mercoledì 28 settembre 2016

Un misterioso fiume rosso - Maria Rita D'Orsogna

In Siberia c’è un fiume che è diventato rosso. Come le arance di Sicilia. In Siberia dove tutto, secondo la nostra immaginazione lontana, dovrebbe esser bianco e soffice. E invece no. Qui hanno un fiume rosso sanguigno. Fino ad oggi non si sapeva perché.
Siamo a nord del circolo Artico e siamo presso la città mineraria di Norilsk, che in alcune “classifiche” è considerata una delle città più inquinate del mondo. Il fiume si chiama Daldyka.
Due erano le opzioni: ferro o argilla “naturale” che in qualche modo è finito nel fiume colorandolo di rosso o sostanze chimiche finite nel fiume da una delle tante fabbriche di questa città.
Alla prima opzione non credeva nessuno. Anzi, quando è stata proposta la gente ha riso. Il ministro russo delle Risorse naturali e dell’Ambiente invece ha subito puntato il dito contro la chimica siberiana, aprendo una indagine sul caso. Secondo loro avrebbe potuto essere una rottura di un oleodotto della Norilsk Nickel che produce, fra l’altro, palladio, un sostituto del platino che nella sua versione acetata è rossiccia.
Poteva anche essere rame o nickel.
Nonostante tutto ciò, la Norilsk Nickel a lungo ha continuato a dire che era tutto apposto e che i colori erano sfumature naturali rilasciando comunicati stampa del tutto tranquillizzanti. Dicevano di avere anche aumentato i monitoraggi ambientali attorno ai loro impianti e che avrebbero fatto test approfonditi.
Ma intanto naturale o non naturale, l’acqua era ed è rossa. E la gente, che non è scema,  continua a rifiutarsi di berla.

Perché parliamo di questa storia sul blog No all’Italia petrolizzata che non ha – per una volta! – a che fare con il petrolio? Perché come con l’Amazzonia, le nevi dell’Artico sono parti del mondo un po’ dimenticate, lontane, in cui è facile pensare che va tutto bene. Lontane dagli occhi, lontane dal cuore. E invece no, sono zone fragili, dove disturbi umani necessitano di anni e decenni per essere in qualche modo sistemati da madre natura.
Gli standard ambientali della Russia in Artico sono quasi osceni, considerato, ad esempio quello che hanno fatto a Usinsk, città petrolizzata dove anche la neve è quasi nera. E quindi il fiume rosso di Norilsk non fa notizia. Anzi, Norilsk in particolare ha una storia tragica: fu fondata nel 1935 proprio come centro minerario. Stalin ci mandava qui i prigionieri a estrarre minerali. I lavoratori vivevano in condizioni desolate, nei gulag. Negli anni Cinquanta venire qui a lavorare per l’industria mineraria divenne volontario, non più per eseguire lavori forzati. La città si ingrandì e sorsero ciminierie sputa fumi, oleodotti, enormi mostri industriali. Tante Ilva messe assieme, senza nessun tipo di protezione dell’ambiente. Vivono qui oggi 134,000 persone, che soffrono tutte per inquinamento ambientale dovuto a particelle fini, SO2, metalli pesanti e fenoli, regali dell’industria mineraria, che ha pure lasciato in eredità un enorme buco.
Ogni anno vengono rilasciati in ambiente 4 milioni di tonnellate fra cadmio, rame, piombo, arsenico, selenio e zinco. L’aria è inquinata con forti concentrazioni di rame e di zinco, e le malattie respiratorie sono elevatissime. Nel giro di cinquanta chilometri dall’impianto di lavorazione del nickel non c’è un solo albero vivente. E oggi c’è pure il fiume rosso.
Finalmente, mercoledì 13 settembre la Norilsk Nickel ha ammesso che sì, la colpa è loro: il 5 settembre le forti piogge hanno causato il riversamento di fluidi nel fiume da un impianto di filtraggio nello stabilimento Nadezhda. E quindi hanno cercato di nascondere la verità per almeno una settimana. Ma sono recidivi. Aggiungono che nonostante l’acqua sia rossa, non ci sono problemi per nessuno, persone, fauna o fiume…

martedì 27 settembre 2016

un fiume da evitare



Il Citarum è un fiume dell’Indonesia. E lungo ben 269 chilometri e  attraversa la città di Giacarta, la capitale.
E’ considerato il fiume più inquinato del mondo e se guardate le immagini ci si rende conto della gravità della situazione.
E’ un fiume di rifiuti: l’acqua non si vede nemmeno! Una vera e propria discarica a cielo aperto doveindustrie e i 9 milioni di abitanti che vivono lungo le coste del Citarium riversano quotidianamente nelle acque ogni cosa. Plastica, vetro, animali morti e tanto altro ancora stanno soffocando il fiume.
Davvero non ci sono parole per descrivere questo disastro ambientale… solo tanta vergogna, rabbia e delusione nei confronti del genere umano…

lunedì 26 settembre 2016

Landgrabbing, omicidi e sfratti: una spirale di violenze nella corsa globale alla terra

Un nuovo rapporto di Oxfam, presentato oggi a Terra Madre, rivela che circa il 60% degli accordi terrieri degli ultimi 16 anni ha sottratto terre comuni ai popoli che le abitano. 2,5 miliardi di persone appartenenti ai popoli indigeni abitano più di metà della Terra, ma solo a 1/5 vengono riconosciuti titoli di proprietà
Il diritto alla terra per gran parte dei popoli indigeni e le comunità di piccoli agricoltori è sempre più un miraggio. In milioni sono costretti con la forza a lasciare la propria casa, mentre nel mondo si registra che un’estensione di terra pari alla Germania è stata messa in vendita nel totale disprezzo dei loro diritti. A rivelarlo è il nuovo rapporto di Oxfam, Custodi della terra, difensori del nostro futuro, realizzato in collaborazione con la Land Matrix Iniziative e presentato oggi a Terra Madre nell’ambito della campagna Land Rights Now.

L’impennata di violenza nella corsa alla terra. Il 75% delle oltre 1.500 transazioni fondiarie, indagate negli ultimi 16 anni, riguarda contratti relativi a progetti già in fase di realizzazione; ma il dato più preoccupante è che il 59% di queste riguarda terre comuni rivendicate da popoli indigeni e comunità di piccoli agricoltori, la cui titolarità alla terra è scarsamente riconosciuta dai governi. Solo in rari casi si è stabilito un dialogo preventivo con le comunità, mentre più spesso, e tragicamente, si è fatto ricorso alla violenza estrema che ha portato a omicidi e sfratti indiscriminati in moltissimi villaggi. Una prassi che, dalle osservazioni sul campo, sembra diventare la norma...

