domenica 31 dicembre 2017

Lo spopolamento della Sardegna: pochi nuovi nati ed emigrati in aumento - Alessandra Carta



Poche nascite e un alto numero di emigrati: è questo il mix che sta alla base del calo demografico in Sardegna. Al fenomeno dello spopolamento il nostro giornale sta dedicando un approfondimento in tre puntate, attraverso i numeri Istat elaborati dal Crei, il centro regionale di settore delle Acli. Siamo partiti dai residenti persi dall’Isola nel 2016 e pari a una media di oltre 400 unità mensili (leggi qui). Oggi mettiamo sotto la lente il saldo naturale (differenza tra numero di nati e di morti) incrociandolo con quello migratorio (differenza tra iscrizioni e cancellazioni nelle anagrafi comunali). Si ricava l’incidenza che ogni singolo indicatore ha nel quadro complessivo dello spopolamento.
La macro-cornice su cui caliamo i dati è sempre la popolazione della Sardergna al 1° gennaio 2016: 1.658.138 abitantiche al 31 dicembre dello stesso anno si sono ridotti a 1.653.135. Il calo demografico percentuale è stato in tutta l’Isola dello 0,30, equivalente in numeri assoluti a 5.003 residenti. Il picco più alto si è registrato nel Medio Campidano: -0,70 per cento (-697 unità); il più basso nell’ex provincia di Cagliari con un -0,16 per cento (-916 abitanti). In controtendenza la Gallura a + 0,19 per cento (+304 residenti).
Nel solo mese di gennaio 2016 la Sardegna ha perso 460 abitanti: i nati sono stati 912, i morti 1.450 pari a un saldo naturale negativo di 538 unità. Questo non è stato però compensato dal saldo migratorio, sebbene positivo, con 3.010 nuovi iscritti nelle anagrafi comunali dell’Isola a fronte di 2.932 cancellazioni (+78). Lo scarto tra i due valori certifica appunto la flessione di 460 residenti, pari a un totale di 1.657.678.
A febbraio 2016 il calo demografico si è attestato a quota -410, arrivando a fine mese a 1.657.268 abitanti. La riduzione è così data: saldo naturale a -645 con 801 nati e 1.446 morti; saldo migratorio a +235 con 3.330 iscrizioni e 3.095 cancellazioni. A marzo 2016 la popolazione sarda è diminuita di altri 294 abitanti, scendendo a 1.656.974. I nati sono stati 873, i morti 1.538 (-665); gli emigrati censiti 2.971, i nuovi iscritti nelle anagrafi 3.342 (+371, il dato più alto dell’anno). Il fenomeno è sempre lo stesso col saldo naturale che supera quello migratorio.
Ad aprile 2016 un’altra perdita di abitanti: -345. A fronte di 735 nascite si sono contati 1.329 morti, con uno scarto negativo di 594 unità. Il saldo migratorio è stato sempre positivo, a +249 (2.782 iscrizioni e 2.533 cancellazioni), ma ancora insufficiente per compensare quello naturale. La popolazione è scesa a 1.656.629. A maggio 2016 i residenti persi sono stati 615, il terzo calo demografico più alto dell’anno dopo quelli di dicembre e di maggio. Popolazione a quota1.656.014. Questo perché entrambi i saldi hanno fatto registrare il segno negativo: il naturale a -571, con 797 nati e 1.368 morti; il migratorio a -44, con le cancellazioni che hanno superato, seppure di poco, le nuove iscrizioni: 2.899 contro 2.855.
A giugno 2016, popolazione ancora sotto, a quota 1.655.344. La Sardegna ha perso altri 670 abitanti con entrambi  i saldi in negativo: – 430 il naturale (758 nati e 1.188 morti) e -240 il migratorio (2.685 cancellati e 2.445 iscritti). Il trend del saldo migratorio è cambiato a luglio 2016, tornando positivo a +82 con 2.931 immigrati e 2.849 emigrati. Ma il dato non è bastato a frenare il calo demografico, ancora negativo a -255 residenti per via dei 1.159 morti a fronte di 822 nati (-337). Popolazione a 1.655.089.
Ad agosto 2016 il saldo migratorio è stato appena sopra lo zero: +7, con 2.798 iscrizioni alle anagrafi e 2.791 cancellazioni. Ancora molto ampia la forbice tra nati e morti: 977 contro 1.266, pari a un saldo naturale a -289. La popolazione è diminuita in totale di 282 abitanti, scendendo ancora a 1.654.807. A settembre 2016 il calo demografico ha raggiunto quota 219 residenti. Saldo naturale negativo a a -223 (992 nati e 1.215 morti); saldo migratorio a +4 (3.204 iscrizioni e 3.200 cancellazioni). Si contava una popolazione di 1.654.588 unità.
ottobre 2016 ancora una perdita di 315 abitanti, con la popolazione a 1.654.273. I nati sono stati 983, i morti 1.340, pari a un saldo naturale a -357; quello migratorio ha fatto segnare un +42, tra 3.558 iscrizioni e 3.516 cancellazioni. A novembre 2016 la popolazione sarda è calata di 144 unità, a 1.654.129. Il saldo migratorio è tornato a salire di parecchio: +232 con 3.392 nuove iscrizioni e 3.160 cancellazioni; saldo naturale sempre negativo con 991 nati e 1.367 morti (-376).
Infine dicembre 2016 che ha fatto registrare la perdita demografica più alta di tutto l’anno: -994 residenti. Le cancellazioni dalle anagrafi sono state 2.811 a fronte di 2.408 iscrizioni, pari a un saldo migratorio a -403. Negativo anche il naturale: 886 nati e 1.477 morti (-591). Popolazione a 1.653.135.
Il totale del 2016 è stato di 10.527 nati, 16.143 morti, 36.055 nuovi residenti 35.442 persone che hanno lasciato l’Isola con un saldo naturale regionale a -34 per cento (-5.616 in valore assoluto) e quello migratorio a -0,04 per cento (+613). Su base provinciale è l’Oristanese a far registrare percentualmente il saldo naturale più negativo: -0,55 per cento (-879 in valore assoluto); in Gallura il più basso: 0,09 per cento (-143). Il territorio di Olbia-Tempio ha anche il miglior saldo migratorio: +0,28 per cento (scarto di 447 nuovi iscrizioni all’anagrafe rispetto alle cancellazioni); il peggiore si registra nel Medio Campidano: -0,22 per cento (le cancellazioni superano di 219 unità le iscrizioni).



sabato 30 dicembre 2017

Amadeo García García, l'ultimo Taushiro



The Last Man to Speak His Language
- NICHOLAS CASEY, BEN C. SOLOMON and TAIGE JENSEN

INTUTO, Peru — Amadeo García García rushed upriver in his canoe, slipping into the hidden, booby-trapped camp where his brother Juan lay dying.
Juan writhed in pain and shook uncontrollably as his fever rose, battling malaria. As Amadeo consoled him, the sick man muttered back in words that no one else on Earth still understood.
Je’intavea’, he said that sweltering day in 1999. I am so ill.
The words were Taushiro. A mystery to linguists and anthropologists alike, the language was spoken by a tribe that vanished into the jungles of the Amazon basin in Peru generations ago, hoping to save itself from the invaders whose weapons and diseases had brought it to the brink of extinction.
A bend on the “wild river,” as they called it, sheltered the two brothers and the other 15 remaining members of their tribe. The clan protected its tiny settlement with a ring of deep pits, expertly hidden by a thin cover of leaves and sticks. They kept packs of attack dogs to stop outsiders from coming near. Even by the end of the 20th century, few outsiders had ever seen the Taushiro or heard their language beyond the occasional hunter, a few Christian missionaries and the armed rubber tappers who came at least twice to enslave the small tribe.
But in the end it was no use. Without rifles or medicine, they were dying off.
A jaguar killed one of the children as he slept. Two more siblings, bitten by snakes, perished without antivenom. One child drowned in a stream. A young man bled to death while hunting in the forest.

