domenica 9 ottobre 2016

L’autunno rovente del pianeta terra - Alberto Castagnola

Nei primi giorni di settembre 2016 si è tenuto in Cina, a Hangzhou, l’ennesimo incontro del G20, che ha affrontato vari temi internazionali, ma la stampa ha concentrato la sua attenzione sul rinnovato impegno di Stati Uniti e Cina per impedire il proseguimento delle drammatiche  modifiche al clima del pianeta, ormai sempre più evidenti. I due paesi, sicuramente i due maggiori inquinatori tra i 195 paesi che hanno messo a punto l’accordo di Parigi nel dicembre 2015, hanno finalmente ratificato il trattato, che però non può entrare in vigore se non lo ratificano almeno 55 paesi che insieme rappresentino almeno il 55% delle emissioni di gas serra. Come è noto ad aprile di quest’anno si è aperta a New York la procedura di ratifica, per la quale i paesi hanno un anno di tempo. Purtroppo fino a pochi giorni fa solo 24 paesi avevano concluso il processo di ratifica, cioè di sottomissione del testo del trattato agli organi istituzionali competenti per ogni Stato, ma in gran parte si trattava di  piccole nazioni-isola, in particolare in Oceania, che già da tempo risentono dei danni arrecati dall’innalzamento del livello dei mari. Quindi la loro quota di emissioni di gas serra è di solo l’1,08%  del totale, con la firma di Cina e Stati Uniti la percentuale sale al 39% e il numero dei paesi a 26, quindi siamo ancora lontani dall’obiettivo indicato nel trattato per la sua entrata in vigore.
E’ evidente che gran parte dei paesi esita a ratificare perfino un accordo internazionale  tanto criticato, poco vincolante e la cui attuazione è stata rinviata nel tempo malgrado le urgenze indicate dall’IPCC, il mega comitato di scienziati dell’ONU, che nel suo quinto rapporto del 2014 aveva chiesto interventi immediati e massicci per ridurre drasticamente le emissioni di Co2, da effettuare tra il 2015 e il 2020, se si voleva veramente che avessero qualche effetto.
A sminuire ulteriormente l’importanza degli impegni dei due paesi maggiori inquinatori concorre anche il fatto che la Cina ha promesso di effettuare le riduzioni solo a partire dal 2030, per poter continuare a perseguire i suoi obiettivi di sviluppo con un apparato produttivo che usa tecnologie fortemente inquinanti. I titoli dei giornali, da “G20 da record” a “Emissione compiuta”, e le analisi piuttosto critiche, non sottolineano abbastanza la modestia degli impegni annunciati e i rischi di estendere  ulteriormente  i ritardi già registrati al momento della lettura del trattato di Parigi. Vi sono poi altri dati da tenere presenti. Gli Stati Uniti hanno così quantificato le loro intenzioni: promettono di tagliare entro quindici anni tra il 26 e il 28% le loro emissioni, che li collocano al secondo posto con una quota di gas serra del 14% sul totale mondiale. Questa indicazione non è accompagnata da una lista di impianti da chiudere e di misure di conversione e di risparmio energetico, e quindi quali garanzie ci sono che agli impegni assunti da un Presidente saranno rispettati e nei tempi dovuti dai suoi successori?