giovedì 22 settembre 2016

La rivolta dei Lakota Sioux contro «il serpente nero» - Marco Cinque

Una nuova guerra, subdola e silenziosa, è iniziata contro i popoli nativi del Nord America, sia in Canada sia negli Usa: la guerra dell’acqua e del petrolio, dichiarata dalle multinazionali, in particolare dalla compagnia Enbridge, che in nome del progresso e dei profitti sta mettendo a repentaglio la stessa terra, i fiumi e le risorse necessarie per sopravvivere in quei territori.
La realizzazione di un gigantesco oleodotto, il Dapl (Dakota Access Pipeline), definito emblematicamente «serpente nero», che prevede l’attraversamento di quattro stati, tra cui il North Dakota, passerà anche sotto il fiume Missouri e diversi altri corsi d’acqua, minacciando seriamente l’incolumità di milioni di persone, tra cui gli indigeni della nazione Hunkpapa Lakota di Standing Rock.
L’oleodotto è un progetto che costa circa 4 miliardi di dollari e che dovrebbe portare 470mila barili di petrolio al giorno, dai giacimenti petroliferi della parte occidentale del North Dakota fino all’Illinois, dove sarebbe collegato con altre condotte. Le proteste dei Lakota sono iniziate già dallo scorso aprile ed hanno coinvolto diverse altre tribù (Cheyenne, Arapaho, Crow) trasformandosi nel più grande raduno permanente dai tempi della storica occupazione di Wounded Knee, nel 1973. All’allargamento della rivolta, ferma ma pacifica, purtroppo c’è stata una risposta repressiva e violenta da parte della polizia, con pestaggi, arresti indiscriminati di più di 40 nativi e persino l’utilizzo di cani da combattimento aizzati anche contro donne e bambini. Tra gli arrestati spiccano i nomi del presidente tribale Dave Archambault II e quello del consigliere tribale Dana Wasinzi, rei di aver oltrepassato il cordone di sicurezza degli agenti. E’ emblematico il fatto che, ancora oggi, esponenti delle tribù amerindie vengano arrestati per violazione di domicilio della loro stessa terra.
Nella dichiarazione congiunta «No Keystone XL Pipeline Will Cross Lakota Lands», i movimenti indigeni Honor the Heart, Oglala Sioux Nation, Owe Aku e Protect the Sacred, si rivolgono direttamente al presidente degli Stati uniti, Barack Obama: «La Oglala Lakota Nation ha assunto la leadership dicendo «no» alla Keystone XL Pipeline. Ha fatto ciò che è giusto per la terra, per il suo popolo ed ha invitato i suoi leader ad alzarsi in piedi e proteggere le loro terre sacre. E hanno detto che il KXL non deve attraversare il territorio che si estende oltre i confini della Riserva. I loro cavalli sono pronti. Così come lo sono i nostri. Noi siamo con la Nazione Lakota, siamo al loro fianco per proteggere l’acqua sacra, stiamo con loro perché gli stili di vita indigeni basati sulla terra non siano danneggiati da un oleodotto nocivo e tossico.
Riconoscendo la responsabilità di proteggere Madre Terra, i popoli indigeni non permetteranno che questo oleodotto attraversi le nostre aree protette dal Trattato». A seguito della mobilitazione, la costruzione dell’oleodotto è stata temporaneamente sospesa, in attesa della decisione di un giudice federale. Nel frattempo, la società di costruzione dell’impianto, la «Partner Energy Transfer», ha citato in giudizio diversi manifestanti indigeni, accusandoli di intimidire gli imprenditori e di bloccare i lavori di costruzione.
Inizialmente la rivolta è stata silenziata dai media locali, che in molti casi hanno utilizzato la già collaudata tecnica di criminalizzazione dell’azione intrapresa dagli esponenti indigeni.
Il Governatore del South Dakota, Jack Dalrymple (tra l’altro è anche il consigliere di Donald Trump), ha cercato in tutti i modi di disperdere i manifestanti con posti di blocco e il taglio dell’acqua nei campi dove i dimostranti erano radunati. In seguito è emerso che Dalrymple, assieme ad altri sostenitori del progetto KXL, possiedono quote nella società stessa e che sono quindi in palese conflitto d’interessi.
Dopo diversi appelli, continue marce di protesta e il coinvolgimento attivo di personalità dello spettacolo, tra cui Leonardo Di Caprio e Susan Sarandon, la vicenda è stata finalmente ripresa anche sulla prima pagina del New York Times e su diversi altri media americani e internazionali.
Il 9 settembre scorso, un giudice federale ha però respinto la richiesta dei nativi e delle associazioni ambientaliste, decidendo quindi di far proseguire i lavori dell’oleodotto. Ma, nello stesso giorno, subito dopo la decisione del giudice, è scesa in campo l’amministrazione Obama che, attraverso il Dipartimento di giustizia, ha emanato un decreto che sembrerebbe bloccare i lavori di costruzione nell’area in cui si trova la riserva dei nativi. Ma un articolo di Jafari Tishomingo e M. David, pubblicato sul Counter Current News dell’11/09/2016 ci mette in guardia: «Obama ha solo suggerito di “fermare volontariamente” la costruzione del pipeline per un piccolo tratto del gasdotto proposto, d’accordo con i leaders di Standing Rock coi quali ha parlato. Quindi, perché il governo esagera, se non addirittura mente, su quello che è successo con la Casa Bianca nell’“intervento” di venerdì? Molti dei manifestanti del campo di Standing Rock ritengono che il motivo sia quello di convincere la gente a desistere».
L’efficacia della protesta Lakota risiede nel fatto che essi non si considerano semplici «protestors», cioè manifestanti, ma «protectors», vale a dire protettori che stanno lottando non solo egoisticamente per una causa che li riguarda, ma per la Madre Terra, quindi per tutti noi.
Una delle loro parole d’ordine è Mni wiconi, cioè «L’acqua è vita». Confidiamo che possa continuare ad esserlo.


(*) ripreso da «il manifesto» del 14 settembre

martedì 20 settembre 2016

La battaglia di Marco: dal disagio psichiatrico al riscatto

(di Monica Magro)