Then came the diseases. First measles, which took Juan and Amadeo’s mother. Finally, a fatal form of malaria killed their father, the patriarch of the tribe. His body was buried in the floor of his home before the structure was torched to the ground, following Taushiro tradition.
So by the time Amadeo wrestled his dying brother into the canoe that day, they were the only ones who remained, the last of a culture that once numbered in the thousands. Amadeo sped to a distant town, Intuto, that was home to a clinic. A crowd gathered on the small river dock to see who the dying stranger was, dressed only in a loincloth made of palm leaves.
Juan’s shaking soon gave way to stiffness. He drifted in and out of consciousness, finally looking up at Amadeo.
Ta va’a ui, he said at last. I am dying.
The church bell rang that afternoon, letting villagers know that the unusual visitor had died.
“The strange thing was how quiet Amadeo was,” said Tomás Villalobos, a Christian missionary who was with him when Juan died. “I asked him, ‘How do you feel?’ And he said to me: ‘It’s over now for us.’”
Amadeo said it haltingly, in broken Spanish, the only way he would be able to communicate with the world from that moment on. No one else spoke his language anymore. The survival of his culture had suddenly come down to a sole, complicated man.

An Unexpected Burden

Human history can be traced through the spread of languages. The Phoenicians spanned the ancient Mediterranean trade routes, bringing the alphabet to the Greeks and literacy to Europeans. English, once a small language spoken in southern Britain, is now the mother tongue of hundreds of millions across the world. The Chinese dialects are more than a billion strong.
But the entire fate of the Taushiro people now lies with its last speaker, a person who never expected such a burden and has spent much of his life overwhelmed by it.
“That’s Amadeo there: Almost no one understands him when he’s speaking his language,” said William Manihuari, watching Amadeo fish alone from a canoe on a recent day.
 “And when he dies, no one is left,” added José Sandi, a 12-year-old boy who watched as well.
The waters of the Peruvian Amazon were once a vast linguistic repository, a place where every turn of the river could yield another dialect, often completely unintelligible to people living just a few miles away. But in the last century, at least 37 languages have disappeared in Peru alone, lost in the steady clash and churn of national expansion, migration, urbanization and the pursuit of natural resources. Forty-seven languages remain here in Peru, scholars estimate, and nearly half are at risk of disappearing.
I came to the river outpost of Intuto, 10 hours by speedboat from the nearest city, to figure out how the Taushiro, like so many other cultures, had been brought to this kind of end. The journey began in forgotten linguistic papers and historical sketches. It even led me to storm-ravaged Puerto Rico, where a retired Christian missionary rummaged through the last existing pictures of the Taushiro, nearly coming to tears as she looked through them for the first time in years.
And it brought me here, to the banks of a silty brown river, where the cumulative experience of the Taushiro people swung alone in a hammock: A man around 70 whose memory was fading and whose grasp of the language was slipping away because he had no one to speak it with.
“At any moment I might disappear, my life will end, we don’t know how soon,” Amadeo said stoically. “The Taushiro don’t think about death. We just move on.”
He knows that’s not true, that there is no moving on for the Taushiro anymore. It leaves him exasperated, at times wondering how much of the blame is his, or whether the extinction of his people really matters at all.
“Sometimes I don’t care anymore,” he said.
The Taushiro were among the world’s last hunter-gathers, living as refugees in their own country, wandering the swamps of the Amazon basin with blow guns called pucuna and fishing from small boats called tenete. To count in their language, they had words only for the numbers onetwothree and many. And by the time Amadeo was born, their population had shrunk so drastically that they had no names in a traditional sense: Amadeo’s father was simply iya, or father, his mother iño, or mother, his sister and brother ukuka and ukuñuka.
Languages are typically passed down through families, but Amadeo broke his apart decades before he realized what the consequences would be for his culture and its place in history. He still has five children, dotted across the Americas. But after his wife left him in the 1980s, he put them into an orphanage when they were still young, thinking it was safer than a life in which children were abducted by traffickers or lost to war. None of them lived with him after that. They never learned his language.
“For those languages that are in this critical situation, many times it seems their fate is already sealed — that’s to say, it’s hard to ever recover a language at this stage,” said Agustín Panizo, a government linguist trying to document Taushiro. “Amadeo García, he wants Taushiro to come back. He wants it, he dreams of it, he longs for it, and he suffers to know that he’s the last speaker.”
Now Amadeo lives alone in a clapboard house behind the town’s water tower, spending many of his final days drinking. Desperate to speak and hear whatever Taushiro he can, he sits alone on his porch in the morning, reciting the only literature ever written in the language — verses of the Bible translated into Taushiro by missionaries who sought to convert the tribe years ago.
Ine aconahive ite chi yi tua tieya ana na’que I’yo lo’, he read aloud one morning. It was the story of Lot from the Book of Genesis. Lot and his family become the sole survivors of their city when God destroys Sodom and Gomorrah. Lot loses his wife when she looks back at the destruction, against the instructions of God.
Amadeo lives alongside the people of Intuto, but not with them, often passing them in a quiet stupor. Mario Tapuy, 74, who met Amadeo as a child when he lived in the forest, said he had tried many times to draw Amadeo out of the bar to teach others the language.
Mr. Tapuy, who speaks his own indigenous language, Kichwa, said he had realized years ago that the future of Taushiro would come to down to Amadeo, regardless of whether he wanted the responsibility.
“I told him many times,” Mr. Tapuy said. “He listens, but it doesn’t record in his brain.”
I had arrived in Intuto with a linguist named Juanita Pérez Ríos, who had known Amadeo for years and introduced me to him that day. In the evening, Amadeo wanted to speak to his son Daniel, who lives in Lima, the capital, and Ms. Pérez lent him her phone. It had been many months since the father and son had spoken.
“I fell on my knees in the jungle,” said Amadeo. “I’m limping a little.”
“You need to be careful,” said Daniel.
The two spoke in Spanish, which was sometimes difficult for Amadeo.
“My brothers told me you’ve been getting a little drunk,” Daniel chided him. “You need to stop that now.”
Then a pause.
“I love you a lot, understand?” said Daniel. The phone clicked.
Amadeo sat in his home for a few minutes, looking into the night as the sounds of the forest grew louder. Families could be heard in the distance, cooking dinner.
“They say they love me, but they never come,” he said.
qui l'intero articolo 

venerdì 29 dicembre 2017

Capovolgere i modi di pensare e di fare - intervista di Pierre Thiesset a Serge Latouche


