mercoledì 3 maggio 2017

La lezione di Sulley Muntari - Matteo Saudino



Di fronte ai rastrellamenti di migranti “ordinati” a Milano da Marco Minniti, per non rovinare il decoro delle città, o di fronte alle politiche razziste promesse e proposte da sciacalli quali Marine Lepen o Matteo Salvini, l’affaire Muntari può sembrare cosa di poco conto, l’ennesima idiozia prodotta dal mondo del calcio. Purtroppo, invece, non è così. L’affaire Muntari, infatti, ci parla innanzitutto di una società che tende sempre più a banalizzare e sminuire gli atti di discriminazione razziale, derubricati alle voci “sciocchezze”, “ragazzate”, “gesti isolati”, “suvvia non è nulla di grave”, oppure “non sono buu razzisti ma di antipatia” (chi infatti non fa i versi della scimmia a chi gli è antipatico).
Probabilmente, e questo è l’aspetto più grave dell’intera vicenda, deve aver pensato che non fosse nulla di così grave e rilevante anche il signor Daniele Minelli, l’arbitro della gara Cagliari-Pescara, il quale, di fronte a Muntari che gli segnalava ripetutamente gli ululati e i buu che il pubblico gli gridava, non solo non ha avuto il coraggio di interrompere la gara, come prevede il regolamento, ma infastidito dall’atteggiamento ribelle del giocatore addirittura decideva di ammonirlo. La successiva uscita volontaria dal campo di Muntari, che per questo veniva espulso, deve essere insegnata agli studenti come gesto di educazione civica, che vale più di mille test invalsi.
Nessuno vuole paragonare l’ex giocatore del Milan a Rosa Parks o a Tommy Smith detto jet, ma perché di fronte ad un atto di coraggio civile di un calciatore, l’arbitro non ha deciso di dare un segnale chiaro ad un mondo sempre più attraversato da razzismo e maschilismo? Non è necessario avere il coraggio di Nelson Mandela o di Peppino Impastato per sospendere una partita di calcio.
Purtroppo, di fronte a tali violenze considerate minori, prevale un atteggiamento pilatesco, figlio dell’idea che indossare i panni di Don Abbondio permetta di vivere in quiete. E così, sempre più, chi ha ruoli pubblici o educativi decide di non schierarsi, di minimizzare, dimenticandosi però che nel triangolo vittima-carnefice-spettatore, chi osserva silenziosamente senza intervenire si schiera inequivocabilmente dalla parte dell’oppressione e della violenza.

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