riferisce.
In economia il concetto di sviluppo è stato utilizzato per la prima volta dal neo-eletto presidente degli Stati Uniti Harry Truman nel suo discorso d’insediamento alla Casa Bianca il 20 gennaio 1949. In quel discorso lo sviluppo economico veniva presentato come un processo di liberazione delle potenzialità della tecnologia dal viluppo delle limitazioni che le pone la finalizzazione dell’economia alla sussistenza. Nei Paesi in cui questo processo era avvenuto, i progressi della tecnologia avevano consentito di accrescere il potere degli esseri umani sulla natura, la produzione di merci e il benessere delle popolazioni. Per questo motivo il neo-Presidente degli Stati Uniti li definiva sviluppati, mentre definiva sottosviluppati i Paesi ancora prevalentemente caratterizzati da un’economia di sussistenza e da un modesto sviluppo tecnologico.
La differenza dei livelli di benessere tra gli uni e gli altri era oggettivamente misurabile in termini di divario del reddito pro-capite (il valore monetario del prodotto interno lordo diviso per il numero degli abitanti). In realtà il reddito fornisce la misura del potere d’acquisto, cioè della possibilità di comprare sotto forma di merci la maggior parte dei beni di cui si ha bisogno o si desiderano. Non può prendere in considerazione i beni che si autoproducono, o vengono scambiati sotto forma di dono reciproco del tempo nell’ambito di rapporti comunitari, perché non si ottengono comprandoli e, quindi, non hanno un prezzo.

Nelle società in cui il saper fare è un elemento significativo del patrimonio culturale condiviso, le persone sono in grado di autoprodurre una parte dei beni di cui hanno bisogno, gli orti familiari sono diffusi e i rapporti di solidarietà non sono stati totalmente sostituiti da rapporti commerciali, il reddito pro-capite è inferiore a quello delle società in cui le persone non sanno fare nulla e devono comprare tutto, la maggior parte della popolazione vive in aree urbane e non può coltivare nulla, i rapporti di solidarietà sono stati sostituiti da rapporti commerciali e dalla competizione, o dall’indifferenza nei confronti degli altri, il lavoro è stato appiattito sull’occupazione, cioè sullo svolgimento di attività che non hanno alcuna attinenza con la soddisfazione dei bisogni esistenziali di chi le compie, ma offrono in cambio un reddito monetario con cui si può comprare tutto ciò che serve per vivere.
Utilizzando il criterio di valutazione introdotto dal neo-presidente americano Truman e ormai generalizzato, le società del primo tipo sono sottosviluppate, ma non per questo se ne può dedurre che il loro livello di benessere sia inferiore a quello del secondo tipo di società che, invece, sono sviluppate. Nonostante costituisca da allora un caposaldo dell’immaginario collettivo, sia dei sostenitori del pensiero dominante, sia dei suoi avversari, non è detto che il benessere sia direttamente proporzionale all’entità del reddito pro-capite e cresca in proporzione con la sua crescita. Ciò non vuol dire che non ci sia nessuna attinenza tra il benessere e il reddito, né che il benessere diminuisca, o quanto meno non cresca, col crescere del reddito. Il contrario di una proposizione non vera non è necessariamente vero.
La produzione di merci è indispensabile per migliorare il benessere, perché nessun individuo e nessuna comunità in cui il legame sociale sia costituito dalla solidarietà, o dall’economia del dono, come è stata definita da Marcel Mauss, sono in grado di produrre autonomamente e di scambiare senza l’intermediazione del denaro tutto ciò che è necessario per vivere, o rende piacevole la vita. Le economie di sussistenza non hanno mai fatto a meno della produzione di merci e del mercato.
Il benessere sociale cresce al crescere della quantità e della varietà delle merci che si possono acquistare, a integrazione dei beni che si autoproducono o si scambiano sotto forma di dono reciproco del tempo. La compravendita delle eccedenze della produzione agricola per autoconsumo, dei beni prodotti dagli artigiani e dei servizi forniti da personale specializzato (dai medici ai professionisti, agli insegnanti) danno un contributo insostituibile al miglioramento della qualità della vita. La produzione di merci e il mercato sono elementi costitutivi delle attività economiche, tanto quanto l’autoproduzione e gli scambi non mercantili. Se però lo sviluppo, cioè l’aumento del reddito monetario pro-capite, diventa il criterio di valutazione  del benessere di una società, tutte le attività produttive vengono progressivamente indirizzate alla crescita della produzione di merci. L’economia diventa economia di mercato non quando ci sia un mercato in cui si scambiano merci con denaro, ma quando si produce tutto per il mercato. Di conseguenza tutte le forme di autoproduzione e di scambi non mercantili basati sulla solidarietà diventano freni allo sviluppo della mercificazione, per cui vengono ostacolati e repressi in vari modi: con apposite misure legislative, con la loro svalutazione nel sistema dei valori condivisi, con la cancellazione delle conoscenze necessarie al saper fare dall’ambito della cultura, con l’esaltazione della concorrenza come fattore di progresso, con l’identificazione del benessere col tantoavere.
Le innovazioni tecnologiche vengono finalizzate all’aumento della produttività e i danni ambientali che spesso vengono causati per accrescerla, non vengono nemmeno presi in considerazione. Le risorse ambientali vengono considerate infinite o infinitamente riproducibili. I beni comuni vengono privatizzati. L’unica forma di lavoro socialmente riconosciuta è l’occupazione. Chi lavora per produrre beni per autoconsumo e non per produrre merci in cambio di un reddito che consenta di comprarle, viene inserito nella categoria delle non forze di lavoro. La povertà e la ricchezza vengono misurate con il livello del reddito monetario.
L’introduzione del concetto di sviluppo in economia è avvenuta nella fase storica in cui gli Stati Uniti avevano completato la trasformazione della loro economia in economia di mercato, riducendo al minimo l’autoproduzione e gli scambi non mercantili. Affinché la loro economia e il loro reddito pro-capite potessero continuare a crescere, avevano bisogno di estendere la possibilità di vendere le loro merci al di fuori dei loro confini e di acquisire al di fuori dei loro confini le materie prime necessarie a sostenere la loro crescita economica. Dovevano fare in modo che i Paesi sottosviluppati si inserissero nel circuito economico e produttivo dei Paesi sviluppati.

Pertanto, era necessario che, nei Paesi in cui gran parte delle attività produttive erano ancora finalizzate alla sussistenza, aumentasse il numero dei consumatori di merci e di conseguenza il numero dei produttori di merci, perché soltanto chi lavora in cambio di un reddito monetario, e non per produrre ciò che gli serve per vivere, è in grado di, e non può far altro che, acquistare sotto forma di merci tutto ciò di cui ha bisogno. Per questo motivo il neo-presidente Truman proponeva agli Stati Uniti di fornire ai popoli che definiva sottosviluppati, perché non erano stati capaci di sviluppare le potenzialità che nella sua visione del mondo caratterizzano il patrimonio genetico di tutte le società, l’assistenza tecnologica necessaria a diventare Paesi in via di sviluppo.
In questo modo, non solo estendeva l’egemonia culturale del modello americano sui popoli del terzo mondo, presentandosi come il ricco filantropo che aiuta il povero a superare le sue difficoltà, ma si accattivava il consenso delle grandi compagnie industriali americane, aprendo ad esse grandi spazi di mercato in cui vendere le loro tecnologie, o in cui utilizzarle per estrarre le materie prime, in particolare le energie fossili, di cui i Paesi industrializzati avevano bisogno per continuare a crescere. Inoltre contava di contrastare efficacemente la politica internazionale dell’Unione Sovietica, che si proponeva di guidare verso la costituzione di Stati socialisti le lotte di liberazione di quei popoli dal colonialismo.