Un giornalista ecologista molto noto ha scritto di recente: “La mondializzazione, quali che siano le condizioni nelle quali si è realizzata, permette ugualmente una espansione dell’immaginario”(1). Voi, al contrario, non cessate di insistere sul livellamento che la mondializzazione comporta, la distruzione di intere culture, la sparizione di lingue, di modi di vivere… Potreste descrivere ancora una volta questa analisi, che svolge un ruolo centrale nella vostra opera, e spiegare ai nostri lettori il carattere fondamentalmente etnocida dello sviluppo?
Dobbiamo metterci d’accordo su che cosa ognuno di noi mette dietro a ogni parola. Poiché dopo la caduta del muro di Berlino che segna la fine del secondo mondo (e dunque di conseguenza anche del terzo mondo), si è descritta la mondializzazione solo come l’avvento del trionfo planetario della società di mercato, la completa mercificazione del mondo, mentre la mondializzazione dei mercati esiste quantomeno a partire dal 1492, quando gli amerindi pieni di meraviglia hanno scoperto un certo Cristoforo Colombo. Questa “globalizzazione” del mercato segna il momento in cui si passa da una società con un mercato a una società di mercato. Da quel momento l’economia ha completamente fagocitato il sociale, o quasi, e quindi anche la cultura. In questo senso, la mondializzazione è una opportunità soltanto per le imprese multinazionali e per i loro servitori. L’immaginario che l’accompagna non è altro che quello della religione dell’economia (soprattutto di quella ultra-liberista) e della tecnoscienza e non invece il meticciato delle culture. Si tratta quindi piuttosto del compimento della occidentalizzazione del mondo.
L’etnocidio oggi non tocca più soltanto i paesi del Sud come ai tempi della colonizzazione, dell’imperialismo e dello sviluppo, è diventato planetario. Secondo le parole del filosofo Slavoj Žižek, noi tutti siamo degli indigeni nella evoluzione di un capitalismo planetario. Se diamo uno sguardo all’indietro, questa mondializzazione è una evoluzione che segue l’era dello sviluppo, che a sua volta era il seguito di quella della colonizzazione. È necessario comprendere in modo approfondito che in tutte le civilizzazioni, prima dei contatti con l’Occidente, il concetto di sviluppo era completamente assente. In numerose società africane, lo stesso nome dello sviluppo non ha alcuna traduzione nelle lingue locali. E così, in Wolof, si è cercato di trovare l’equivalente del concetto di sviluppo in una parola che significa “la voce del capo” I camerunesi di lingua Eton sono ancora più espliciti, essi parlano del “sogno del bianco”. E gli esempi si potrebbero moltiplicare(2).
Certo, oggi in Africa, lo sviluppo è diventato qualcosa di familiare, la stessa parola è diventata sacra. È un feticcio dove cadono in trappola tutti i desideri. “Fare lo sviluppo”, significa “guadagnare dei progetti” o “diventare un Bianco”, è il rimedio miracoloso per tutti i mali, ivi compresa la stregoneria. “Ci si procura dei feticci, nota l’antropologo Pierre-Joseph Laurent, per proteggere il proprio capitale: è una specie di “stregoneria di accumulazione”(3). “Lo sviluppo, fa notare inoltre, è un concetto, apparentemente strano, attraverso il quale tutto diventa possibile, tra anziani e giovanissimi, tra chi aiuta e gli aiutati”. L’opportunità dello sviluppo – io direi la sua longevità – risiede nella sua pluralità semantica. Essa conduce, attraverso la modalità del non detto o della sua non esplicitazione, a dei compromessi che talvolta sono sorprendenti. E così, nel suo nome, i mussulmani di Kulkinka hanno allevato dei maiali. Nulla è vietato se ciò porta lo sviluppo(4)!. Come si può vedere, l’occidentalizzazione dello spirito non si realizza senza porre dei problemi.
Questa mancanza delle parole per indicarlo costituiscono un segnale, ma che non sarebbe da solo sufficiente a dimostrare l’assenza di qualunque visione sviluppista. Soltanto, i valori sui quali poggiano lo sviluppo e soprattutto il progresso, non corrispondono minimamente a delle aspirazioni universali profonde. Questi valori sono legati alla storia dell’Occidente, essi non hanno con ogni probabilità alcun senso per le altre società. Per quel che riguarda l’Africa nera, gli antropologi hanno sottolineato che la percezione del tempo è caratterizzata da un netto orientamento verso il passato. Così, i Sra del Ciad ritengono che ciò che si trova dietro ai loro occhi e che essi non possono vedere, è l’avvenire, mentre il passato si trova davanti perché è ben conosciuto. Sembra che tutto ciò sia molto diffuso e non sia vero soltanto in Africa; ma, per non uscire dal tema, questa rappresentazione non facilita la comprensione di una nozione come il progresso che invece svolge un ruolo essenziale per l’immaginario dello sviluppo. A tutto ciò si deve aggiungere la mancanza diffusa della credenza nel controllo sulla natura nelle società animiste. Se il pitone è un mio avo, come credono gli Ashanti, a meno che non lo sia il coccodrillo, come per i Bakongo, è molto difficile fare delle cinture o dei portafogli con le loro pelli. Se le foreste sono sacre come si farà a sfruttarle in modo razionale? In Africa ci si scontra, ancora oggi, con questo tipo di ostacoli allo sviluppo.
Non è privo di interesse notare che si ritrova in queste visioni africane una aspirazione verso il buen vivir, un vivere bene dei popoli amerindi che di recente ha dato luogo a delle rivendicazioni molto vivaci alternative allo sviluppo.“In Bolivia, si utilizza il termine aymara suma quamana, e in Ecuador la parola in lingua kichwa sumak kawsay, e ambedue significano “vivere bene”, “vivere pienamente”, che vogliono dire “vivere in armonia e in equilibrio con i cicli della Madre Terra, del cosmo, della vita e di tutte le forme di esistenza”, secondo F. Huanacuni Mamani. Noi possiamo aggiungere che il termine aymara implica una convivialità necessaria per poter vivere in armonia con tutti, e ciò porta a condividere piuttosto che a entrare in competizione con tutti gli altri. Questi due concetti sono diversi dalla nozione del “vivere meglio” occidentale, che è sinonimo di individualismo, di disinteresse per gli altri, di ricerca di un profitto, da cui deriva la necessità di sfruttare gli esseri umani e la natura(5) . Anche nell’America del Nord si trova ugualmente, presso un certo numero di gruppi amerindi, questa nozione del “ben vivere”, in particolare presso i Cree(6). Sarebbe un controsenso trasformare tutto ciò in un nuovo modello di sviluppo, sia pure di uno “Sviluppo Indigenista” come lo chiamano alcuni, fondato su una concezione biocentrica.