La Cina, che è al primo posto con il 24% di gas serra emessi, ricava ancora oggi il 70% circa della sua produzione di elettricità da impianti alimentati a carbone. Inoltre non si può dimenticare che l’anno scorso, dovendo ospitare degli incontri sportivi internazionali a Pechino, era stata costretta a sospendere per due mesi le attività industriali dell’intera regione e aveva dovuto chiudere  18.000 impianti che erano alimentati a carbone, per ridurre la coltre di smog che grava eternamente sulla capitale. Ma ovviamente applicare la stessa politica su scala nazionale è molto, ma molto più difficile, sia in termini di investimenti necessari che di effetti negativi sull’occupazione.
In termini abbastanza diversi si pone la questione del ruolo dell’Unione Europea e dei singoli paesi membri di fronte alle scadenze dell’Accordo di Parigi. Gli europei rappresentano il 12% delle emissioni globali. La Commissione di Bruxelles , almeno secondo alcuni esperti, potrebbe in teoria ratificare l’accordo anche a nome dei paesi membri (con qualche dubbio circa l’Inghilterra, che nei prossimi mesi deve attuare il processo di uscita dalla Comunità), dopo un voto del Consiglio Europeo. Tuttavia alcuni Stati hanno già richiesto la preventiva  ratifica a livello nazionale, il che richiede tempi più lunghe e parecchi ostacoli interni da superare.
Alcuni dati possono ulteriormente chiarire il peso relativo dei paesi inquinatori, i numeri tra parentesi sono in miliardi di tonnellate di emissioni di anidride carbonica): Cina (10,6); Stati Uniti (5, 3); India (2,3); Russia (1,8); Giappone (1,3); Germania (0,8); Iran, Corea del Sud, Canada, (0,6 ciascuno); Brasile , Arabia Saudita (0,5); Regno Unito, Australia (0,4), Francia e Italia (0,3). Ovviamente i dati relativi alle sole emissioni di Co2 non sono un indicatore sufficiente dei fenomeni di inquinamento, che tra l’altro dovrebbero essere tarati sulla densità demografica e abitativa di ciascun paese.
A livello globale, è da rilevare che il 2016 si avvia a diventare l’anno più caldo di sempre: i dati relativi agli ultimi 14 mesi evidenziano che si è sempre trattato di livelli elevatissimi di riscaldamento, mai verificatisi nei secoli scorsi.
Le tendenze mensili e stagionali tendono sempre più ad avvicinarsi ai dati medi meteorologici quinquennali (le cifre più serie e attendibili quando si parla di clima globale), mentre si moltiplicano gli eventi estremi, da tempo previsti dagli scienziati, come i periodi di siccità, le alluvioni, gli uragani e i cicloni accompagnati da un numero crescente di fulmini. Quindi è ormai evidente la possibilità molto concreta che l’obiettivo indicato nell’accordo di Parigi di contenere il riscaldamento  entro i 2 gradi centigradi sia forse già irraggiungibile (alcune fonti scientifiche ritengono che questo limite sia già stato superato) e ciò vale a maggior ragione per l’obiettivo di contenimento a 1,5 gradi, che il testo in corso di ratifica riteneva fosse  un limite altamente preferibile. In altre parole, concedere alla Cina di ritardare di 15 anni il suo impegno di riduzione delle emissioni, come a qualunque altro paese di allontanare nel tempo le rispettive scadenze del loro contributo al disinquinamento, costituisce un rischio drammatico che l’equilibrio del pianeta non è in grado di sostenere.
Infine, non possiamo dimenticare che alcuni studi recenti, che analizzano la situazione e le prospettive di scioglimento dei ghiacci dell’Antartide, in particolare quello elaborato dal famoso climatologo James Hansen, – noto per aver previsto in forte anticipo molti dei fenomeni in corso -, rendono ancora più impressionanti le indicazioni fornite dall’ IPCC. Per quanto poi riguarda l’Italia, il silenzio sostanziale  che circonda queste tematiche e la pratica assenza di iniziative governative dovrebbero destare delle preoccupazioni molto diffuse e incalzanti, mentre l’attenzione politica si concentra su problemi molto lontani da tutto ciò. I prossimi giorni e mesi dovranno vedere una mobilitazione del basso volta ad ottenere un sostanziale cambiamento di rotta e che costringa a far emergere l’importanza delle scadenze internazionali e l’urgente necessità di una politica nazionale fortemente incisivaPossiamo qui ricordare l’attività del GIGA, il Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati, che ad aprile ha pubblicato una analisi molto informata e accurata sul clima, dal titolo evocativo “Il pianeta che scotta”, ma la loro esperienza dovrebbe diventare un modello di azione per un numero crescente di gruppi di base, attenti sia alle tematiche globali che all’aggravarsi delle situazioni locali.

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