Bastarono venti anni per rendersi conto che la finalizzazione dell’economia allo sviluppo stava creando problemi sempre più gravi a livello ambientale, sia perché i consumi delle risorse non rinnovabili, in particolare delle fonti fossili, ne rendevano sempre più costoso tecnicamente e più problematico politicamente l’approvvigionamento, sia perché la finalizzazione delle innovazioni tecnologiche all’aumento della produttività causava forme di inquinamento sempre più gravi.
Inoltre, gli aiuti allo sviluppo dei popoli sottosviluppati anziché accrescere il loro benessere, accrescevano la ricchezza degli strati sociali più ricchi e la povertà degli strati sociali più poveri. Nei Paesi in via di sviluppo lo spostamento dall’economia di sussistenza all’economia di mercato fu attuato a partire dall’agricoltura, con la cosiddetta rivoluzione verde (così chiamata anche in contrapposizione con la rivoluzione rossa a cui l’Unione Sovietica tentava di indirizzare i movimenti di liberazione di quei popoli).
Per accrescere i rendimenti agricoli furono selezionate geneticamente varietà vegetali più produttive, che però richiedevano maggiori quantità d’acqua, l’uso di fertilizzanti chimici, fitofarmaci, macchinari agricoli e carburante. I loro semi erano sterili e dovevano essere acquistati ogni anno dai produttori. L’adozione di queste innovazioni richiedeva investimenti che non potevano essere effettuati dai contadini poveri. Inoltre, i fertilizzanti di sintesi e la monocoltura delle essenze più produttive impoverivano progressivamente il contenuto humico dei suoli e accrescevano la dipendenza dell’agricoltura dalle industrie chimiche dei Paesi nord-occidentali. La rivoluzione verde accentuò la dipendenza dei Paesi sottosviluppati dai Paesi sviluppati, gli aiuti allo sviluppo accrebbero i loro debiti, i contadini poveri persero la possibilità di soddisfare le loro esigenze vitali con l’agricoltura di sussistenza e furono costretti a emigrare nelle baraccopoli che si espandevano ai margini delle città.
Nei primi anni settanta del secolo scorso i problemi ambientali e sociali causati dalla finalizzazione dell’economia allo sviluppo non potevano più essere ignorati. Nel 1970 il Club di Roma, un’associazione internazionale promossa da dirigenti industriali, imprenditori e docenti universitari, commissionò a un gruppo di studiosi del Massachusetts Institute of Technology uno studio previsionale sul futuro dell’umanità se cinque fattori critici avessero continuato a crescere con gli stessi incrementi che avevano avuto dalla fine della seconda guerra mondiale: l’aumento della popolazione, la produzione di alimenti, la produzione industriale, l’esaurimento delle risorse non rinnovabili e l’inquinamento. Dallo studio, pubblicato nel 1972 in italiano col titolo I limiti dello sviluppo (in inglese era Limits to growthrisultò che entro il XXI secolo sarebbero stati superati i limiti della compatibilità ambientale e si sarebbe arrivati al collasso.
Nello stesso anno fu convocata a Stoccolma la prima conferenza mondiale sull’Ambiente umano, in cui si cominciò a prendere in considerazione il fatto che la tutela ambientale non era meno importante dello sviluppo economico per la qualità della vita. Nell’autunno del 1973 scoppiò la prima crisi petrolifera e tutti i Paesi sviluppati furono costretti a varare drastiche misure di riduzione dei consumi energetici. Sempre in quegli anni cominciarono a manifestarsi tre forme d’inquinamento globali: le piogge acide, il buco nell’ozono e l’effetto serra, da cui si evinceva che l’apparato tecno-industriale aveva raggiunto una potenza tale da modificare gli equilibri della biosfera in un senso sfavorevole per l’umanità.
L’idea che lo sviluppo fosse la realizzazione delle potenzialità insite nel patrimonio genetico delle società umane cominciò a vacillare e nelle conferenze mondiali, convocate per cercare di attenuare i problemi che creava, si cominciò a sostenere che occorreva definirne meglio le connotazioni, perché non ogni tipo di sviluppo può essere considerato positivo. Si cominciò a dire che occorreva un nuovo modello di sviluppo, senza peraltro andare molto oltre la definizione; che lo sviluppo per essere buono doveva essere sostenibilee/o durevole e via aggettivando; che non bisognava confondere lo sviluppo, che ha una valenza qualitativa, con la crescita economica, che ha una connotazione esclusivamente quantitativa. Da questa distinzione sarebbe stato logico far derivare un disaccoppiamento tra i due concetti e, quindi, la possibilità di perseguire uno sviluppo senza crescita, o anche associato a una decrescita.
Cosa impossibile da concepire in un sistema economico che continuava e continua a identificare la quantità con la qualità, come è stato ribadito anche da papa Benedetto XVI nell’Enciclica Caritas in Veritate (2009), dove, al punto 14, si legge che è «un grave errore disprezzare le capacità umane di controllare le distorsioni dello sviluppo o addirittura ignorare che l’uomo è costitutivamente proteso verso l’essere di più». Non è necessario essere teologi per sapere che nella concezione cristiana l’uomo è costitutivamente proteso verso l’essere meglio e basta l’esperienza quotidiana della vita per verificare che non sempre il più coincide col meglio, mentre spesso capita d’imbattersi in situazioni in cui è il meno a costituire un miglioramento. La stessa identificazione tra quantità e qualità è stata implicitamente sostenuta da chi ha affermato che il fine delle attività produttive sia perseguire una crescita qualitativa, senza specificare le ragioni per cui escludeva che anche la decrescita potesse avere connotazioni di qualità. Da questi tentativi di assegnare a un concetto connotazioni incompatibili con il suo significato, la logica è uscita malconcia, ma, quel che è peggio, i problemi causati dalla finalizzazione dell’economia allo sviluppo sostenibile o alla crescita qualitativa, che dir si voglia, sono rimasti irrisolti e si sono aggravati.