Anche nell’India braminica, secondo l’analisi di Louis Dumont, se i valori che si avvicinano allo sviluppo economico esistono certamente, essi fanno parte dell’Artha, cioè di una sfera di attività inferiore. I comportamenti coinvolti nello sviluppo sono in larga misura contrari alla sfera che più viene ritenuta valida, quella del Dharma (il dovere)(7). Nella visione Brahmanica, il compito dell’uomo secondo Madeleine Biardo “è unicamente quello di mantenere ciò che esiste con una attività in primo luogo rituale”. Tutte le altre attività metterebbero in pericolo l’ordine cosmico(8).
Al di fuori dei miti che costituiscono la base alla pretesa di controllare la natura e alla fede nel progresso, l’idea di sviluppo è completamente priva di senso e le pratiche che ad esso sono legate sono assolutamente impossibili in quanto sono inconcepibili o addirittura vietate. L’universalizzazione dell’Uomo Economico significa la distruzione delle culture e il trionfo della lotta di tutti contro tutti, vale a dire una forma di regressione a una mitica legge della giungla, quella nella quale l’uomo diventa un lupo per l’uomo stesso.
Nella recente riedizione del vostro lavoro Il pianeta dei naufraghi (uscito inizialmente nel 1991), voi perdete le speranze che avevate espresso trent’anni fa riguardo all’economia informale: voi constatate che la resistenza alla modernizzazione non cessa di rifluire e che la “colonizzazione degli immaginari”, termine che vi è caro, diventa generale. Il mercato della megamacchina è implacabile? Potrebbe ritornare su questa nozione di “megamacchina”, questa organizzazione sociale nella quale l’umano si trova subordinato alla tecnica e all’economia? In quale modo, in questi ultimi anni, il potere del mercato e delle macchine sulle nostre vite si è ulteriormente intensificato, in particolare attraverso le protesi numeriche che si mescolano sempre di più nelle nostre relazioni sociali e riescono perfino a modificare la nostra interiorità?
Lewis Mumford, ne Il mito della macchina, ci ha insegnato che la macchina più straordinaria inventata e costruita dall’uomo è proprio l’organizzazione sociale. La falange macedone, l’organizzazione dell’Egitto dei faraoni, la burocrazia celeste dell’Impero Ming sono delle “macchine” di cui la storia ha riconosciuto l’incredibile potenza. L’impero di Alessandro ha stravolto in modo duraturo i destini del mondo, le piramidi dell’Egitto meravigliano ancora l’uomo del ventesimo secolo e la Grande Muraglia cinese resta ancora oggi la sola costruzione umana visibile dalla luna. In queste organizzazioni di massa, che combinano la forza militare, l’efficienza economica, l’autorità religiosa, le soluzioni tecnologiche e il potere politico, l’uomo diventa un ingranaggio dentro un meccanismo complesso che consegue un potere quasi assoluto: una Megamacchina. Le macchine semplici o sofisticate partecipano al funzionamento dell’insieme e ne costituiscono il modello.
Tempi moderni, dei quali Chaplin ci ha dato un’indimenticabile descrizione cinematografica, hanno indubbiamente costituito una tappa in questo processo di aumento di potenza. Walter Rathenau, nella Germania di Weimar, parlava intelligentemente di una “meccanizzazione del mondo”. Ure, nella Filosofia delle manifatture, citato da Marx e da Mumford, parla della fabbrica della grande industria come del “grande automa”. L’essenziale consiste nella “distribuzione delle differenti membra del sistema in un corpo collaborativo, che fa funzionare ciascun organo con la delicatezza e la rapidità desiderate, e all’interno si infiltra nella istruzione degli esseri umani per far loro rinunciare alle loro abitudini sconnesse di lavorare e farli invece identificare nella regolarità invariabile di un automa”(9). Nel periodo tra le due guerre il mondo affascinato o terrorizzato ha così visto nascere l’impresa fordista con la catena di montaggio, la macchina da guerra e da sterminio del regime nazista, il socialismo burocratico che combinava, secondo la formula di Lenin, i soviet e l’elettrificazione. All’interno di queste Megamacchine, l’individuo non è più una persona, e meno ancora un cittadino, è semplicemente un ingranaggio.
Se queste tre Megamacchine sono crollate come dei colossi con i piedi di argilla, i meccanismi più sofisticati del mercato mondiale hanno costruito accuratamente sotto i nostri occhi i differenti ingranaggi di una nuova Megamacchina dalle dimensioni planetarie: la macchina-universo. Sotto il segno della mano invisibile, tecniche sociali e politiche (dalla persuasione clandestina della pubblicità alla violazione delle folle della propaganda, grazie alle autostrade dell’informazione e ai satelliti delle telecomunicazioni…) tecniche economiche e produttive (dal toyotismo alla robotica, dalle biotecnologie all’informatica) si scambiano, si fondono, si integrano, si articolano in una vasta rete mondiale creata da imprese transnazionali gigantesche (gruppi multimediali, trust agroalimentari, conglomerati industriali-finanziari di ogni settore) sottomettono ai loro servizi Stati, partiti, sette, sindacati, organizzazioni non governative, ecc.
L’impero e il controllo della razionalità tecnoscientifica ed economica, della quale il potere e il controllo delle espressioni numeriche informatiche sono oggi l’aspetto più spettacolare, danno alla Megamacchina contemporanea una ampiezza inedita e poco usuale nella storia degli uomini. Stiamo assistendo a una reale mutazione antropologica.
Dobbiamo rilevare che tutti i progetti attuali, per guardare ancora più lontano, della cibernanthropia (mescolanza di uomo e di macchina) o del miglioramento biogenetico, non tendono a “migliorare” la specie, e nemmeno i felici beneficiari di queste tecniche in direzione della giustizia, dell’altruismo e nemmeno della capacità di essere felici (attraverso l’inserimento di geni specifici, o lo scambio di embrioni adeguati) ma soltanto ad accrescere le sue capacità di funzionamento, cioè la sua aggressività. E da questo punto di vista, Ellul è stato veramente “l’uomo che aveva (quasi) tutto previsto”.
“Non c’è alcuna misura comune – scriveva nel 1983 – tra la proclamazione dei valori (giustizia, libertà, ecc.) e l’orientamento dello sviluppo tecnologico. Quelli che sono gli specialisti dei valori (teologi, filosofi, ecc.) non hanno alcuna influenza sugli specialisti delle tecnologie e non possono ad esempio chiedere che si vieti questa ricerca o quel mezzo esistente in nome di un valore. (…) Non ci si chiede quale tipo di uomo si vuole creare. E quando una tale domanda viene formulata sembra evidente che siano gli scienziati o i tecnici a dover decidere che tipo di uomo si vuole creare”.(10)
È ormai l’umanità stessa dell’uomo che è minacciata dai progetti di transumanesimo. E inoltre, non è la società stessa che intende realizzarli che è ancora più minacciata?