Camminare come terapia, anche per le malattie psichiatriche. Un esempio è Marco Francesco Simbula, 32 anni di Villacidro, anni fa colpito da un grave disturbo psichiatrico, oggi studia per diventare un operatore socio-sanitario. Lui, insieme ad altri, è stato uno dei primi a sperimentare il percorso di “Sentieri in libertà”: il trekking sui Tacchi dell’Ogliastra (leggi quiideato da Alessandro Coni,direttore del dipartimento di salute mentale e dipendenze della Asl di Sanluri. “Il mondo per me non esisteva più, ero destinato a bruciarmi, non avevo più rapporti sociali, non mi godevo più neanche un bicchiere d’acqua. I nostri genitori ci hanno dato la vita, la malattia ci toglie tutto, non ci lascia niente”. Lo descrive così il tunnel nel quale Marco è finito 14 anni fa, all’età di 18 anni. Poco importa conoscere il nome della patologia perché “chiunque abbia vissuto un’esperienza di malattia psichiatrica sa bene quanto sia difficile“. Quattordici anni fa Marco era un ragazzo come tanti, ha vissuto delusioni sentimentali e affettive che hanno portano a un malessere. “Ma non capivo cosa mi stesse succedendo, non ero più io, non realizzavo di avere un problema – racconta Marco – la malattia ti fa vivere in un mondo che non è più normale, è come prendersi in giro da soli. Sono stato malissimo, nell’immensa solitudine e nella nullità, senza autostima”.
Eppure “il disturbo psichiatrico non lo puoi nascondere, si vede, imbarazza, ti tremano le mani, sei spaesato, e uscire da quel tunnel è difficile  – sottolinea Marco -. Occorre affrontare la malattia in tempo, con le persone giuste”. Solo sotto consiglio della sorella, il 32enne ha deciso di farsi aiutare, pur non sapendo di essere affetto da un disturbo psichiatrico: “Per me era normale il disordine nella testa e non capivo cosa potesse darmi uno psichiatra”. Così ha deciso di affidarsi a un’equipe di medici e ha capito che “i rapporti sociali cambiano la vita, e inizi di nuovo a vivere, meno pastiglie, meno gocce, più vita”.
Da una seduta con uno psichiatra una volta alla settimana, dopo qualche mese ha accettato di iniziare una terapia di gruppo dove ogni partecipante racconta a i suoi problemi, un percorso durato anni, durante il quale ha dovuto superare numerosi ostacoli. “L’equipe di medici mi ha permesso di esistere. Ho dovuto stringere i denti, ma prima ancora è stato necessario capire che dovevo fidarmi di loro”. Mentre racconta il disagio, nelle sue parole si percepisce un senso di gratitudine nei confronti di chi, come il suo psichiatra che ora definisce ‘un fratello, uno zio’, gli ha dato l’opportunità di rimettersi in gioco. Ma dopo la fiducia nei confronti degli operatori, ha capito che un ruolo fondamentale nella sua vita lo hanno avuto i rapporti sociali, attraverso il volontariato.
“La buona volontà di aiutare gli altri mi ha dato tante soddisfazioni, mi  ha permesso di alzarmi la mattina e mi ha fatto andare a letto la sera – spiega – così mi sono riappropriato dell’indipendenza e della lucidità”. Dalla malattia psichiatrica, Marco oggi è tornato a essere la persona che era prima di entrare nel vortice di pensieri e sensazioni che lo costringevano a vivere un mondo distorto. Dopo anni di volontariato, dove ha riscoperto il piacere di avere un contatto con la società, oggi è impegnato mattina e sera. Nella prima parte della giornata lavora come giardiniere, mentre nel corso della serata studia per diventare un operatore socio-sanitario. Conduce una vita normale che si suddivide tra lavoro, studio, uscite con gli amici e progetti per il futuro. “Gli studi costano, io oggi sono un ragazzo indipendente e mi sento benissimo”. I suoi sogni sono gli stessi della maggior parte dei suoi coetanei. “Vorrei concludere quanto prima gli studi per trovare un lavoro e arrivare alla totale indipendenza – dice – e poi penserò anche a una compagna”. Ma ha anche dei consigli per chi vive in questo momento la malattia che lui è riuscito a sconfiggere. “Non mollate, dovete capire che la vita continua – sottolinea – cambierà, sta cambiando. Aprite la finestra e guardate fuori, là c’è ancora il mondo e quello è solo l’inizio di una trasformazione. Fidatevi degli specialisti, delle persone che stimate. Fatevi prendere per mano da loro”.

sabato 17 settembre 2016

la vedetta antincendio - Fiorenzo Caterini

La vedetta antincendio in Sardegna merita la dedica di un articolo tutto per lei, per un motivo molto semplice: perché rischia l’estinzione.
Anni fa, la Regione Sardegna, punta da quella che l’antropologo Placido Cherchi, nel corso di un convegno sugli incendi in Sardegna, nei primi anni del 2000, definì la sindrome di Talos, l’automa di bronzo dell’antica Creta, simbolo della sudditanza psicologica nei confronti della tecnologia, acquistò un costosissimo apparato di telerilevamento degli incendi, con l’ipotesi di sostituire la vedetta “umana”.
Poco tempo dopo la stessa Regione, dopo il collaudo del Corpo Forestale, ricusò quel costosissimo appalto con la motivazione di una scarsa efficienza. La questione finì in una lunga causa giudiziaria non ancora definita e ancora oggi, di tanto in tanto, l’eco di quella contesa rimbalza nei media, con sospetti adombrati di chissà quali interessi politici, con richiami alla famigerata “industria del fuoco”, come se essa potesse essere alimentata dal lavoro dato a qualche vedetta piuttosto che dall’acquisto di apparecchi che costano un occhio della testa.
Ma una cosa, da addetto ai lavori, a prescindere dall’esito di quella causa giudiziaria, me la sento di dire a prescindere.
Che la vedetta “umana”, almeno per il momento, è insostituibile. E credo che lo sarà per molto tempo ancora.
Le vedette sono nella maggioranza operai dell’Ente Foreste (ora Forestas) scelti per la loro conoscenza del territorio. Conoscono ogni località, ogni casolare, strade, terreni, corsi d’acqua, coste, montagne e asperità, nonché i loro riferimenti topografici.
Un giorno la vedetta avvistò del fumo. Mentre la pattuglia si recava sul posto, la vedetta forniva informazioni sull’andamento di quello che stava diventando un vero e proprio incendio. Dal colore si poteva risalire al tipo di vegetazione bruciata, dall’inclinazione della colonna di fumo si poteva prevedere il comportamento che l’incendio stava prendendo, sulla base dei diversi fattori predisponenti, la morfologia del territorio, la tipologia della vegetazione, l’insolazione, il vento.
La pattuglia a tutta velocità, da lontano, vedeva la colonna del fumo che stava crescendo, ma non sapeva quali strade prendere. La vedetta allora gli indicò la strada poderale più breve. La pattuglia trovò la strada sbarrata da un pesante cancello, come si usa in Gallura per non far scappare il bestiame. La chiave del lucchetto, spiegò la vedetta, ziu Antoni la mette sotto la pietra che c’è li vicino.
Ora ditemi quali sistemi elettronici di rilevamento possano sostituire un servizio simile.
Purtroppo l’elemento umano, nella nostra civiltà sempre più virtuale e sempre più dominata dalla tecnologia, sta perdendo valore.
Assumere vedette brave nel loro mestiere “alimenta” il clientelismo e l’industria del fuoco.
Costosissimi, quanto inutili apparati tecnologici, invece no.
Ed infatti le vedette storiche dell’antincendio, quelle che ti sapevano dire che ziu Antoni, in quella data ora, era allo stazzo governando il bestiame e ti poteva dare una mano, un attrezzo, una bottiglia di acqua fresca, una dietro l’altra se ne stanno andando in pensione, e non vengono rimpiazzate perché, si sa, assumere gente costa soldi, e c’è la crisi.
E su focu andendi.
PS: secondo autorevoli fonti interne al CFVA, si precisa che il collaudo del costoso sistema è risultato negativo e la Regione non lo ha preso in carico.

venerdì 16 settembre 2016

In Ogliastra la montagna diventa terapia per il disagio mentale

(di Monica Magro)