Il tentativo più efficace di ridare al concetto di sviluppo la credibilità che aveva perso quando si cominciò a capire che era la causa determinante della crisi ecologica, fu effettuato nel 1987 dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo istituita dall’Onu e presieduta dall’ex primo ministro norvegese Gro Harlem Brundtland, che lo sganciò, ma solo concettualmente, dal suo legame simbiotico con la crescita della produzione di merci per agganciarlo allasostenibilità. Nel rapporto finale della commissione, intitolato Our Common Future, veniva formulato per la prima volta il concetto di sviluppo sostenibile, che veniva così definito: «uno sviluppo che soddisfi i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri». In questa definizione la sostenibilità non è l’obbiettivo da raggiungere per ridurre l’impatto dello sviluppo sull’ecosistema terrestre, ma una connotazione che le generazioni attuali devono conferire allo sviluppo per consentire che le generazioni future possano continuare a fare altrettanto.
Più che di sviluppo sostenibile si sarebbe dovuto parlare di sviluppo durevole, come alcuni hanno fatto. Lo sviluppo non veniva ridefinito in funzione della sua sostenibilità, ma la sostenibilità veniva valorizzata come connotazione indispensabile per dare continuità allo sviluppo. Le applicazioni pratiche di questa impostazione furono i progressi delle tecnologie che accrescono l’efficienza nell’uso delle risorse non rinnovabili, in modo di consumarne di meno per ogni unità di prodotto, e delle tecnologie meno impattanti sugli ambienti, soprattutto per ridurre l’incidenza dei disastri ambientali che avevano cominciato a instillare nell’opinione pubblica forti dubbi sulla bontà dello sviluppo.
Del resto, per quale motivo si sente la necessità di parlare di sviluppo sostenibile se non per prendere le distanze da uno sviluppo che non lo è? Se non per ridare credibilità a un’idea che l’ha persa? L’impegno maggiore venne riservato allo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili e, in subordine, dell’efficienza energetica. Con una resipiscenza tardiva, dopo aver interrato o bruciato dagli anni cinquanta del secolo scorso quantità crescenti di rifiuti, l’attenzione è stata recentemente rivolta al recupero dei materiali che contengono, facendo diventare di gran moda lo slogan dell’economia circolare e inducendo gli spiriti semplici a credere che si possa attivare una sorta di moto produttivo perpetuo a ridotto impatto ambientale utilizzando i materiali contenuti negli oggetti dismessi per produrre nuovi oggetti. Le tecnologie che aumentano l’efficienza nell’uso delle risorse e riducono l’inquinamento dei processi produttivi sono una cosa buona, ma i vantaggi che offrono vengono annullati, come in una gigantesca fatica di Sisifo, se contestualmente continua ad aumentare la quantità della produzione. Se il fine dell’economia resta lo sviluppo, la sostenibilità del sistema economico e produttivo non aumenta anche se aumenta la sostenibilità di alcuni processi produttivi. L’economia finalizzata allo sviluppo non può essere sostenibile. Lo sviluppo sostenibile è un ossimoro.
a cos’è la sostenibilità? Per definire con precisione il concetto di sostenibilità, uscendo dalla genericità con cui viene usato, occorre metterlo in relazione con la fotosintesi clorofilliana, l’unico processo biochimico che produce l’energia di cui hanno bisogno tutte le specie viventi. Ogni giorno il sole invia sulla terra una quantità di energia luminosa, che viene utilizzata dalla vegetazione per sintetizzare molecole di anidride carbonica con molecole d’acqua e ricavarne molecole di uno zucchero semplice, il glucosio, che successivamente concorrono a formare le molecole complesse che costituiscono la struttura dei vegetali (cellulosa e lignina), e quelle che li nutrono e nutrono attraverso le catene alimentari tutte le specie viventi (lipidi, proteine, vitamine, carboidrati). La fotosintesi clorofilliana assorbe l’anidride carbonica emessa dall’espirazione di tutti i viventi, compresi i vegetali, e genera l’ossigeno necessario alla loro respirazione.
Per 8.000 secoli questo scambio è rimasto in equilibrio: tanta anidride carbonica emessa dall’espirazione dei viventi veniva metabolizzata dalla vegetazione quanto ossigeno veniva emesso dalle piante e inspirato da tutti i viventi. Dalla seconda metà del XIX secolo e, con intensità crescente nel XX, questo equilibrio si è rotto perché gli esseri umani da una parte hanno accresciuto le emissioni di anidride carbonica bruciando quantità crescenti di fonti fossili per ricavare l’energia necessaria allo svolgimento dei processi produttivi e al sistema dei trasporti, d’altra hanno ridotto la fotosintesi clorofilliana disboscando per fare posto all’agricoltura e alle aree urbane.
L’anidride carbonica eccedente le capacità di sintesi della vegetazione si è progressivamente accumulata nell’atmosfera, aumentando la sua concentrazione nel miscuglio di gas che compongono l’aria, dalle 270 parti per milione in cui si era stabilizzata da 8.000 secoli a 380 nel secolo scorso e a 410 nei primi 15 anni di questo secolo. Poiché l’anidride carbonica trattiene all’interno dell’atmosfera una parte della radiazione infrarossa che il sole invia sulla terra e la terra rimbalza verso lo spazio, nel XX secolo la temperatura media del pianeta è aumentata di 0,8 °C e si è innescato un cambiamento climatico di cui l’umanità ha appena iniziato a subire le conseguenze. In questo contesto la finalizzazione delle attività economiche e produttive alla sostenibilità richiede l’adozione di tecnologie, di misure di politica economica e di stili di vita che consentano di ricondurre le emissioni di anidride carbonica a quantità metabolizzabili dalla fotosintesi clorofilliana.
Questo obbiettivo può essere perseguito agendo in due direzioni: diminuendo i consumi di fonti fossili e aumentando la superficie terrestre ricoperta da boschi e foreste. Entrambe in una prima fase richiedono investimenti che comportano un aumento della produzione e del consumo di merci, ma in prospettiva ne determinano una diminuzione stabile. La scelta più efficace per ridurre i consumi di fonti fossili non è, come si è voluto far credere nell’ottica dello sviluppo sostenibile, lo sviluppo delle fonti rinnovabili, ma una strategia incentrata in primo luogo sulla riduzione di sprechi e inefficienze (circa il 70 per cento dei consumi energetici in Italia), in modo da ridurre al minimo il fabbisogno da soddisfare con le fonti rinnovabili. Poiché il patrimonio edilizio assorbe circa la metà dei consumi energetici totali, occorre limitare drasticamente la costruzione di nuovi edifici e indirizzare l’edilizia alla ristrutturazione energetica di quelli esistenti. Per aumentare le superfici ricoperte da boschi e foreste occorre ripiantumare quelle disboscate per ricavarne terreni agricoli non dedicati all’alimentazione umana, ma all’alimentazione degli animali d’allevamento e alla produzione di biocarburanti. Invece di prendere in considerazione una strategia di questo genere, finalizzata a ridurre le emissioni di anidride carbonica, i governanti di tutto il mondo, nel corso della Cop 21 che si è svolta a Parigi nel dicembre 2015, si sono accordati di contenere l’aumento della temperatura terrestre in questo secolo tra 1,5 e 2 °C, ovvero da un valore minimo che è il doppio rispetto all’incremento del secolo scorso, a un valore massimo superiore di 2,5 volte. Di sviluppo sostenibile si muore. Più lentamente che di sviluppo, ma si muore.