I grandi movimenti migratori attuali sono anch’essi degli indicatori di questa distruzione delle capacità di sussistenza autonoma, dei modi di vita non integrati nella megamacchina? Lo sradicamento e la deculturazione non diventano l’aspetto comune di tutta l’umanità, quando i nostri stessi desideri sono costretti ad assumere la forma imposta dallo sviluppo egemonico?
La risposta si trova nelle spiegazioni date alle altre domande.
Ne L’ Epoca dei limiti, voi scrivete che la decomposizione del tessuto politico comporterebbe per reazione delle risposte identitarie e delle nuove feudalità. Quali osservazioni, dal punto di vista della decrescita, potete fare sui conflitti identitari attuali e sull’aumento delle tentazioni secessioniste? Di che cosa essi sono i sintomi?
Nell’ultimo messaggio spedito a sua madre l’11 marzo 2015, Foued Mohamed-Aggad che si sarebbe fatto esplodere due giorni più tardi, dopo la carneficina del Bataclan, scriveva: “Questa dounia (questo mondo materiale) è effimero, tutto è effimero, ingannevole”(11). Il tema dell’illusione del mondo, del Faichè Welt, del mondo illusorio, è certamente uno dei temi, dei luoghi comuni, più utilizzati dai religiosi, dai saggi o i poeti che hanno vissuto di più. Ma, che sia un giovane di vent’anni che lo prende alla lettera è rivelatore del “nichilismo della realtà” tanto sottolineato da Jean Baudrillard ai suoi tempi. Stigmatizzare questo giovane francese di debolezza come hanno fatto certi media è un modo abusivo di rifiutare di affrontare la realtà.
Il sacrificio di questi ragazzi deviati che avrebbero potuto dire come Paul Nizan: “Avevo vent’anni e non permetterò a nessuno di dire che è l’età più bella della vita”,dovrebbe suscitare in noi delle domande riguardo all’orrore del massacro dei loro coetanei. Per comprendere l’emergenza del terrorismo e la potenza della seduzione che Daesh ha potuto esercitare su dei giovani frustrati e senza punti di riferimento, non necessariamente di origine magrebina, attraverso i metodi di propaganda dei djihadisti sul modello dei videogiochi e la loro perfetta padronanza di tutti i metodi hollywoodiani, è importante capire che si tratta innanzitutto di una reazione alla perdita di senso generata dalla società della crescita. Il processo di radicalizzazione, come si dice oggi, non ha molto a che vedere con l’islam autentico, ma molto con il fascino del carattere distraente della guerra.
Ciò che noi chiamiamo il terrorismo è, in realtà, un controterrorismo di risposta al totalitarismo del mercato e al terrorismo dell’imperialismo culturale occidentale che Jean Baudrillard definiva anche come “il fondamentalismo terrorista di questa nuova religione sacrificale della prestazione(13)”. Si tratta in realtà di una reazione all’occidentalizzazione del mondo. Questa analisi si contrappone frontalmente alle due analisi statunitensi più diffuse dai media dopo il il 1989, quella de “La fine della storia” di Francis Fukuyama e quella de “La Guerra delle civilizzazioni” di Samuel Huntington.
La mondializzazione che rappresenta il compimento relativo di un’epoca è tutto tranne che felice; si tratta piuttosto di una “immondializzazione”, cioè di una globalizzazione immonda. E se la storia sembra conclusa e che una fase sia terminata, la successione degli avvenimenti che ha fatto seguito alla caduta del muro di Berlino non ha nulla di definitivo e ancor meno di auspicabile. Il “terrorismo islamico” non è da questo punto di vista l’ultimo soprassalto di un mondo che avrebbe trovato il suo giudizio finale con lo sposalizio tra la democrazia e il mercato… È chiaro che ciò che è terminato è un certo regime di storicità, mentre ciò che si apre è una avventura indecifrabile e, per noi, letteralmente insensata.
Quanto alle guerre di civiltà, si tratta di un vecchio fantasma occidentale riciclato che cerca di diventare una profezia autorealizzantesi. È il fantasma liberista, quello della indifferenza verso i suoi stessi valori e proprio per questo di una intolleranza totale verso coloro che sono diversi per una qualunque passione. E non è l’elezione di Donald Trump che lo smentirà… Si deve anche aggiungere che lo sterminio universale non è meno insopportabile quando si manifesta sotto la sua forma “di sinistra” della compassione paternalista o nella sua forma etno-nazionalista neo-conservatrice.
Anche se sarebbe un abuso il vedere nel terrorismo anti-occidentale un nuovo “soggetto della storia”, esso rappresenta in qualche modo “La rivincita del popolo dello specchio”, per riprendere il titolo di un racconto famoso di Jorge Luis Borges. In quel testo, i vinti dell’impero sono condannati a restare dall’altra parte dello specchio e a riflettere i gesti dei loro dominatori. Ma
“un giorno forse, dice il testo di Borges, essi ( le genti dello specchio) si scuoteranno da questo letargo magico. Le forme cominceranno a risvegliarsi. Essi diventeranno poco a poco diversi da noi, e ci imiteranno sempre meno. Essi spaccheranno le barriere di vetro e di metallo e questa volta non saranno vinti”.
Ciò che si vede meno, è che questa egemonia, questa presa del potere di un ordine mondiale di cui i modelli – non solamente tecnici e militari, ma culturali e ideologici – sembrano irresistibili, si accompagna a una recessione straordinaria attraverso la quale questa potenza è lentamente minata, rosicchiata, cannibalizzata, da coloro che ne sono le vittime.
Voi l’avevate già annunciato, con la crisi dell’occidente suona l’ora della verità: una fuga in avanti che rischia di essere sempre più violenta o la strada verso la decrescita. Ora, malgrado il fatto che la ricerca sfrenata della crescita lascia dei naufraghi e che essa devasta il nostro ambiente (la catastrofe ecologica è abbondantemente documentata, escono continuamente dei rapporti sull’estinzione di massa delle specie, la desertificazione di interi territori, ecc.) la decrescita sembra sempre una eresia, la corsa non si arresta, e la “pedagogia delle catastrofi” non si realizza. Siamo diventati incapaci sia pure soltanto di immaginare una qualunque forma di società diversa, non strutturata intorno all’imperativo della crescita?
Non si può dire che la pedagogia delle catastrofi non si è realizzata. Le disfunzioni ineluttabili della megamacchina, le contraddizioni, le crisi, i rischi tecnologici principali, i bloccaggi, sono fonti di sofferenze insopportabili e sono delle disgrazie che si possono soltanto deplorare. Tuttavia, sono anche delle occasioni di presa di coscienza, di rifiuto, anche di rivolta. Certamente gli esempi di catastrofi che non determinano alcun cambiamento o peggio che provocano dei ripiegamenti che possono dar luogo a delle reazioni di tipo “fascista” non mancano. L’elezione del presidente Trump ne costituisce un buon esempio… Tuttavia, vi sono anche numerosi esempi in senso contrario. Richiamiamo qui un caso tra gli altri, nel dicembre 1952, lo smog di Londra aveva ucciso 4.000 persone in cinque giorni! Ma ciò provocò una reazione tale che portò ad approvare la legge sull’aria pulita del 1956. La storia della mucca pazza è nello stesso tempo una buona testimonianza della follia degli uomini e un segnale forte che ha determinato dei cambiamenti nelle maniere di alimentarsi. Tutto ciò peraltro non è sufficiente a provocare la grande rottura auspicata dal movimento per la decrescita. Ricordiamoci che malgrado tutto la preoccupante canicola dell’estate 2003 ha fatto molto più di tutti gli argomenti da noi presentati per far comprendere la voce della decrescita e per convincere almeno una minoranza della necessità di orientarsi verso una società dell’abbondanza frugale o della prosperità senza crescita.
Inoltre, non manchiamo di immaginazione per proporre delle alternative alla civilizzazione capitalista occidentale, ma per realizzare a livello delle masse lo scatto sufficiente per rompere con la tossicodipendenza del consumismo e per procedere alla necessaria decolonizzazione dell’immaginario, non si può certo contare solo sulla pedagogia delle catastrofi. Il vero problema, come sottolinea Jean Pierre Dupuy, è che
“noi non riusciamo a dare un peso di realtà sufficiente all’avvenire che si prospetta, e, in particolare, all’avvenire catastrofico”(14). La catastrofe, scrive ancora, ha questo di terribile che non si crede solamente che essa si produrrà quando anche si hanno tutti i motivi per sapere che essa si produrrà, ma che una volta che essa si è realizzata essa sembrerà far parte dell’ordine normale delle cose. La sua realtà stessa la rende banale. Essa non era stata giudicata possibile prima che si realizzasse; ma eccola integrata senza alcuna forma di processo nel “mobilio ontologico” del mondo, per usare il gergo dei filosofi. (…) È questa metafisica spontanea dei tempi delle catastrofi che costituisce l’ostacolo maggiore alla definizione di una prudenza adeguata ai tempi attuali.
In altri termini, conclude, ciò che rappresenta qualche possibilità di salvarci è ciò stesso che ci minaccia. Io credo che questa sia l’interpretazione più profonda di ciò che Hans Jonas chiama “l’euristica della paura”(16). “Sarebbe meglio – scrive Jonas – ascoltare la profezia della disgrazia piuttosto che quella della felicità”(17). Tutto ciò, non per un gusto masochista dell’apocalisse, ma proprio per scongiurarla. La politica dello struzzo è in ogni caso una forma di ottimismo suicida. E inoltre, non si ha alcuna certezza che ciò funzionerà nei tempi previsti. Tuttavia, non si ha nulla da perdere a fare il tentativo.
Tutte le saggezze, le filosofie, le religioni insistevano sulla virtù della temperanza e sulla necessità dell’autolimitazione. E tuttavia, la decrescita sembra oggi come una provocazione finale, mentre la trasgressione è proclamata essere la norma. Come spiegare questo immenso sconvolgimento, la perdita del senso della misura? Dobbiamo ritornare nelle biblioteche per riannodare una visione del mondo e una concezione dell’esistenza in contrapposizione alla volontà di potenza distruttrice che divora le nostre società? La decrescita, è prima di tutto una questione di senso, per rimettere in gioco i valori sui quali si basa l’Occidente moderno, “capovolgere i nostri modi di pensare”?
La decrescita implica certamente di “capovolgere i nostri modi di pensare”, ma comporta certamente delle nostre modalità di fare. Per cambiare i nostri comportamenti e a livello collettivo, cambiare il sistema, cambiare il paradigma e anche la civilizzazione, in breve per uscire dalla società della crescita, è necessario decolonizzare (vale a dire soprattutto de-economicizzare) i nostri immaginari. Per fare questo, si deve dapprima comprendere come tutto ciò è stato colonizzato, e quindi fare una “metanoia”, un percorso inverso di tutto il pensiero. Come le saggezze, le filosofie, le religioni, come voi dite, che insistevano sulla virtù della temperanza e sulla necessità dell’autolimitazione, sono state abbandonate, rifiutate, tradite. È una lunga storia. Ciascuna delle tappe che hanno portato alla società globalizzata del mercato contemporaneo è stata accompagnata da cambiamenti importanti nei differenti ordini: tecnico, culturale, politico. L’invenzione della contabilità a partita doppia e della banca, degli ordini mendicanti e delle spinte eretiche, dell’autogoverno delle piccole repubbliche italiane e fiamminghe, per la prima fase del capitalismo mercantile in una Europa cristiana e feudale.
La riforma, il capovolgimento etico di Bernard de Mandeville e il cambiamento dell’egemonia culturale con il trionfo dei Lumi e della modernità grazie alle rivoluzioni politiche delle borghesie nazionali, quando è emersa la società termo-industriale, caratterizzata dalla scelta del fuoco e l’utilizzazione delle energie fossili. La rivoluzione numerica e l’installazione del virtuale, la controrivoluzione neoliberista, sono tutte cose che hanno fatto sparire le ultime barriere contro l’illimitato e la dismisura, con l’emergere contemporaneo dell’impero mondiale del mercato.
Liberarsi dalla cappa di piombo dell’ideologia così dominante, quando l’enorme macchina mediatica si sforza di decerebrarci, non è certo una cosa da poco. Per fortuna, noi abbiamo due emisferi nel cervello e la parte sinistra resiste sempre… E può risvegliarsi in qualunque momento. Ogni speranza non è quindi perduta ed è opportuno gioire serenamente del miracolo di essere ancora semplicemente vivi.