Camminare sui ‘tacchi’ d’Ogliastra per superare un disagio mentale. È possibile grazie al progetto ‘Sentieri di Libertà, giunto alla sua terza edizione. Un’iniziativa di montagna- terapia dove non si distingue chi è il medico e chi il paziente, ma semplicemente al centro del laboratorio di psicoterapia c’è la comunità. Attraverso il contatto con il corpo e l’incontro con gli altri il trekking permette alle persone perse nella malattia di riappropriarsi di sé e di abitare un nuovo mondo, riacquistando la dignità persa.
Dal 14 al 18 settembre oltre 200 pazienti proveniente dai centri di salute mentale della Sardegna, con tutte le Asl regionali coinvolte (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia) saranno accompagnati da oltre 100 specialisti tra medici infermieri, psicologi e esperti di montagna. Nessun camice bianco tra un percorso e l’altro tra Jerzu, Tertenia, Perdasdefogu, Ulassai, Gairo, Cardedu, Osini, Ussassai, solo una maglietta rossa con su scritto ‘Sentieri di libertà’. Non solo trekking ma un convegno itinerante che prevede anche dibattiti sui temi inerenti la salute mentale, momenti conviviali e feste per le comunità ospitanti. “Questa iniziativa nasce da un laboratorio di montagna-terapia ideato come volontariato fuori dall’orario di servizio rivolto a 15 pazienti circa, è diventato un progetto culturale perché il gruppo ha prodotto dei libri e si è trasformato in un progetto di psicoterapia di comunità- ha spiegato Alessandro Coni, direttore del dipartimento di salute mentale e dipendenze della Asl di Sanluri che ha ideato il progetto- tutte le Asl della Sardegna saranno presenti a dimostrazione che un progetto così può essere condiviso, e anche con poche finanze si possono organizzare cose importanti”. I protagonisti del progetto (interamente autofinanziato) saranno persone che per tanto tempo sono rimaste chiuse in casa e che nel tempo avevano perso le relazioni con le persone, e che invece ora, sono pronte a comunicare le loro emozioni alle popolazioni ogliastrine durante un concerto.



Il programma. Si inizierà nel corso della serata di mercoledì 14 settembre a Perdasdefogu con la proiezione del documentario ‘Semus Fortes’. Mentre giovedì 15 nel Rifugio d’Ogliastra di Jerzu ci sarà l’anteprima del documentario ‘Sentieri di Libertà’ dell’associazione culturale Lunadigas. Dalla mattina di venerdì 16 settembre entrerà nel vivo l’evento con il trekking in località ‘Sarrala’ a Tertenia. Alle 20:30 dello stesso giorno in piazza Barigau è invece previsto l’incontro con Fausto De Stefani dal titolo ‘Leghiamo i Tacchi all’Everest’. La giornata sarà chiusa alle 21:30 dal concerto di Gavino Murgia & Crazy Not/te’. Sabato 17 settembre ‘Sentieri di libertà’ si sposterà a Gairo per il trekking sul Perd’e Liana. Stessa location, alle 16:30, per il ‘Ballo della montagna’. Mentre alle 21 in località ‘Sa Brecca’, nel territorio di Osini , si terrà la seconda performance dei concerti di ‘Gavino Murgia & Crazy Not/te’. Il progetto si chiuderà domenica 18 settembre dalle montagne al mare con la discesa di tutti i partecipanti nella marina di Cardedu.
In cammino. “Questa è una metafora di ciò che stiamo cercando di fare nelle politiche sanitarie, avere un atteggiamento diverso sulla politica psichiatrica- ha commentato l’assessore regionale alla Sanità Luigi Arru- il simbolo chiaro del tentativo finalizzato al recupero e reinserimento e superamento di una visione che vedeva l’istituzionalizzazione della persona affetta di malattia mentale. Stiamo cercando di promuovere una visione della malattia mentale che abbia un sentiero pieno di messaggi in cui si vede la persona in tutta la sua complessità”. “Cammineremo con loro e vivremo con loro- ha aggiunto Mariangela Serrau, sindaco di Osini e presidente dell’Unione della Valle del Pardu dei Tacchi- speriamo di riuscire tra due anni a coinvolgere tutta l’Ogliastra”.
Un’esperienza unica in Italia per tipologia e numeri di partecipazione e della quale, per questa edizione 2016, hanno voluto far parte lo scalatore di fama mondiale Fausto De Stefani, il secondo alpinista italiano dopo Reinhold Messner ed il sesto al mondo ad aver scalato tutte le quattordici vette superiori agli 8000 metri e il musicista Gavino Murgia. E proprio durante i concerti di Murgia saranno coinvolti i pazienti per la registrazione e la realizzazione successiva di un c’è live. “La presa in carico complessiva da parte della comunità per ridare il valore alla persona ci permette di attivare un percorso, un sentiero di libertà- ha detto Massimo Coa, presidente dell’associazione Andalas che cura la logistica del progetto- recuperando così la dignità della persona, dogliamo dare attenzione alla patologia mentale facendo capire che l’istituzionalizzazione può essere superata favorendo il superamento dello stigma”.
da qui


 
QUI e QUI due canali youtube con interessanti interviste ai protagonisti del trekking



mercoledì 14 settembre 2016

una lettera di Roald Dahl

A sette anni, Olivia, la mia figlia maggiore, prese il morbillo. Ricordo che mentre la malattia faceva il suo corso leggevo spesso per lei mentre era a letto, e non ero particolarmente preoccupato. Poi un mattino, quando ormai stava guarendo, ero seduto sul suo letto e le stavo mostrando come fare degli animali con dei nettapipe colorati. Quando ha provato a farne uno lei, mi sono reso conto che le sue dita e la sua mente non si coordinavano e lei non riusciva a fare niente. «Ti senti bene?» le chiesi. «Mi sento assonnata», mi rispose. Nel giro di un’ora aveva perso conoscenza. Dodici ore dopo era morta. Il morbillo si era trasformato in una cosa terribile chiamata encefalite morbillosa, e non c’era niente che i dottori avrebbero potuto fare per salvarla. Questo accadde nel 1962, ma persino ora se una bambina col morbillo finisse per sviluppare la stessa reazione di Olivia, non ci sarebbe comunque niente che i dottori potrebbero fare per lei. D’altra parte, oggi c’è qualcosa che i genitori possono fare per assicurarsi che ai loro figli non accada una simile tragedia. Possono far vaccinare dal morbillo il loro bambino. Nel 1962 non potevo fare una cosa del genere per Olivia perché all’epoca non era stato ancora messo appunto un vaccino affidabile contro il morbillo. Oggi ogni famiglia ha a disposizione un vaccino valido e sicuro: tutto quello che dovete fare è chiedere al vostro medico di somministrarlo. Ancora oggi le persone non pensano che il morbillo sia una malattia pericolosa. Ma lo è, credetemi. A mio parere, i genitori che oggi rifiutano di far vaccinare i loro figli mettono le loro vite in pericolo. In America, dove vaccinarsi è obbligatorio, il morbillo e il vaiolo sono stati spazzati via. Qui in Regno Unito, visto che molti genitori si rifiutano di far vaccinare i figli – che sia testardaggine, ignoranza, o paura – abbiamo ancora circa centomila casi di morbillo ogni anno. Di quelli, più di 10 mila malati avranno qualche effetto collaterale di vario tipo. Almeno 10 mila svilupperanno infezioni alle orecchie o ai polmoni. Circa 20 moriranno. PENSIAMOCI BENE.
Ogni anno in Gran Bretagna circa 20 bambini moriranno per il morbillo. E allora quali sono i rischi che corrono i vostri figli se verrano vaccinati? Sono quasi inesistenti. Ascoltatemi. In un posto con circa 300 mila persone ci sarà solo un bambino ogni 250 anni che svilupperà seri effetti collaterali dal vaccino contro il morbillo! È circa una possibilità su un milione. Penso che ci siano più possibilità che vostro figlio si soffochi con una tavoletta di cioccolato che di ammalarsi seriamente a causa del vaccino contro il morbillo. E allora per quale ragione al mondo vi state preoccupando? È davvero criminale non far vaccinare vostro figlio. Il momento ideale per farlo è a 13 mesi, ma non è mai troppo tardi. Tutti i bambini in età scolare che ancora non sono stati vaccinati contro il morbillo dovrebbero pregare i loro genitori di farlo il prima possibile. A proposito. Ho dedicato due dei miei libri a Olivia, il primo era James e la pesca gigante (James and the Giant Peach). All’epoca era ancora viva. Il secondo è Il GGG (BFG), dedicato alla sua memoria dopo che era morta per il morbillo. Troverete il suo nome all’inizio di questi due libri. So quanto sarebbe felice se potesse sapere che la sua storia ha aiutato a risparmiare un bel po’ di malattie e morte tra gli altri bambini.