Nel 2017, secondo il Footprint Institute, il giorno in cui l’umanità è arrivata a consumare tutte le risorse rinnovabili che la fotosintesi clorofilliana rigenera nel corso di un anno, è stato il 2 agosto. L’anno precedente era stato il 14 agosto. Dieci anni prima intorno alla metà di settembre. Venti anni prima intorno alla metà di ottobre. Quale nuovo modello di sviluppo consente d’invertire questa tendenza? Come si potrebbe riportare gradualmente quel giorno verso il 31 dicembre se non diminuendo il consumo di risorse rinnovabili, che si può raggiungere riducendo innanzitutto gli allevamenti di animali e l’alimentazione carnea? Una diminuzione dei consumi si può definire sviluppo sostenibile? In tutti gli oceani galleggiano ammassi di poltiglie di plastica grandi come continenti e il numero dei pesci è stato dimezzato dalla pesca d’altura. Come si può fare in modo che che i rifiuti non biodegradabili ammassati in mare e sulla superficie terrestre diminuiscano se non se ne riduce drasticamente la produzione? Come si può fare in modo che il numero dei pesci torni ad aumentare se non limitando la pesca? Come si possono ridurre le più gravi forme d’inquinamento se non abolendo la produzione dei veleni di sintesi chimica usati in agricoltura per accrescere i rendimenti e in alcuni cicli industriali che hanno devastato i territori in cui sono stati insediati? Come si può arrestare la perdita della biodiversità, come si può ricostituire la fertilità dei suoli, se non riducendo lo sfruttamento dei terreni agricoli? Come si può garantire la disponibilità di acqua necessaria a tutti gli esseri umani e a tutte le forme di vita, se non riducendo gli sprechi?
Per consentire all’umanità di avere un futuro, la sostenibilità deve sostituire lo sviluppo come riferimento di tutte le scelte produttive. La sostenibilità non può essere considerata un’opzione al servizio dello sviluppo, allo scopo di attenuare le conseguenze negative che genera. Né si può ridurre il suo significato a una generica attenzione nei confronti dei problemi ambientali. La sostenibilità esprime un concetto tanto preciso quanto ignorato: la necessità di evitare che la produzione e il consumo di merci oltrepassino i limiti della compatibilità ambientale. Poiché questi limiti sono già stati ampiamente superati, la sua declinazione attuale impone che le attività economiche e produttive siano indirizzate a:
– diminuire le emissioni di sostanze di scarto biodegradabili (anidride carbonica) alle quantità che possono essere metabolizzate dalla biosfera;
– diminuire i consumi di risorse rinnovabili alle quantità che possono essere rigenerate annualmente dalla fotosintesi clorofilliana;
 ridurre i consumi delle risorse non rinnovabili, utilizzandole con la massima efficienza, riutilizzando quelle che è possibile riciclare, producendo beni durevoli riparabili e aumentando la loro durata di vita;
– abolire la produzione delle sostanze di sintesi che non possono essere metabolizzate dai cicli biochimici.
Per continuare a utilizzare in economia la parola sviluppo come sinonimo di miglioramento, o se ne capovolge il significato che si è consolidato dal 1949 a oggi, svincolandolo dal legame simbiotico con la crescita e apparentandolo alle parole diminuzioneriduzionedecrescita, o si elimina dall’economiaLa prima ipotesi presuppone una deroga alla logica, o quanto meno al senso comune. La seconda è più drastica, ma meno ambigua. In fin dei conti si usa soltanto da settant’anni. Comunque, per superare la crisi economica e invertire la tendenza al peggioramento della crisi ecologica non serve un nuovo modello di sviluppo, ma un nuovo modello di economia senza sviluppo.
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Il Cile, un paese-truffa - Sébastien Monnier

(traduzione di Claudia Tebaldi)