Articolo apparso su La decroissance, tradotto da Alberto Castagnola per Comune.
Altri articoli di Latouche sono leggibili qui.

Note...

giovedì 28 dicembre 2017

L’arcipelago dei commons - Intervista di Gianluca Carmosino a Massimo De Angelis


In ogni angolo del mondo emergono pratiche che aprono spazi di imprevedibilità: nuove forme di aggregazione politica rifiutano, in modi differenti, il dogma del profitto, sottraggono al mercato tempo, relazioni e saperi, per porre le fondamenta di un autentico e variegato movimento. È quello che alcuni chiamano arcipelago dei commons, a cui Massimo De Angelis ha dedicato il suo ultimo libro, Omnia sunt communia (2017), pubblicato in diversi paesi. Secondo Peter Linebaugh, uno dei più autorevoli storici dei beni comuni, si tratta di un testo “profondo e sorprendente” che ha imposto De Angelis “come una voce importante nella discussione mondiale sui commons”. Di seguito, una conversazione con Massimo De Angelis, apparsa nel 15° Rapporto sui Diritti globali “Apocalisse umanitaria” (Ediesse).

Omnia sunt communia, cioè “tutti i beni in comune”, è un’espressione biblica che oltre a descrivere una pratica di vita degli oppressi nel periodo dell’Impero Romano, è anche lo slogan della rivolta contadina dell’Europa centrale del XVI° secolo, ed è ora il titolo del tuo ultimo libro. L’intento della tua ricerca, nella quale racconti ad esempio la lotta dell’acqua di Cochabamba, le cliniche sanitarie auto-organizzate in Grecia, movimenti come Occupy e 15M, è di mostrare l’emersione di un universo di nuove e differenti forze sociali che tentano di cambiare il mondo in profondità?
Si certo, anche questo, ma non solo. I movimenti che ho descritto sono solo la punta di un iceberg di questo processo sociale della produzione dei commons che ha radici profonde nella storia e in tutte le culture, e che sopravvive anche oggi nella vita quotidiana di miliardi di persone, nonostante la ferocia del capitale neoliberale. La novità di oggi non è nell’emersione di questi movimenti, che comunque mostrano caratteristiche innovative rispetto al contesto dove si trovano, ma nel fatto che siamo in grado di ragionare su questa grande varietà di movimenti a livello mondiale e trarne ciò che hanno in comune nonostante le loro forme diverse. Il mio libro ha quindi lo scopo da una parte di riconoscere la diversità di queste forme del fare in comune nonostante la loro opacità dietro lo spettacolo mediatico, e dall’altra la ricchezza e la forza sociale che riusciremmo a mettere in campo se queste realtà riuscissero a coordinarsi sempre di più, ad aprire una realtà ricompositiva e rivendicativa. Ciò avviene quando i commons, generalmente immersi nella loro quotidianità, si trasformano in movimenti dei commons.
Viviamo immersi in un sistema che impone relazioni sociali fondate sull’ansia di accumulare, cioè sul dominio e sul profitto. Quell’ansia ha, tra le sue molte conseguenze, quella di occultare i diversi modi di vivere diffusi, nonostante tutto, ovunque e da tempo. Ha senso tentare di riconoscerli cominciando da quelle che tessono, giorno dopo giorno, nuove esperienze comunitarie in spazi periferici poco visibili, cioè nei quartieri delle metropoli europee o nordamericane come nei deserti africani e negli altipiani asiatici o andini?
Il senso del riconoscere queste realtà di riproduzione della vita oltre il capitale, è quello di cercare i presupposti sociali per andare oltre il capitalismo. Queste realtà ci sembrano spesso piccole e insignificanti rispetto alle mastodontiche e spesso deliranti costruzioni del lavoro asservito al capitale. Ma se si guarda attentamente la cosa, questo è solo un problema di diffusione e di scala, e la diffusione e la scala è una questione evolutiva e politica. La prima è molto semplice, ed è che essa dipende dalle forze sociali che queste realtà riescono a costruire nel tempo e dal loro rapporto con il sistema stato e il sistema capitale. Non siamo in grado di predire questa evoluzione. Gli scienziati che guardano ai possibili scenari del futuro riconoscono la possibilità che ci sia un evoluzione verso una società fatta di zone autosufficienti collegate tra loro, con una possibile ma non inevitabile amministrazione o coordinamento centrale fondamentalmente molto più democratica di quella che sia oggi, dove i grossi problemi di oggi sono se non risolti, almeno in via di risoluzione. Tuttavia questa “ecotopia” è solo una delle possibilità. Gli altri scenari sono molto più inquietanti. Uno è un capitalismo che continua imperterrito il suo istinto all’accumulazione senza limiti, sfondando di gran lunga il limite ecologico, e dando vita a un mondo di muri sempre più alti e spessi tra i molto pochi che hanno tanto e la stragrande maggioranza che ne soffrono le conseguenze. Un altro e la visione di un sempre più potente e sempre meno democratico governo che gestisce l’economia capitalista al limite della capacità ecologica del pianeta. Io non credo che questo modello né sia possibile né sia desiderabile, e credo quindi che l’unica alternativa al primo modello sia la povertà di massa e la rovina del pianeta. Lo scienziato Steve Hawking d’altra parte ha predetto che in duecento anni il pianeta sarà abbandonato in rovina, e non credo che dieci miliardi di persone riusciranno tutte a trovare rifugio.
Dunque noi oggi abbiamo una grande questione politica di fronte. Questa ha due aspetti fondamentali. In primo luogo, il valore di queste attività e modi di produrre alternative è che esse ci permettono di sottrarre parte della nostra riproduzione alla gestione del capitale, e quindi a deciderne i contenuti e le forme. Per esempio, un’economia solidale del grano e della farina, ci permette di valorizzare tipi di grani antichi a basso contenuto di glutine, politicizzare il prezzo del pane, mettere in questione i metodi di panificazione, costruire forme collettive eque di produzione e distribuzione, porre la questione ecologica al centro del nostro fare in comune, e perfino distribuire il lavoro. Questa sottrazione contribuisce a liberare il nostro tempo dai ritmi e i valori del capitale, e aumenta il nostro grado di autonomia dai suoi ricatti. Non diventiamo quindi più liberi di produrre ciò che vogliamo nei modi che vogliamo, ma anche un po’ più risilienti nella nostra riproduzione, cioè in grado di meglio contrastare le crisi che ci vengono imposte dal sistemo economico dominato dal capitale. Il secondo aspetto del problema politico è quello affermativo. È chiaro che la diffusione e la scala dei commons deve aumentare per far fronte alle grandi sfide del presente, e qui importante cominciare a pensare un percorso ricompositivo di queste realtà che ne aumenti la forza rivendicativa e che riesca a comunicarne il valore propositivo ad altri settori della moltitudine. Un esempio nel presente è la pressione fiscale sulle famiglie e le comunità che si autorganizzano per la loro riproduzione, che dovrebbero vedere una drastica diminuzione di tasse sui pochi redditi che riescono ad accedere o sull’iva pagata per le merci che devono comunque acquistare per la loro riproduzione. Un altro esempio è l’accesso a terre o edifici in disuso spesso per fini speculativi o di semplice abbandono o demaniali, che varie comunità potrebbero usare per aumentare la diffusione dell’economia solidale e dei commons. Un altro esempio è la domanda crescente alla riterritorializzazione dei processi di riproduzione, a partire dal cibo a Km Zero all’interno di economie solidali, ma anche la sanità, l’educazione e la cultura. Infine, un altro esempio, è un reddito sociale che permette a tutti una minima sussistenza, e quindi un po’ di respiro non solo per sopravvivere all’interno del capitalismo, ma anche per poter meglio affrontare la transizione verso forme di vita e di riproduzione diversa insieme ad altri. Infatti, la domanda per un reddito sociale, non può darsi solo allo scopo di finalità assistenziali all’interno di un modello produttivista capitalistico. La nostra battaglia è una battaglia sui valori del fare in comune e quindi delle modalità dello stare insieme agli altri e dagli obiettivi che ci poniamo collettivamente. Un reddito sociale deve essere visto come uno strumento tra tanti per la trasformazione del presente verso un altro modo di produrre e riprodurre le nostre vite.