martedì 13 settembre 2016

Fertility Day. Il giorno del “fragà” - Ascanio Celestini

Il Fertility Day è la giornata della sorca e dell’uccello. Si tratta di una citazione dal Belli, ovviamente. Ma per spiegare questa immagine parto dal passato nel quale il grande poeta ha vissuto.
Aveva poco più di quarant’anni Robert-François Damiens quando piantò un coltellino nel fianco del re di Francia Luigi XV il “Beneamato”. Poi quel re non morì perché l’arma di Damiens era mortale come un coltellino svizzero. Ma mortale fu per lo stesso Damiens «condotto e posto dentro una carretta a due ruote, nudo, in camicia, tenendo una torcia di cera ardente del peso di due libbre»; poi «nella detta carretta, alla piazza di Grêve, e su un patibolo che ivi sarà innalzato, tanagliato alle mammelle, braccia, cosce e grasso delle gambe, la mano destra tenente in essa il coltello con cui ha commesso il detto parricidio bruciata con fuoco di zolfo e sui posti dove sarà tanagliato, sarà gettato piombo fuso, olio bollente, pece bollente, cera e zolfo fusi insieme e in seguito il suo corpo tirato e smembrato da quattro cavalli e le sue membra e il suo corpo consumati dal fuoco, ridotti in cenere e le sue ceneri gettate al vento».
Insomma venne squartato e bruciato e non senza alcuni impedimenti visto che ai quattro cavalli che si usarono per lo squartamento pare che se ne dovettero aggiungere altri due e i boia di Stato aiutarono lo smembramento incidendo coi coltelli i quattro arti. Ce lo ricorda Michel Foucault nelle prime pagine di un suo famosissimo testo. Quello era il tempo delle aristocrazie. Un tempo nel quale il potere era potere sui corpi. Le galere erano spesso un luogo di transito. Non ci buttavano i detenuti per anni e anni come facciamo noi. Per i monarchi le pene dovevano essere visibili sulla carne dei sudditi. Visibili nelle strade. Ti tagliavano una mano, la lingua, ti impiccavano e tagliavano la testa, ti smembravano e ti davano fuoco e tutti vedevano il potere del re!
Poi la borghesia ci ha detto che siamo tutti uguali. Che gli aristocratici non hanno il sangue blu e il loro potere non deriva da alcun dio. Allora è stato lo Stato a occuparsi dei cittadini. I corpi dei delinquenti non sono più stati segnati e ributtati nella società per ribadire il potere dei monarchi, ma nascosti nelle prigioni. Il potere sugli uomini è diventato un potere che vuole dimenticarsi dei corpi e degli uomini, non li vuole considerare. Ultimamente è arrivato il mondo nuovo, quello presente, che torna a occuparsi dei corpi come merce. Tipo quella pubblicità che per far vendere un silicone per muratori, invece di far vedere un cantiere con manovali rumeni sudati e grassi, spoglia una bella donna e le fa fare una doccia.
E ci siamo ricordati del corpo: questo magnifico campo da gioco della comunicazione politico-pubblicitaria! “Come si è pensato di ritrarre la donna come corpo-cosa con in mano una clessidra?” si chiede il primo agosto Vanna Iori sull’Huffington Post. Perché il “corpo-cosa” ha funzionato per secoli e possiamo tirarlo fuori dalla cantina per utilizzarlo ancora. Niente idee e ideologie, niente cuore e sentimenti: solo pisellino e passerina.
La donna può essere, come da sineddoche, semplicemente una fica e in quanto tale un oggetto di piacere e un bambinificio. E la ministra Lorenzin (o qualcuno che gli ha scritto le parole che dice) lo ha capito. Da ciò deriva il Fertility Day, cioè il giorno del “fragà”come scrive Giuseppe Gioacchino Belli in una poesia onomatopeica nella quale tra “scenufreggi, sciupi, strusci e sciatti!” tra sonagliere “d’inzeppate a secco!  Igni botta, peccrisse, annava ar lecco” e tutt’e due soffiano come gatti “sempre pelo co’ pelo, e becc’a becco”. E la Gertruda della poesia, per godersela “più a ciccio” diventerebbe “tutta sorca” e il suo partner “tutt’uccello”.
L’inciciature
Che scenufreggi, sciupi, strusci e sciatti!
Che sonajera d’inzeppate a secco!
Igni botta, peccrisse, annava ar lecco:
soffiamio tutt’e dua come du’ gatti.
L’occhi invetriti peggio de li matti:
sempre pelo co’ pelo, e becc’a becco.
Viè e nun vienì, fà epija, ecco e nun ecco;
e daje, e spigne, e incarca, e strigni e sbatti.
Un po’ più che durava stamio grassi!
Ché doppo avè finito er giucarello
restassimo intontiti come sassi.
E’ un gran gusto er fragà! ma pe godello
più a ciccio, ce vorìa che diventassi
Giartruda tutta sorca, io tutt’ucello.