Sono arrivato a La Serena (Cile), direttamente da Parigi (Francia), all’inizio del 2010, precisamente il giorno dell’elezione di Sebastián Piñera alla presidenza della Repubblica. Ci sono arrivato per caso, attratto da un’opportunità professionale e dall’avventura che può essere vivere dall’altra parte del mondo, e mi sono fermato, sedotto dal fascino, per interessi professionali e per i capricci del destino. Da quel momento ho dovuto – come tanti stranieri – rispondere molte volte alla domanda: «Ti piace il Cile?» All’inizio ovviamente mi faceva piacere: era tutto una scoperta, imparavo un’altra lingua, vivevo in uno dei paesi con i paesaggi più belli al mondo, tra l’oceano Pacifico e la cordigliera delle Ande. Tuttavia, nel corso degli anni, questa domanda, ripresentandosi, ha cominciato a causarmi un disagio crescente. In me stava nascendo un’opinione negativa.
Ciò che leggerete non è uno studio. È una testimonianza non esaustiva, critica, senza filtri, frutto di più di quattro anni passati a vivere, viaggiare, sperimentare, analizzare gli spazi e la società cilena. È lo sguardo di una persona con una cultura, un’esperienza previa, «esterna», che è andata un po’ più in là del semplice piacere di vivere la comoda situazione dell’espatriato. Spero, perciò, che queste mie considerazioni meritino di essere diffuse.
Ma quindi mi piace il Cile? Sinceramente, la migliore risposta che posso dare è la seguente: questo paese, che s’inorgoglisce della sua esemplare situazione economica nell’area sudamericana, della sua crescita «a full», come dicono (6 e qualcosa %), del dinamismo delle sue industrie estrattive ed esportatrici, di «tutti i soldi che ci sono», ma dove poi l’1% dei redditi più alti assomma il 30% del totale dei redditi distribuiti nel paese e lo 0,01% dei redditi più alti più del 10%, rendendo il Cile uno dei paesi più impari del mondo, ecco, questo paese mi rende triste.
Questo paese è una truffa. Io non parlo dell’«altro Cile», dell’uno per cento dei più ricchi che vivono nei «quartieri alti», io parlo della stragrande maggioranza del paese. In Cile il costo della vita è alto, vicino – se non superiore (specialmente per quanto riguarda educazione e sanità) – a quello che può essere nei paesi sviluppati d’Europa. Ma il Cile non è un paese sviluppato; è solamente un paese cresciuto economicamente, dove il potere d’acquisto e la qualità della vita della maggioranza della popolazione sono sfasati rispetto ai prezzi. La gente vive in una tensione, e in un’insicurezza finanziaria, permanente, in una condizione di indebitamento: che meravigliosa invenzione sono queste carte di credito revolving, come Cencosud, create per controllare una popolazione che è stata cresciuta nell’incitamento al consumo! Nei supermercati, il cittadino cileno cammina lentamente, come se fosse obbligato a farlo, curvo, addosso al carrello – come non vedere in questa immagine il simbolo di una forma di «repressione»? – prima di arrivare alla cassa per pagare a rate i suoi acquisti. E questo è solamente un esempio tra i tanti.
La truffa ha il suo culmine in tutto ciò che comprende l’ambito «pubblico» della società e la qualità della vita dei luoghi abitati: educazione, salute, trasporti, urbanistica, ambiente. L’educazione – in particolare l’educazione superiore, i cui prezzi e la mercificazione, anche nelle università tradizionali, sono aberranti – è il primo pilastro che ha iniziato a vacillare, grazie a una nuova generazione che aspira «realmente» al cambiamento. Speriamo che gli anni a venire portino alla riforma necessaria che permetterà di tirar fuori questi giovani dal debito in cui affondano (sul serio: devono pagarsi gli studi fino alla vecchiaia?). Ma ci vorrà ancora molto per un miglioramento reale. La sfera sanitaria – specialmente nei «supermercati della medicina» come Integramédica, Megasalud e altre cliniche – è carissima (il record appartiene alla sfera odontologica), frettolosa e superficiale. Come succede nell’ambito educativo, è il profitto che controlla ogni cosa. L’assistenza medica è cara, come i farmaci, e il tutto mal rimborsato. Chiunque lo dice: in Cile è meglio avere tanti soldi prima di ammalarsi, dato che la possibilità di avere una buona assicurazione dipende dal livello di reddito; ognuno deve risolvere i propri problemi, giusto? Ho visto persone povere malate di cancro ricorrere alla carità all’interno della loro cerchia di amici e colleghi. Ho visto persone rinunciare ad andare dal medico o alle cure necessarie a causa delle carenze dei piani sanitari o della mancanza di possibilità economiche. Ho sperimentato di persona ciò che sono le Isapres. Richiedono e scambiano informazioni che dovrebbero appartenere al segreto professionale per poi rifiutare le persone che sembrano troppo malate e quindi dispendiose. Hanno piani previdenziali di una complessità incredibile, che lasciano l’aspirante affiliato in uno stato di confusione che in pratica gli impedisce di scegliere. Hanno regole e sistemi respingenti per salvarsi dai vari rimborsi; e questo accade in particolare nell’ambito psicologico. Cercano sistematicamente di rifiutare i certificati medici. Hanno convenzioni – o più probabilmente appartengono allo stesso ente – con istituti, laboratori, reti di farmacie, fuori dalle quali i rimborsi si abbassano ad un livello simbolico; tutto ciò toglie al paziente (o meglio: al cliente) la libera scelta del luogo dove andare a curarsi o dove comprare i propri farmaci. Ed è proprio qui che si raggiunge l’apice della truffa. Questo sistema apparentemente disciplinato alla perfezione è retto da alleanze degne del Medioevo, che vanno contro i principi stessi del liberalismo, che, nel caso del piano AUGE,[1] si realizza anche con la partecipazione dello Stato. Bis repetita, chiunque lo dice: in Cile è meglio avere tanti soldi prima di ammalarsi. Ma a chi importa se poi il grande «show» di Teletón – operazione delirante che celebra il valzer dei grandi marchi condiscendenti e altruisti e della sacrosanta carità (povera e inutile pecetta) – verrà a lavare le coscienze alla fine dell’anno?
Gli ambienti urbani nel loro complesso sono abbastanza malconci per un paese tanto avanzato economicamente e dove i prezzi degli immobili sono così alti. Mancanza di pianificazione, selvaggia e galoppante speculazione edilizia, assenza di ricerca estetica e di arredo urbano (fino ad arrivare all’orrido), segregazione, marginalizzazione – connessa all’amplificazione dell’insicurezza, rivolta a far predominare le barriere e il mercato della sicurezza (viva l’ADT!) –, mediocrità degli spazi pubblici o dei punti d’aggregazione, degrado e inadeguatezza dei trasporti, sono tra le principali caratteristiche della realtà urbana e del suo recente sviluppo. Nelle aree di espansione urbana, si moltiplicano i pannelli che descrivono universi meravigliosi dove poi a tutta velocità usciranno dalla terra ordinarie case di cartone, serrate al massimo e replicate per ettari, molto redditizie per gli imprenditori, in un ambiente di cemento, di griglie e anche di filo spinato. Alla cattiva qualità dei trasporti pubblici si aggiunge poi una chiara emarginazione sociale anche negli spostamenti: schematicamente i poveri in minibus, la classe media in autobus, i più ricchi nella propria auto. I piani di circolazione devono migliorare (il classico scenario della congestione estiva di La Serena, dotata di poche strade per accogliere migliaia di turisti). I servizi di pulizia urbana sono miseri: le strade e le piazze restano nella sporcizia. E cosa dire – per fare un esempio recente – del peso che ha avuto la mancanza di pianificazione, di manutenzione, di attrezzature e di accesso all’acqua nella propagazione dell’incendio di Valparaíso? Quale sarebbe stata la gravità di questo episodio se le autorità avessero pensato, molto prima, a progettare e migliorare all’insegna della prevenzione? Nel frattempo, il comune continua a concentrare i suoi sforzi di rinnovamento nel Cerro Concepción, la parte della città conservata meglio, e lo Stato lascia ai volontari il compito di occuparsi delle zone devastate, invece di mandare l’esercito. Nessun commento.
D’altro canto, gli spazi d’incontro e di contaminazione culturale sono tristi. In Cile, lo sviluppo dell’urbis si è tradotto principalmente nella costruzione sistematica di mall e di casinò Enjoy, frutto della volgarità e della mediocrità cittadina, cercando di rendere asettici i comportamenti e di normalizzarli secondo gli standard statunitensi, favorendo il consumo compulsivo, la cattiva alimentazione e lo spreco. Dove sono i bei parchi, i centri culturali, i teatri, le mediateche comunali – sovvenzionate, specializzate e accessibili a tutti –, i cinema che promuovono le produzioni latinoamericane (e non i demenziali film statunitensi selezionati da Cinemarks)…? Eccetto il centro di Santiago – e le città con delle caratteristiche particolari come Valparaíso – siamo di fronte a una tremenda carenza. La città cilena meriterebbe una diversa attenzione (ma non coinciderebbe con il modello).
Effettivamente, ora conosco bene (o già conoscevo, in parte) il perché di tutta questa situazione: il regime militare, i Chicago Boys, l’assenza del ruolo dello Stato all’interno dei domini socioeconomici, la depoliticizzazione della società, l’installazione di un modello ultraliberale, la creazione di un impero di imprese che domina il mondo economico e la prosecuzione di questo schema alla fine della dittatura, senza alcuna messa in discussione del modello stabilito. Il Cile rimane, alla base, il paese pensato durante i suoi anni di dittatura, un paese dominato da una manciata di ricchi. E un paese dove ancora, in qualsiasi classe sociale, si può sentire la classica frase: «Non sono a favore della dittatura, ma dobbiamo riconoscere che Pinochet ha salvato il paese dalla merda lasciata da Allende e ha ristabilito l’ordine». Dov’è finita la storia? E la memoria collettiva? Non hanno mai sentito parlare di come gli Stati Uniti e la CIA hanno orchestrato tutto, con l’appoggio della stampa (l’onesto «El Mercurio»), innescando la crisi economica e appoggiando l’esercito cileno per far cadere il governo di Allende? Non hanno mai sentito parlare di Milton Friedman e di come ha deciso di servirsi del Cile come primo – insisto: primo – laboratorio economico in cui sperimentare, in modo più che macabro, le sue teorie economiche? Naturalmente non ne hanno sentito parlare. Infatti, si sono mantenuti nell’ignoranza e nella paura grazie all’efficace imbarbarimento generato con gli strumenti della «dittatura silenziosa»: mezzi di comunicazione che si dedicano molto spesso ad argomenti vacui, che diffondono frivolezze scandalistiche, futili notizie che parlano di successi (la trilogia «sangue, sperma e lacrime»), pagine di «vita sociale» (patetico ed emblematico specchio dell’arrivismo cileno); tonnellate di zucchero e di grassi nel cibo spazzatura; continua chiamata al consumo tecnologico e compulsivo; dosi smisurate di calcio (che sostituisce o prende il posto della religione); scarsa accessibilità agli strumenti del sapere, in particolare ai libri venduti a prezzi proibitivi (ancora una volta, sul serio, com’è possibile che sia stata mantenuta la tassa sui libri ideata da Pinochet?); strumentalizzazione, da parte dei mezzi di comunicazione, dei colossi del mercato, dei politici, di qualsiasi catastrofe naturale o industriale, al fine di generare temporaneamente un sentimento di unità nazionale, prima di tornare alla normalità, all’individualismo e alla diffidenza verso il prossimo; o ancora, ovviamente, ondate alcoliche di patriottismo cieco e immemore nel mese di settembre.
Ma forse, in futuro, la storia avrà un ruolo più importante e profondo nell’educazione e nella società, al fine di restituire pienamente la memoria collettiva. E forse, come dice l’attivista Naomi Klein, è – o lo sarà presto – arrivato il momento per le persone (e non solo per i giovani) di «venir fuori e di obbligare» il potere ad attuare i cambiamenti che renderebbero il Cile un paese più giusto, più equilibrato e più bello.
[1] Plan de Accesso Universal a Garantías Específicas: regolamentazione sanitaria che garantisce l’accesso all’assistenza sanitaria. [n.d.t.]