Quali altre esperienze importanti, a proposito di “buone pratiche dal basso” sui beni comuni, racconti nel libro?
Ho lavorato attivamente sul mio libro per dieci anni, ma ho cominciato molti anni prima ad essere incuriosito, sorpreso ed entusiasmato da forme alternative di produzione e riproduzione. Il mio primo incontro con spazi autogestiti è stato durante gli anni settanta quando da adolescente studiavo e lottavo insieme ad altri studenti e lavoratori. Aule studenti e scuole occupate, manifestazioni in piazza, i racconti delle femministe sulle cliniche gestite da donne, centri sociali, radio libere. Tutta questa esplosione di libertà collettiva, è entrata nel mio Dna proprio quando aprivo gli occhi sul mondo e diventavo uomo. Dopo molti anni, il mio incontro con gli zapatisti nel primo encuentro per l’umanità e contro il neoliberismo, ha rotto il torpore degli anni del riflusso, che in effetti non c’è mai stato nel sud del mondo, e ha ravvivato in me la speranza che un mondo radicalmente migliore sia non solo necessario ma anche possibile. Nel mio libro accenno solo a queste esperienze. Oltre a quelle che hai accennato, nel mio libro parlo delle forme di riappropriazione dell’acqua che ho avuto modo di osservare all’interno del grande movimento contro le privatizzazioni dell’acqua ed energia in Sud Africa agli inizi del XXI secolo. Sulle Ande, sono rimasto colpito dalla pratica chiamata Minga, attraverso la quale comunità indigene si trovano insieme per affrontare in maniera conviviale la costruzione di case, per il lavori agricoli, o per la costruzione di scuole ed altri edifici per la collettività, per gestire un acquedotto autoprodotto. Come mi è stato spesso spiegato, in ogni Minga si lavora insieme, dai più anziani ai più giovani, uomini e donne, ognuno secondo le proprie capacità, in modo conviviale, e poi si banchetta e si fa festa, da dove ognuno trae ciò che ha bisogno. Nelle Minghe organizzate per fare qualcosa di specifico, si discutono anche altre questioni, che danno il via all’organizzazione di altre Minga e così via. Le Minga sono radicate anche nella nostra cultura occidentale, anche se noi le abbiamo dimenticate. Esse però si trovano ancora nelle economie solidali, nei piccoli centri, nel lavoro di riproduzione necessario per sostenere una lotta, o un centro sociale. Un altro esempio che mi ha colpito nel mio viaggio sulle Ande è stato in Ecuador, quando ho visitato Salinas, una cittadina a 3.500 metri di altezza, nella quale il 98 per cento dei suoi duemila abitanti e molti di più nel suo hinterland rurale fa parte di una cooperativa, e le cooperative sono poi in comunicazione tra loro. C’è una radio, una fabbrica e un laboratorio di tessuti, coltivazione e trasformazione di funghi, di cioccolato, di formaggi, una pensione, una pizzeria e molto altro tutto in cooperativa autogestita, con assemblee di soci che regolarmente discutono le questioni. La cosa più strabiliante è che cinquanta anni fa a Salinas c’era solo un padrone di una miniera di sale, e tutti lavoravano in condizioni miserabili per lui. Nel libro discuto anche degli aspetti problematici di questa esperienza, ma sicuramente si tratta di un caso notevole, soprattutto se si considera da dove sono partiti. Venendo vicino a noi in Italia, uno dei casi che mi ha più colpito è l’esperienza di Campi Aperti a Bologna, che fa parte della rete nazionale di Genuino Clandestino. Quello che mi ha colpito è un triplice sforzo: quello di andare oltre la certificazione biologica ottenuta mediate pagamento e quindi prona alla corruzione e a favorire i produttori più grandi. Con questa esperienza si vuole invece proporre una garanzia partecipata di genuinità dei prodotti, che mette insieme piccoli produttori e consumatori, li riunisce in assemblee per decidere i criteri di chi può partecipare, gli standard dei prodotti e i prezzi. In molti casi, i consumatori possono partecipare nella produzione dei prodotto, come il caso della cooperativa di Arvaia dentro Campi Aperti. Questa è un’esperienza che inizia un cammino di sostenibilità alimentare e sfuma i contorni di chi è produttore e chi è consumatore, una distinzione fondamentale del sistema capitalistico.
Possiamo sostenere che si tratta, prima di tutto, di esperienze in cui gruppi di persone comuni smettono di delegare e scelgono di ribellarsi, cioè non si rassegnano a interpretare la parte delle vittime, e creano un mondo nuovo tra le macerie di quello vecchio?
Assolutamente sì. Anche se non sempre c’è consapevolezza della rebellione nelle persone che iniziano questo percorso. Credo comunque che qualunque commons, inserito com’è in un ambiente entro il quale anche il capitale e lo stato neoliberale operano, prima o poi dovrà fare una scelta, tra la lotta per la loro sopravvivenza e sviluppo o la propria distruzione per mezzo della messa fuori legge, da qualche legge sulla salute pubblica, sulla libertà di scambio dei semi autoprodotti, sull’accesso a terre destinate alle grandi opere, sul divieto a prestare aiuto a migranti residenti sul territorio e così via. E la lotta acquista forza se è preceduta o da adito a un processo ricompositivo di tutti i commons.
Quali sono oggi gli obiettivi principali dei movimenti dei commons? E come tentano di raggiungerli?
Se si guarda bene, in ogni luogo dove c’è un movimento dei commons, c’è un aspetto della riproduzione a porre il terreno ricompositivo. Per esempio così come a Cochabamba fu l’acqua, più recentemente a Barcellona è stata la lotta della casa ad essere un primo passo di una piattaforma più ampia basata sui beni comuni. A Napoli è stata la lotta ambientale mentre nella val di Susa è stata la lotta contro il Tav. Con la lente di ingrandimento, si potrebbe continuare a vedere numerosi fenomeni più piccoli e meno conosciuti che coinvolgono soltanto luoghi particolari. Se si dovesse mettere insieme ciò che sembra emergere da un arcipelago dei commons ci sono tre principali assi entro i quali si modulano gli obiettivi e le aspirazioni dei commons: Riproduzione immediata della vita (cibo, casa, terra, care, salute, educazione e cultura, ambiente); Solidarietà e accoglienza; Giustizia sociale e redistribuzione della ricchezza sociale. Questi tre assi sono ovviamente tra loro collegati: c’è una relazione per esempio tra la questione ambientale (primo asse) e la questione della redistribuzione della ricchezza sociale (terzo asse), o tra la questione della riproduzione di immediata della vita e quella della solidarietà e accoglienza, sebbene questa relazione non è sempre lineare. Il modo nel quale generalmente si tenta di raggiungere questi obiettivi è quello appunto dell’impegno diretto, l’azione diretta. Non hai lavoro o sei stufo di correre la corsa competitiva? Mettiti insieme ad altri, cerca della terra e apri una piccola fattoria sostenibile. Mi va benissimo. In questo modo hai raggiunto alcuni degli obiettivi del primo asse, e puoi anche metterti in gioco nel secondo asse. Il mondo comunque gira indipendentemente da te, e hai intaccato solo minimamente le questioni del terzo asse. Inoltre come gruppo sei ricattabile se non fai esattamente come ti chiede l’Asl o il comune. Parlando con molti micro produttori, risulta sbagliata per esempio quella normativa che richiede a piccolissimi coltivatori e trasformatori alimentari di sottostare alle stesse norme di sicurezza e di igiene di grandi fabbriche. Questa normativa è infatti assurda per i piccoli produttori: perché nel mio micro laboratorio devo avere un bagno, quando il bagno si trova in casa mia nella porta accanto? O perché non posso portare torte fatte in casa alla festa della scuola, ma devo andarle a comprare e mostrare la ricevuta? Queste semplici illustrazioni vogliono dire che l’azione diretta dei singoli commons, è un obiettivo necessario, ma sicuramente non sufficiente per la trasformazione radicale di questo mondo. E qui la mia domanda diventa retorica: riusciranno i commons a creare un percorso ricompositivo e rivendicativo attorno a tutti e tre gli assi, a diventare forza politica, anche se non necessariamente partitica? Io credo che questa ricomposizione su questi tre assi sia necessaria non solo al fine di migliorare le condizioni di vita dei commons e in generale di tutti, ma anche di porre le basi per una questione ancora più grande, quella al centro dei dibattiti televisivi, e perfino incastonata nell’articolo uno della Costituzione, e difesa dalla sinistra e sindacati: la questione del lavoro. Se questa questione si legge dal punto di vista dei commons, cioè un punto di vista in cui la socialità che fa è anche in controllo dei modi del fare, delle sue ragioni e valori, diventa spontaneo chiederci: quale lavoro e per che cosa? Quali sono i ritmi, i salari, e cosa si produce e perché? Per arricchire chi, e a quali costi sociali e ambientali?