sabato 10 settembre 2016

Bosnia, la meta di vacanza preferita dagli arabi ha paura del wahabismo

I turisti piacciono all’economia: portano soldi e danno lavoro. A volte, però, non piacciono agli abitanti che li ospitano. Capita spesso, e non solo a Formentera contro le cafonate degli italiani. A causa delle guerre nel Mediterraneo, a quanto pare, si è aggiunto un nuovo fronte: quello in Bosnia, che vede opporsi cittadini locali e turisti provenienti dai Paesi del Golfo.
Lo racconta la Reuters: gli abitanti di Emirati, Arabia Saudita e Qatar che non vogliono fare le vacanze in terre di infedeli, hanno una scelta ridotta: escludendo Turchia ed Egitto (troppi disordini), Siria e Libia (è fuori discussione), e anche la Tunisia (c’è qualche problema anche lì), l’unica possibilità è la piccola Bosnia, nel cuore dell’ex Jugoslavia, con le sue montagne. Ci sono più voli, nuovi resort e le procedure per il visto sono diventate più semplici.
Il problema è che, mentre gli albergatori sono più che contenti di vedersi scivolare nelle tasche i petrodollari, la popolazione locale è un po’ preoccupata. Certo, la Bosnia è un Paese per metà musulmano, ma gli abitanti mantengono abitudini occidentali: bevono alcol, si vestono all’Europea, non hanno un particolare interesse per hijab e burqa. Anzi, l’arrivo dei wahabiti li spaventa.
Per dare qualche numero, si può dire che nel 2010 i turisti dell’EAU non toccavano quota settanta. Nel 2015 erano 7.265 e nei primi sette mesi del 2016 erano già 13.000. Equilibri che cambiano. La totalità degli arabi, compresi gli altri Paesi, è di 60mila, e molti di questi comprano terre e proprietà (e sono quelli più temuti). Naturale che la loro presenza cominci a pesare: i locali, dice la Reuters, sono rimasti impressionati nel vederli pregare all’aperto (i bosniaci, per abitudine, pregano in casa o in moschea) e nel veder sorgere ristoranti e supermercati che non servono né vendono carne di maiale e alcolici. La paura è che possano cominciare a far sentire sempre di più la loro voce.
Non sono timori infondati. Già in passato il Paese, durante la guerra civile dell’inizio degli anni ’90, è stato attraversato da combattenti arabi. Questi soldati erano portatori di una visione dell’islam molto rigida, che ha messo radici in alcune aree del Paese – quelle da cui, guarda caso, provengono i foreign fighters bosniaci che si sono uniti all’Isis – e che potrebbe tornare in voga. “Non vogliamo vivere nel Muslimstan”, dicono alcuni, spaventati dagli acquisti di case e terreni.
Altri, però, sono contenti. L’arrivo degli arabi significa soldi in più, e con quei fondi l’economia del Paese può cominciare a girare. “Qui è difficile vivere – dice un venditore di frutti di bosco e di miele – Se si possono migliorare le condizioni di vita, ben vengano anche loro”. E loro, appunto, vengono.

venerdì 9 settembre 2016

Facundo Huala ritorna in libertà - Patrizia Larese

Facundo Huala, autorità politica del Movimento Mapuche Autonomo di Puelmapu, è stato rimesso in libertà e non sarà estradato in Cile, dove avrebbe rischiato una condanna esemplare (18 anni) per “terrorismo”, secondo la legge pinochettista ancora in vigore oltre la cordigliera andina. Lo ha deciso un giudice argentino nell’udienza tenuta a fine agosto a Esquel, cittadina della Patagonia dove erano stati concentrati ben 400 agenti, preoccupati dalla presenza delle tante persone convenute da tutta la regione, ma anche dalla capitale, (come nel caso del Premio Nobel Adolfo Perez Esquivel) per manifestare solidarietà a Facundo. Il giovane “lonko” mapuche era stato arrestato, con una violenta operazione di polizia, dopo la partecipazione a un presidio per il recupero delle terre ancestrali nella Estancia Leleque illegalmente occupata da Benetton

Alle prime luci dell’alba del 27 maggio scorso, la polizia argentina e il Grupo Especial de Operaciones Provinciales (GEOP), le Forze Speciali della Provincia, erano intervenuti con violenza al Lof di Resistenza di Cushamen, comunità rurale della provincia patagonica del Chubut. Lo sgombero era stato deciso perché i Mapuche, al fine di recuperare le loro terre ancestrali, stavano presidiando un territorio all’interno dell’estancia Leleque (proprietà Benetton) sulla Ruta 40 a circa 100 km. da Esquel.
Secondo la radio comunitaria FM Kalewche, l’azione violenta della polizia era stata motivata dall’ordine di cattura internazionale che pendeva nei confronti di Facundo Jones Huala, uno dei giovani mapuche che viveva al Lof e che è accusato di terrorismo. A causa di ciò l’intervento delle forze dell’ordine si è svolto con gas lacrimogeni e grosse armi: dall’anno scorso per la giustizia argentina i giovani sono terroristi. Al termine dell’azione della polizia, erano state condotte in carcere sette persone. Dopo alcuni giorni, sei erano state rilasciate, mentre per Facundo Jones Huala era stata richiesta l’estradizione in Cile. Una condizione enormemente più grave dal momento che la legge antiterrorismo in Cile, quella voluta da Pinochet negli anni ’70 e ancora in vigore, è ancora più dura e repressiva di quella argentina. “Al Lof sono rimaste due donne con quattro bambini circondate dalla polizia – aveva detto Martiniano Huala, il referente della Comunità mapuche di Esquel – per questo motivo abbiamo bisogno che questi fatti vengano diffusi il più possibile.”