Ho letto cose che voi umani... - Rita


Quelli che dicono "aiutiamoli a casa loro" sono talmente ignoranti delle dinamiche globali che, oltre a non saper distinguere un rifugiato da un migrante, non saprebbero nemmeno indicare sulla cartina geografica dove si trovi questa "casa loro". Il fatto che questa casa sia stata poi distrutta da guerre o intrisa di povertà a causa dello sfruttamento delle risorse locali da parte dell'occidente o che i presunti aiuti umanitari siano stati in realtà occupazioni militari e bombardamenti a tappeto suppongo debba essere un particolare irrilevante.
Ma sì, ragioniamo per slogan, seppelliamo l'empatia, sospendiamo il pensiero critico, azzeriamo la complessità del reale nel pensiero binario buoni Vs. cattivi inculcatoci nella testa da oltre un secolo di propaganda culturale statunitense, tanto l'importante è preservare i nostri privilegi, no? 
Sapete cosa mi stupisce? Che molti che fanno appello a questi slogan beceri si definiscano animalisti perché ciò significa che della questione animale hanno capito ben poco; non capiscono che siamo tutti animali, siamo tutti corpi che nessuno dovrebbe dominare, gestire, controllare. 
Poi, costoro che in questi ultimi giorni ho visto ergersi in difesa della legalità e quindi della violenta azione di sgombero avvenuta a Roma, lo sanno che allora dovrebbero difendere anche lo sfruttamento animale poiché, in fin dei conti, anch'esso è legale?
Ma dove è finito il dissenso, la resistenza (che è un concetto che va ben oltre il fenomeno storico), la disobbedienza civile, quella libertà dei corpi che tanto agognate per gli animali, ma che ora rifiutate per i vostri simili di specie? 
da qui

mercoledì 30 agosto 2017

la sebada da passeggio



La vivacità della Riviera del Corallo è nota. Sul piano politico ha partorito il primo compromesso storico, sul piano imprenditoriale è nato il turismo, e per quanto riguarda la cucina non si contano i piatti diventati famosi, dall’aragosta alla catalana del grande chef Moreno Cecchini, alle linguine agli scampi di Tonino Demartis. Per non parlare degli spaghetti con la polpa di riccio di mare. Ora da qualche settimana sta avendo un certo successo l’ultimo colpo di genio: la seada (o sevada) da passeggio. Ci ha pensato “Tipico”, una attività che si occupa di gastronomia nella centralissima via Sassari, che ha adattato
un cartoncino alla forma del tradizionale dolce sardo in modo che sia possibile gustare il classico dessert targato quattromori, al miele o con lo zucchero, anche a passeggio, tra le stradine del centro storico, al fresco della sera durante la movida catalana.

Il caldo siamo noi. Inutile nasconderlo - Linda Maggiori

Nonostante il riscaldamento globale (provocato dai nostri dissennati stili di vita) ci stia letteralmente soffocando, noi continuiamo come prima e peggio di prima. Accendiamo energivori condizionatori che sputano tutto il caldo nell’ambiente, (ovvio che per anziani, malati o disabili è necessario, ma per tutti gli altri è davvero necessario?); sprechiamo quel poco di acqua rimasta riempiendopiscine private o lavando i nostri affezionati e sfavillanti Suv.Andiamo ovunque con l’auto attaccata al sedere, che sia lontano in vacanza, o al bar a 200 metri di distanza, perché non è mica possibile camminare, pedalare, prendere il treno o il bus con questo caldo. Roba da sfigati, poveracci, immigrati africani. Noi siamo gente benestante, lavoratori perbene, e vogliamo sudare e faticare solo in palestra. Poi, visto che in auto con l’aria condizionata si sta davvero bene, anche quando l’auto è ferma, lasciamo il motore acceso e ci godiamo il fresco.
Ieri, girando in bici coi miei figli per le strade di Faenza, in dieci minuti ho visto almeno cinque auto ferme col motore acceso. Dentro, gente che stava beata a guardare lo smartphone o chiacchierare (sarebbe pure illegale, ma chi mai multerebbe dei poverini che inquinano l’aria comune per godere di un po’ di fresco privato? I vigili non sono mica così duri di cuore!).Se il riscaldamento globale è causa nostra, almeno soffriamolo sulla nostra pelle, dico io. E invece no, tutti a spender soldi per ricrearsi un fresco privato e artificiale che riscalda ancor più l’ambiente di tutti. Mi deprimo. Anche ai bimbi vengono i dubbi, mio figlio Giona perplesso mi chiede: “È proprio vero che l’uomo è un essere intelligente? A me sembrano più intelligenti tutti gli altri animali“. Cosa dovrei rispondergli?
Non solo non siamo intelligenti, ma abbiamo perso di vista anche l’istinto di sopravvivenza della specie.I dati sono sconfortanti: il 2 agosto 2017 abbiamo superato il limite massimo di sfruttamento delle risorse del nostro pianeta per l’anno in corso (Global footprint network). Da questo momento inizia il nostro debito ecologico annuale. Debito che inizia ogni anno sempre prima. Venti anni fa questo accadeva l’otto ottobre. In una società razionale e intelligente, il limite massimo di sfruttamento delle risorse dovrebbe ovviamente coincidere con il 31 dicembre di ogni anno. La cosa più triste è che questo sfruttamento intenso e scriteriato delle risorse globali avviene unicamente per sostenere lo stile di vita di appena il 20 per cento della popolazione, quella minoranza che provoca il riscaldamento climatico ma che vuole acqua e fresco a tutti i costi.Uno stile di vita folle e viziato, ma che sembra intoccabile.
Chi chiede un po’ di sobrietà perde voti e consenso. L’esempio dell’acqua è lampante. La siccità morde, i laghi si prosciugano, ma la sindaca grillina di Roma (sbaglio o i grillini un tempo erano ambientalisti?) si oppone fieramente al razionamento dell’acqua. Dopo il classico compromesso, viene ridimensionato sulla carta il disastro ambientale a cui va incontro il lago di Bracciano ma, nella realtà, il disastro resta e il lago si prosciuga. Dice Luca Mercalli, in un’intervista a Famiglia Cristiana (n. 32): “L’emergenza non ci sarebbe stata se da aprile, quando abbiamo lanciato l’allarme siccità, si fosse razionata anche solo di un’ora l’acqua nelle ore notturne. Detto questo, è chiaro che la manutenzione delle tubature va fatta”.
Negli acquedotti romani, infatti, su cento litri immessi in rete, 44 si perdono per strada. Il resto dell’Italia non è messa meglio. Le priorità dovrebbero essere: manutenzione delle rete idrica, depurazione e recupero delle acqua reflue (almeno per l’agricoltura), razionamento dell’acqua, divieto di sprechi, e aumento delle tariffe in modo progressivo, oltre una certa soglia di litri procapiteChiudere infine gli assurdi e stramaledetti allevamenti intensivi, sensibilizzando la gente a ridurre (se non eliminare) carne e latticini dalla dieta. Non fa mai male, infatti, ricordare che per produrre un chilogrammo di carne bovina servono 15.440 litri d’acqua.
Sobrietà e intelligenza, anche nelle costruzioni: la maggior parte delle case (e ci metto anche il nostro piccolo appartamento in affitto) sono dei forni insensati. Il cemento ha un’alta trasmittanza termica. Se il clima è già cambiato, dobbiamo imparare a conviverci. E conviverci vuol dire anche ristrutturare le case con materiali naturalmente isolanti. Ristrutturare dico, e non costruire ex novo (neppure se in bioedilizia), perché di terreno ne abbiamo già consumato abbastanza.