Perché i concetti di commons, commonwealth e commoning, nei loro aspetti teorici e soprattutto pratici, possono essere molto utili in questo momento storico?
Io concepisco i commons come sistemi sociali i cui elementi strutturali sono commonwealth – cioe- risorse materiali e immateriali messi in comune – e una pluralità di persone, di commoners, cioè una comunità, che insieme definisce le proprie relazioni al loro interno e nei confronti delle risorse in comune. Il fine ultimo del commons non è il profitto, ma la riproduzione di uno o più aspetti della vita. Questo è fatto attraverso il commoning, cioè il fare in comune (leggi anche Mettiamo in comune di John Holloway), e attraverso il quale non si crea soltanto ricchezza (di cose, idee, culture, affetti e relazioni), ma anche decisioni, regole, confini dei commons e rapporti con altri commons. In quanto sistemi sociali, riconoscere i commons vuol dire riconoscere tre cose. In primo luogo, l’esistenza concreta di alternative, di altri modi di fare basati su altri valori che quelli del capitale. Il riconoscimento di questa esistenza concreta significa rompere con il pensiero unico, il cinismo e il disfattismo, e quindi aprire uno spiraglio di speranza. In secondo luogo, è importante riconoscere che ogni commons, per quanto piccola sia la sua estensione sociale, è una cellula entro la quale delle forze sociali sono mobilitate per obiettivi di riproduzione. Concepire i commons come forze sociali significa aprire un orizzonte entro i quali i commons possono aumentare la loro forza sociale, a porre strategicamente la questione della loro diffusione ed espansione.
In un articolo pubblicato su Comune, dal titolo Crisi, movimenti e commons, tra l’altro, scrivi: “I commons non possono essere ridotti agli stereotipi delle teorie dei commons e non devono adattarsi perfettamente a qualsiasi modello proposto da versioni romantiche o radicali di ciò che costituisce un sistema buono o socialmente giusto”. Perché cercare un modello sarebbe un errore?
Non c’è nessun errore nel cercare un modello, almeno dal punto di vista di una singola soggettività, un individuo, un collettivo, un commons. In questa dimensione noi spesso facilitiamo il nostro lavoro presente applicando un modello che abbiamo ideato e abbiamo preso da altre esperienze, anche se molto spesso noi adattiamo questo modello alle esigenze e condizioni (sociali, politiche o ambientali) del nostro contesto. E nel momento stesso nel quale noi adattiamo il modello esso è stato trasformato, molto spesso in modi che non erano stati anticipati. Inoltre, se guardiamo poi la cosa da un punto di vista evolutivo, di più ampia scala temporale, notiamo che questo adattamento è continuo, e che noi non possiamo anticipare oggi come sarà il futuro, al massimo possiamo delineare qualche scenario. È per questo che “i commons non possono essere ridotti agli stereotipi delle teorie dei commons e non devono adattarsi perfettamente a qualsiasi modello”, perché se facessimo così saremmo completamente rigidi di fronte alla complessità della trasformazione, e quindi costruiremmo ghetti invece di una forma sociale che possa diffondersi ed evolvere.
Perché la critica al dogma della crescita economica è parte importante della ricerca e delle lotte dei movimenti dei commons?
Perché la crescita economica è fondamentalmente tre cose: estrazione crescente, devastazione ambientale crescente, sfruttamento / povertà / alienazione / individualismo / solitudine / malessere crescente. Detto in altre parole, la ricerca della crescita economica continua ha bisogno di un’estrazione di minerali, di uso di terra, e di acque crescente. Questo porta necessariamente all’espropriazione crescente spesso violenta delle risorse delle comunità autorganizzate attorno al mondo, che usano queste risorse come bene comune. In questo senso, i commons sono minacciati dalla crescita. La devastazione ambientale è poi anche una conseguenza dell’estrazione crescente, così come della produzione al fine del profitto che minimizza anche i costi ambientali ed esternalizza sulle comunità e ai commons i costi in salute ed esperienza di vita. Infine, la crescita economica ci vede sempre più competere contro gli altri – la cui sussistenza non ci interessa. Ci vede competere quando cerchiamo lavoro, e quando lavoriamo, sia che siamo precari o abbiamo un lavoro fisso. La competizione si manifesta come una corsa continua per la semplice riproduzione delle nostre vite, ed è attraverso questa corsa che si manifesta in ricerca costante di aumento di produttività, taglio di costi, tagli alle spese sociali, bisogno crescente di denaro, debito, distruzione ambientale… che il nostro sfruttamento è possibile. La povertà si manifesta poi sia nel modo nella quale spendiamo le nostre vite attaccate a questo meccanismo, o attraverso l’accesso alle carenza quando siamo disoccupati, o quando ci viene espropriato tutto. La povertà si produce attraverso la continua riproduzione di gerarchie sociali, di chi ha sempre di più e di chi ha sempre meno legata al meccanismo economico. Ma è anche una corsa che ci aliena, ci separa ed estranea dagli altri, da quello che facciamo, dal nostro ambiente e dal senso che diamo alle nostre vite. Sentiamo questa forza a farci diventare sempre più individualistici, a pensare alla nostra, non a quella degli altri, sopravvivenza, a costruire un’armatura attorno a noi, che ci fa disprezzare gli altri, in primo luogo rom e migranti. Ed è una corsa che ci ammala, di stress, di cuore, di cancro, di ansie e paure.
Oggi più di ieri i movimenti dei commons sembrano dover affrontare alcuni ostacoli enormi: la moltiplicazione delle forme di repressione dall’alto, il raffinamento delle strategie di cooptazione dei commons da parte del capitale, infine, il rischio di scivolare nel comunitarismo identitario…
Le comunità indigene americane hanno affrontato ostacoli ancora più grandi nel corso dei secoli: tentativi di genocidi, assorbimento religioso, cooptazione e espropriazione in massa di terre. Sono ancora li a lottare, e in forme e contenuti sempre nuovi, portando insieme le varie identità e superandole. Tutto ciò è spesso fonte di ispirazione per tutti noi in occidente. Negli ultimi decenni essi sono stati capaci di ricomporre le loro diversità e identità in una maniera eccezionale, dando vita a grandi movimenti e cambiando anche la costituzione di alcuni paesi. Doppiamo riscoprire le nostre radici indigene – cioè di comunità che è radicata nella terra e nell’autoproduzione di cose, valori e culture – e poi creare ponti su questa base con altre comunità. Il capitale fa quello che deve fare, e non gli si può chiedere di essere diverso da quello che è. Siamo noi che possiamo e dobbiamo chiedere a noi stessi di operare in altri modi, diversi da quelli che ci vengono spesso imposti. Il rischio della repressione crescente e della cooptazione si affronta producendo altri modi di fare, di alleanze con commons diversi, e costruendo su di essi la nostra lotte e la capacità di resistere, ma anche attraverso la propositività di altri modelli e soluzioni, e attraverso una ricerca e denuncia continue, un atteggiamento di allerta. Il rischio del comunitarismo identitario lo si affronta così come si affrontano le divisioni all’interno di una comunità, attraverso la comunicazione, la sfida, la ricerca continua di una mediazione che il ben vivere li si possono solo creare insieme, con la collaborazione tra diverse comunità, non attraverso una lotta fratricida.
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