Facundo Jones Huala, lonko (leader politico e religioso della comunità mapuche), è un attivista del Movimento Mapuche Autonomo di Puelmapu e della Resistenza Ancestrale Mapuche, una organizzazione impegnata in azioni dirette verso le multinazionali ed i governi cileno ed argentino. In un’intervista rilasciata all’agenzia ANRED, Facundo sostiene che il potere e la responsabilità del ruolo che ricopre fanno sì che egli debba impegnarsi in una militanza attiva per le terre e le famiglie mapuche. Dichiara di essere un perseguitato politico: “Il nostro Movimento – afferma – lotta per il recupero delle terre ancestrali in diversi luoghi tra cui le zone di Villa la Angostura (Argentina)contro il latifondista statunitense William Fisher che pretende di installare un impianto per il prelievo dell’acqua”.
Nel gennaio del 2013, insieme con altre cinque persone. Facundo era stato arrestato a Pilmaiquén, in Cile, con l’accusa di incendio, un’accusa pretestuosa ma assai comune nella repressione della lotta della comunità mapuche di quelle terre che si oppone alla costruzione di una diga sul fiume Pilmaiquén. Nel 2009, infatti, era stato approvato l’ennesimo progetto idroelettrico su un territorio che apparteneva ai Mapuche. Si tratta del progetto Central Hidroeléctrica Osorno, dell’impresa multinazionale Pilmaiquén S.A, prevede l’inondazione del Ngen Mapu Kintuante, situato a Pilmaiquén, nella comunità mapuche di El Roble Carimallin, un luogo dove sorge un complesso cerimoniale sacro per i mapuche-williche (cioè i Mapuche del sud), motivo per cui nel 2004 è nato un movimento di protesta. Tra gli arrestati del 2013 c’erano anche due machi. La/il machi è la guida spirituale dei Mapuche, la persona che cura il popolo secondo le tradizioni, un ruolo molto rispettato e di fondamentale importanza nella cultura.
E’ dalla fine del 2012 che lo Stato cileno ha varato una nuova tattica volta a indebolire la lotta dei Mapuche: la detenzione arbitraria delle sue autorità ancestrali politiche e religiose, siano esse machi, werken (portavoce) o lonko (capo politico). “Mentre mi trovavo in Cile a Pilmaiquén – ha raccontato Facundo nell’intervista ad Anred – ammalato e in cura presso la machi, portavoce delle comunità che resistono all’invasione delle centrali idroelettriche, sono stato arrestato e detenuto in prigione per un anno. Sono accusato di essere un terrorista perché lotto per il recupero delle terre ancestrali e nei miei confronti viene applicata la Legge Antiterrorista. Nel processo di recupero delle terre, per i Mapuche non esistono recinti, non c’è uno Stato. Non esiste lo Stato argentino, né quello cileno. Non esiste neppure la logica della proprietà winka (bianca). Potremmo dire che c’è una “zona mapuche liberata”, dove si ricostruisce la nostra vita. Questo è il nostro progetto politico. Stiamo lottando per cacciare le multinazionali dal nostro territorio, per espellere le miniere, le industrie petrolifere, i Benetton, i Lewis e tutta l’imprenditorialità nazionale”.
 “Lo Stato ha generato questo conflitto politico storico e non ha saputo risolverlo. Per questo motivo – continua Facundo – noi ci impegniamo nel “recupero delle terre”, è un processo rivoluzionario, perché stiamo ricostruendo il nostro mondo. Occorre ricordare che i popoli nativi vivono nelle terre peggiori: pietrose, sabbiose, sono spazi ridotti e senza acqua. Mentre i capitalisti, i proprietari terrieri posseggono le terre migliori, le terre produttive (…) Noi Mapuche siamo stati torturati e perseguitati per molti, molti anni. Molte morti per il recupero delle terre cnon sono mai state denunciate. Chiediamo, come popolo mapuche, un cammino di liberazione nazionale, come nelle altre nazioni oppresse impegnate in un cammino di emancipazione”.
Adolfo Pérez Esquivel, Premio Nobel per la Pace 1980, sempre vicino alle lotte dei popoli nativi, è giunto ad Esquel per partecipare all’udienza del 31 agosto, quella in cui è stata chiesta l’estradizione di Facundo Jones Huala in Cile. Pérez Esquivel è ancora presidente della Commissione per la Memoria della Provincia (CPM Comisión Provincial por la Memoria) di Buenos Aires. La cittadina di Esquel per questo evento è stata invasa da più di 400 poliziotti, sono arrivati elicotteri, data la presenza dei numerosi Mapuche venuti per testimoniare il loro sostegno a Facundo. Pérez Esquivel ha dichiarato: ”Ė necessario porre fine a questa contraddizione che criminalizza i popoli nativi per le loro lotte ed i loro diritti ancestrali, mentre si continua a beneficiare i grandi latifondisti nelle terre che non appartengono loro. In questo contesto, Facundo Jones Huala è un detenuto politico. Saremo presenti all’udienza per esprimere la nostra posizione nella difesa dei diritti dei Mapuche nella regione, perché ci preoccupa il fatto che i popoli nativi siano rappresentati come assassini quando, in realtà, sono vittime. Si sta violando la Costituzione Nazionale, l’accordo dell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) la dichiarazione dei diritti delle Nazioni Unite sui popoli nativi.
Huala è incriminato in due cause penali: una per supposta usurpazione ed abigeato denunciato dalla Compañia de Tierras del Sur Argentino, di proprietà Benetton, e l’altra, per i presunti delitti di incendio, detenzione illegale di armi di fabbricazione artigianale ed entrata clandestina in territorio cileno, per la quale la giustizia del paese confinante sollecita l’estradizione del leader mapuche. La comunità ha respinto reiteratamente le accuse di incendio di boschi o praterie, riaffermando la propria visione che dà assoluta priorità alla difesa ed alla protezione della natura e dell’ecosistema.”
Il 2 settembre è finalmente arrivato il verdetto, la CPM ha pubblicato sulla sua pagina FB un comunicato in cui “celebra la sentenza del giudice federale Guido Otranto che ha pronunciato la nullità del processo di estradizione in Cile del lonko mapuche Facondo Jones Huala. La giustizia ha riconosciuto l’esistenza di pressioni e violenze contro i testimoni presenti nella causa. A questo si somma lo spionaggio illegale utilizzato durante il processo di procedimento giudiziario provinciale.
Nella cornice del tavolo di dialogo convocato dal giudice, la Commissione provinciale per la memoria (CPM) reclama ora una soluzione del conflitto che rispetti i diritti ancestrali dei paesi originari. La libertà concessa a Huala per questa causa rappresenta un passo importante nella ricerca di giustizia ed obbliga ad approfondire le istanze di dialogo con l’INAI (Instituto Nacional de Asuntos Indígenas) e le autorità provinciali e nazionali per trovare una soluzione consensuale del conflitto con le comunità mapuche del Chubut. La CPM esige però la sospensione delle persecuzioni da parte della polizia e giudiziarie contro i militanti mapuche e le organizzazioni sociali e dei diritti umani che fanno parte della Rete di Appoggio al Lof in Resistenza e sottolinea che la risoluzione di questo conflitto deve rispettare i principi costituzionali di riconoscimento della preesistenza dei popoli originari.”

giovedì 8 settembre 2016

Lettera a mia madre, Berta Cáceres - Bertha Zúniga Cáceres



Sei mesi fa stavo viaggiando dal Messico all’Honduras con una gran fretta, il tempo si era quasi fermato. Dovevo trovarmi con Laura e Salva per poter dire addio alle tue mani e ai tuoi occhi. La notizia del tuo assassinio aveva un senso, giorni prima infatti stavamo scrivendo insieme il comunicato che denunciava la riattivazione, sull’altra riva del fiume Gualcarque, del progetto Agua Zarca. Puntavamo a fermarlo mediante la denuncia del ruolo complice delle banche finanziatrici, nonostante fosse chiaro che DESA non avesse nessuna intenzione di farlo e conoscessimo bene la sua aggressività.
Non potevo credere che non c’eri più, ma non ho mai pianto sfiancata dal dolore. Ho pianto indignata perché il mondo aveva permesso la tua morte, perché esseri perversi avevano flagellato il tuo corpo con dei proiettili, perché sapevo che non avrei più sentito la tua voce. E mi fece paura rendermi conto di come ci avevi ben preparato a quella notizia, fidandoti che, quando non ci fosse stata più la tua voce, ci sarebbero state le nostre, le migliaia che avrebbero parlato in tuo nome, per continuare a gridare quello che hai sempre gridato: Giustizia.
Cercare la giustizia è un percorso tortuoso, fatto anche di silenzio, e di braccia, mani, cuori che non lasceranno che Berta muoia così, impunemente. Sei mesi dopo, ci indigna che il governo golpista e dittatoriale di Juan Orlando Hernández continui a ignorare la nostra richiesta di un gruppo indipendente di investigatori che ci permetta di conoscere la verità sul crimine.
Ci indigna sapere che DESA-Agua Zarca non ha intenzione di fermare il progetto, che manda la sua tecnica, Elsia Paz, nei canali di comunicazione più grandi d’Honduras per ripulire il nome dell’impresa. Ci indigna il fatto che banche come FMO non abbiano intenzione di sospendere il finanziamento a questo progetto di morte, ci indigna sapere che siano sempre stati a conoscenza di quanto stesse succedendo, e che a loro non sia mai importato niente di quello che soffriamo per colpa del loro atteggiamento colonialista e del loro denaro sporco di sangue.
Ci indigna vedere la inettitudine delle istituzioni honduregne in un caso considerato “di priorità nazionale”. Ora ascolto una delle tue canzoni preferite e mi entra dentro al cuore questo verso: “e anche se scende la notte, torna la luna, torna l’amore”, era uno dei tuoi principi. Hai vissuto tutte le avversità possibili, non ti sei mai fermata e hai sempre sorriso, ti sei riempita di orgoglio e soddisfazione per lottare spalla a spalla con il tuo popolo, facendo rivoluzioni, dentro casa e nelle strade.