Solo alberi, d’ora in poi, nel suolo possiamo piantare. Per rinfrescarci tutti e sperare in un futuro.

martedì 29 agosto 2017

Il Brasile vende la propria anima verde


Un nuovo disastro ambientale per il Brasile e per l’intera Terra è in dirittura d’arrivo.
Fra moltissime proteste, fra cui quelle della Chiesa brasiliana, il Presidente brasiliano Michel Temer ha firmato nei giorni scorsi l’abolizione della National Reserve of Copper and Associates (Renca)area naturale protetta estesa oltre 46 mila chilometri quadrati di foresta amazzonica fra gli Stati di Amapa e Parà.
Il motivo è semplice: l’apertura di miniere d’oro e di rame.
Si avvicina un vero e proprio disastro ambientale.   L’ennesimo ai danni delle foreste pluviali tropicali della Terra.
Gruppo d’Intervento Giuridico onlus


da La Stampa,  25 agosto 2017
Via libera del governo Temer alle trivelle nell’area protetta di Renca: “Faremo ripartire il Paese”. Gli ambientalisti: “Sarà una catastrofe”.  (Lidia Catalano)
Un’immensa riserva naturale dell’Amazzonia si prepara a diventare nuova terra di conquista dei cercatori d’oro. Il via libera porta la firma del presidente brasiliano Michel Temer, che mercoledì ha abolito la National Reserve of Copper and Associates (Renca), aprendo la strada alle trivellazioni in un’area ricca di minerali e metalli preziosi che si estende per oltre 46mila chilometri quadrati, a cavallo degli Stati settentrionali di Amapa e Para. «La misura punta ad attrarre investimenti nel Paese e a creare nuovi posti di lavoro, nel rispetto della sostenibilità ambientale», ha dichiarato in un comunicato il ministero per l’Estrazione e l’Energia, precisando che nove aree della riserva, incluse quelle abitate dalle popolazioni indigene, «continueranno ad essere tutelate».
L’ira degli ambientalisti  
Ma le rassicurazioni non sono bastate ad alleviare i timori degli ambientalisti, secondo cui l’attività di estrazione mineraria nella zona porterebbe a «esplosioni demografiche, deforestazioni, distruzione delle risorse idriche, perdita di biodiversità e creazione di conflitti territoriali». Secondo un recente rapporto del Wwf, la principale area di interesse per l’estrazione di rame e di oro si trova proprio in una delle aree protette, la Riserva Biologica di Maicuru, «popolata da comunità indigene di varie etnie che vivono in isolamento» e una corsa all’oro nella regione potrebbe «creare danni irreversibili a queste culture». «È più grande attacco all’Amazzonia degli ultimi 50 anni – ha denunciato il senatore dell’opposizione Randolfe Rodrigues – neppure la dittatura militare o la costruzione dell’autostrada trans-Amazzonica riuscirono a produrre una tale devastazione».
Secondo i dati dell’Inpe, l’Istituto di ricerca sull’Ambiente brasiliano, tra agosto 2015 e luglio 2016 sono andati perduti circa 8000 chilometri quadri di foresta Amazzonica, pari a oltre cinque volte l’area di Londra. Nell’arco di appena dodici mesi il tasso di deforestazione è cresciuto del 29 per cento: per ritrovare cifre simili bisogna tornare al 2008. Il governo Temer assicura che le trivelle saranno autorizzate ad operare soltanto in un’area pari al 30 per cento del’ex riserva naturale, la cui superficie totale supera per estensione la Danimarca. Fondata nel 1984 sotto l’allora dittatura militare, la riserva di Renca fu nominata area protetta per consentire le estrazioni minerarie solo alle compagnie di Stato. Il governo brasiliano ha accompagnato il cambio di passo con la promessa che l’apertura ai privati dopo 33 anni di interdizione «porterà enorme ricchezza nel Paese e contribuirà ad estirpare le attività di estrazione illegale in Amazzonia».
Ma secondo gli ambientalisti e l’opposizione la mossa rientra nell’aggressiva strategia di sfruttamento delle risorse minerarie messa in campo da Temer. Il presidente – su cui pende una pesante accusa di corruzione nell’ambito di un’inchiesta che ha già portato in carcere dirigenti statali e delle principali multinazionali brasiliane del settore petrolifero – ha infatti in programma di dare il via libera alle trivellazioni di compagnie nazionali e straniere in 20.000 siti minerari distribuiti in 400 parchi nazionali.
«Lula da Silva and Dilma Rousseff erano molto più attenti a salvaguardare il nostro patrimonio naturale», lamentano gli attivisti, mentre il governo insiste sull’importanza di questa spinta per trascinare il Brasile fuori dalla più grave crisi economica dell’ultimo secolo. «Nessuno ignora l’importanza dell’attività mineraria per risollevare il Paese», è la replica di Michel de Souza, coordinatore di Wwf Brasile. «Ma se il governo tirerà dritto senza valutare le conseguenze sull’ambiente e sulle comunità locali andremo incontro a una catastrofe annunciata».

lunedì 28 agosto 2017

Paura della morte - Rita

  
Della domesticazione della natura si parla da secoli, ci hanno scritto su migliaia di libri e girato centinaia di film. 
Della rimozione della nostra parte selvatica che si esprime attraverso la soppressione degli istinti - e meno male, riguardo alcuni, la civilizzazione ha comunque innegabilmente portato anche dei vantaggi - e del selvatico in generale pure.
Cosa ci resta da dire?
Forse che osservare non basta più.
Dobbiamo mettere in moto pratiche collettive più incisive per spazzare via l'antropocentrismo e quel concetto sbagliato di razionalità come negazione del sentimento. La razionalità senza il sentimento è asettica gestione delle risorse senza comprenderne la complessità e vitalità. La razionalità senza il sentimento è quella che ha permesso il nascere dei lager e che ora dice di dover chiudere le porte agli immigrati. È quella che ha ucciso Daniza e KJ2, ma continua a far prosperare gli zoo perché lì gli orsi si possono ammirare senza pericolo. È quella che ha consentito il nascere degli allevamenti e dei mattatoi e che distrugge foreste e interi ecosistemi in nome dell'ottimizzazione delle risorse; è quella che aliena la maggior parte della popolazione imprigionandola dentro schemi esistenziali, orari, convenzioni. 
È quella che pretende di sconfiggere la morte uccidendo migliaia di animali dentro i laboratori e che, soprattutto, ha amplificato la paura della morte facendoci vivere in punta di piedi e trattenendo il respiro, così facendoci morire ancor prima che l'evento naturale si verifichi. 
Vogliamo che nulla ci turbi, che nulla metta in pericolo quella che crediamo essere la nostra tranquillità e le nostre certezze senza sapere che è tutto illusorio. 
Temiamo l'invasione dello straniero, il caldo, il freddo, i terremoti, le alluvioni, gli animali selvatici e anche quelli semiselvatici perché ci potrebbero ferire, uccidere, trasmettere malattie. 
Sì, certo, alcune di queste cose come i disastri naturali possono mettere effettivamente in pericolo la nostra esistenza, così come ci si può ammalare in qualsiasi momento o si può restare coinvolti in un incidente (fatto, questo, molto più probabile dell'aggressione di un orso in montagna), ma il pensiero che possa accadere ci terrorizza ancora più dell'evento in sé che non è affatto detto che si verificherà. E pure queste fobie diffuse, queste nevrosi che ci caratterizzano così tanto e che sono diventate oramai tratti peculiari della nostra identità anziché patologie da curare, sono sempre da ascrivere al più ampio concetto di razionalità inteso come soppressione del sentimento, ossia del sentire.
Abbiamo così paura che temiamo anche il sentire, vogliamo smettere di sentire, ci anestetizziamo di surrogati e di tutto quello che ci distoglie da noi e dalla realtà che ci circonda. Poi, quando la realtà torna a colpirci per qualche motivo, siamo incapaci di viverla, di comprenderla, di accoglierla e ci facciamo cogliere, letteralmente, dal panico (che subito mettiamo a tacere con la pasticchina di ansiolitico).
La paura della morte ci fa giocare - un gioco che prendiamo terribilmente sul serio - a essere già morti come se troppa vita ci facesse male. E non la tolleriamo in chi ancora sa vivere pienamente - gli altri animali, per esempio, che definiamo stupidi, sciocchi, poco intelligenti; per questo vogliamo tenere lontano da noi chi rischia il tutto e per tutto pur di sopravvivere perché un istinto di vita ancora ce l'ha, come gli immigrati che fuggono da pericoli reali, gli animali selvatici che ne sono ebbri, i bambini e tutto ciò che ci ricorda che essa, la potenza di vita, cresce in ogni dove e si manifesta ovunque, come quelle piantine selvatiche che spuntano tra le crepe del cemento.
In Rumore Bianco, Don DeLillo dice che uccidiamo nell'illusione di sconfiggere la nostra stessa morte. 
Ma l'unico antidoto alla paura della morte che possa davvero funzionare è uno soltanto: vivere e lasciar vivere. 

sabato 26 agosto 2017

I Babilonesi inventori della trigonometria prima dei Greci

I babilonesi inventarono la trigonometria mille anni prima degli antichi greci: la prova sarebbe in una tavoletta di argilla di quasi 4.000 anni fa, ritrovata in Iraq agli inizi del Novecento dall'archeologo statunitense che ispirò il personaggio di Indiana Jones. I numeri della tavola, incisi in caratteri cuneiformi, servivano a progettare palazzi, templi e canali di irrigazione: rappresentano una forma semplificata di trigonometria che potrebbe essere usata ancora oggi, ad esempio nella computer grafica. A darne questa interpretazione sono i matematici dell'Università del Nuovo Galles del Sud, in Australia, che pubblicano i risultati del loro studio su Historia Mathematica. 

Con i numeri disposti in quattro colonne e 15 file, probabilmente incomplete, la tavoletta d'argilla 'Plimpton 322' "ha interrogato i matematici per oltre 70 anni", commenta il ricercatore Daniel Mansfield. Ricostruendo le parti mancanti delle sequenze numeriche, il team australiano ha dedotto che il reperto rappresenta "la più antica tavola trigonometrica del mondo", che precede di oltre mille anni quella dell'astronomo e geografo greco Ipparco. 

La tavoletta babilonese "apre nuove possibilità, non solo per la ricerca matematica moderna, ma anche per l'insegnamento", sottolinea Norman Wildberger, tra gli autori dello studio. "Con Plimpton 322 abbiamo una trigonometria più semplice e accurata che presenta chiari vantaggi rispetto alla nostra"

domenica 20 agosto 2017

Marcinelle e i minatori del mare - Mauro Armanino


Sono minatori come quelli di Marcinelle bruciati da 61 anni. Anche loro stanno scavando a modo loro il mare. Scavano per anni e infine, l’ultimo tratto da scavare, ancora più pericoloso. Sono i migranti portati in salvo dalle gallerie scavate nel Mediterraneo. Morirono in 262 per buona parte connazionali. Bruciati come fossere essi stessi diventati un carbone simile all’olocausto. Famiglie annientate dal dolore e racconti incompiuti di una migrazione economica che prevedeva braccia in cambio di carbone a prezzo ridotto. Così era siglato l’accordo italo-belga dell’epoca. Dovevemo saperlo, invece di distrarci da anni di amnesia mercantile. Avremmo potuto prevederlo che prima o poi quei morti sarebbero tornati. Dal mare, stavolta.
Ma i cunicoli e le ore, gli anni passati a scavare, sono gli stessi. C’è chi scava carbone e chi scava futuro. Sono entrambi nascosti nella terra o nel mare. Non di altro si tratta. Minatori per necessità, di carbone e di nulla, nella terra, la sabbia o il mare. Non è quello che conta. Scavare per portare alla luce ciò che è nascosto, seppellito, tradito nele viscere della terra o tra i cunicoli, non meno infidi, del mare. Invece di fiamme il grande e pietoso silenzio del mare che raccoglie, come neppure gli umani sanno fare, in una grande città sommersa quanti lo solcano. Una città di minatori di futuro, merce rara, preziosa, non vendibile eppure fin troppo necessaria per la storia. Marcinelle è la memoria dei minatori del mare.

La metà dei morti erano connazionali, contadini d’origine che conoscevano la terra. Alla terra e alla polvere sono tornati. Una scintilla, lo scoppio e l’incendio, sono diventati cenere perché dalla cenere erano nati. Una cenere benedetta, sparsa nel vento e che ha raggiunto altre sponde, lontano. Cenere e polvere e sabbia, sono gli stessi ingredienti che formano la storia umana, con un pezzo di mare da scavare. I discorsi di commemorazione che sembrano parlare al passato e non sanno sguardare il futuro di cui i minatori di mare sono gli operai. Dalle gallerie di Marcinelle a quelle del mare non c’è che un passo da compiere. E questo passo si fa con gli occhi e la memoria purificata dal sale.
Sono minatori d’acqua, scavano, cercano, si perdono, bruciano nel mare. Raccolgono minerale di futuro, raro e prezioso come la vita, che senza di lui perde la speranza. Pochi anniversari, cimiteri sparsi sulla riva e lei, la città sommersa dei minatori del mare. Si ritrovano e raccontano di quando da lontano si vedeva la terra e come scoprissero di nascere un’altra volta in un grido. Poi arrivava lei, l’acqua che tutto riempiva del suo manto leggero e inatteso. Ancora adesso, nella città sommersa, continuano gli scavi, per riportare alla luce il futuro finalmente trovato. Allora e 
solo allora si capirà che ricordare Marcinelle e dimenticare i minatori d’oggi, sarà come tornare a seppellire il futuro.