E  ora è quello che facciamo noi: sorridere e lottare come guerriere, senza mai perdere la speranza. Sei mesi fa ho saputo che le mie braccia, le mie mani ed anche la mia voce erano le tue. Sei mesi fa ho dichiarato guerra alla morte. Per sei mesi migliaia di voci hanno gridato: “Giustizia per Berta”. Quel 3 marzo ti ho persa, ma ho guadagnato un sacco di zii, zie, fratelli e sorelle.
Continueremo a lottare per te, con i tuoi valori, con la tua forza e la tua allegria, senza paura: nessuno ammazza Berta Cáceres. Mia mamma non è stata uccisa, egli assassini che volevano ucciderla si sono fregati da soli, perché lei è qui, perché vivrà in ognuno e ognuna di noi, fino a quando resteremo in piedi a lottare contro questa impresa assassina, contro le dighe, contro la privatizzazione dei boschi e dell’ossigeno.
Qui con noi vivrai mamma, in noi vivrà Berta Cáceres.
Con l’amore complice di sempre:
Ce la faremo, è una promessa.
¡Hasta la Victoria Siempre, Mami!

Articolo originale in spagnolo qui, traduzione a cura di Mario Zuppiroli
Fonte: www.puchica.org
da qui

lunedì 5 settembre 2016

Viaggio nella foresta amazzonica dove il silenzio non esiste - Marina Forti


I puntini sulla mappa hanno nomi come Nueva Esperanza, Nuevo Destino, Nueva Patria. Oppure El Porvenir (“l’avvenire”) o ancora nomi di santi, perfino un ottimista Nuevo Paris. Sono villaggi sparsi intorno alla cittadina di Pucallpa, nell’Amazzonia peruviana, tra canali e lagune formati dal fiume Ucayali – che poi è il Rio delle Amazzoni, che per una buona metà scorre in Perù. Qui però è indicato con altri nomi: Urubamba quando scende dalle Ande sotto a Cuzco, Ucayali quando ha raggiunto la pianura, infine Amazonas ma solo centinaia di chilometri più a valle, dopo la fusione con il fiume Marañon.
Insomma: siamo nella parte più occidentale e remota del bacino amazzonico; da qui il fiume percorrerà ancora più di cinquemila chilometri prima di raggiungere l’oceano Atlantico.
Alla fine dell’ottocento Pucallpa era solo una missione francescana sperduta nella selva. Poi sono arrivati i caucheros, avventurieri che hanno accumulato fortune mandando i nativi a estrarre il caucciù (sì, come Fitzcarraldo, ma la realtà era meno romantica e più violenta): è stato il primo sfruttamento “industriale” dell’Amazzonia. Poi sono arrivati imprenditori in cerca di legno pregiato.

Il fiume della speranza
Nel 1945 è arrivata anche la strada, l’unica che collega Lima all’Amazzonia scavalcando le Ande. Così Pucallpa è diventata una piccola città: oggi conta 220mila abitanti, alcune vie asfaltate, il mercato, le scuole, ed è il primo porto fluviale con un regolare servizio di traghetti per navigare a valle (cioè verso nord). Un crocevia di commercio, passaggio di tagliatori di legname (spesso di frodo), imprenditori, avventurieri, missionari, nativi. E poverissimi contadini meticci arrivati dalle Ande o dalla costa in cerca di fortuna: per questo i villaggi dell’Amazzonia si chiamano destino, speranza, avvenire.

All’alba di un giorno di luglio partiamo in direzione di quei puntini. Eccoci a Puerto Callao, sul lago di Yarinacocha che in realtà è una laguna dell’Ucayali appena a nord di Pucallpa. Voltiamo le spalle a un “lungolago” di ristorantini popolari, piccoli negozi di generi vari, e alcuni bar con verande e nomi esotici.
Nella stagione delle piogge il lago sale fin qui, ma ora è in secca e bisogna scendere una lunga scarpata fino all’imbarcadero, cioè le barche tirate in secca e qualche passerella di legno per non scivolare sulla sponda argillosa. Ci facciamo largo tra il vociare dei venditori di pesce e i richiami dei barcaioli che fanno la spola tra le località del lago. Infine eccoci sulla Normita, barca dalla sagoma allungata, con una tettoia a dare ombra e un motore peki-peki, con l’elica retta da un’asta che permette di sollevarla quando il fondale è troppo basso. Abbiamo l’attrezzatura essenziale: tenda-zanzariera, acqua potabile, vettovaglie, carburante, fornellino, lampada a petrolio e qualche torcia. E una guida esperta, buon conoscitore della natura e degli umani della zona. 
Attraversato il lago passiamo il villaggio San Francesco, fondato da un padre francescano con nativi shipibo “riscattati” dai caucheros. Imbocchiamo un canale che taglia verso il rio Ucayali. È solo un fiumiciattolo fangoso, ma c’è un intenso traffico, barche collettive, chiatte cariche di merci, canoe. Sulle sponde si intravede a volte una coltivazione di banani, un orto, magari una canoa, segno che dietro c’è un villaggio. Passiamo accampamenti temporanei di pescatori, semplici amache sotto piccole tettoie: pescano un paio di giorni poi vanno a vendere il pescato a Pucallpa.
Attraversato l’Ucayali imbocchiamo il rio Blanco, un piccolo affluente sul lato orientale. Qui la vegetazione è più vecchia, grandi ficus con radici a lamine, liane che diventano tronchi, mangrovie con le radici in acqua: ma è una foresta rada perché gli alberi più pregiati sono scomparsi, tagliati da tempo.

Il fiume si stringe. La nostra guida descrive in modo variopinto gli animali della foresta, uccelli, serpenti. Promette di mostrarci i caimani, che si acquattano nella riva fangosa lasciando fuori solo gli occhi che di notte brillano come catarifrangenti, e scattano appena vedono una preda. Parla dell’anaconda, che quando ha fame esce dall’acqua ed è capace di portarsi via una pecora o un bue da cento chili: “Lo rispetto molto, l’anaconda”. Nei passaggi difficili si siede a prua per segnalare gli ostacoli al figlio, che guida la barca tra secche e correnti.
Imbocchiamo il rio Calleria, passiamo il villaggio Patria Nueva. Giunti a un ampio approdo lasciamo la Normita e risaliamo un sentiero fino al villaggio Calleria, abitato da nativi shipibo. Bel villaggio, solide case di legno costruite su palafitta, tetti di foglie di palma rifatti con cura ogni anno. Ogni casa ha il suo pannello solare, grazie a un progetto sovvenzionato dal governo. Strano però, di solito nei villaggi nativi le case sono sparse tra gli alberi. Qui invece sono tutte in vista, ben allineate ai due lati di un lungo prato che funge da spazio comune, piazza, viale. Poi capisco: era una pista d’atterraggio per i piccoli aeroplani usati dai missionari mandati dalla chiesa battista degli Stati Uniti, con il progetto di evangelizzare i nativi traducendo la Bibbia nelle loro lingue (quella del Summer institute of linguistics è una delle storie più straordinarie e ambigue dell’Amazzonia moderna).

La teoria e la realtà della foresta protetta
Oggi non vedo più missionari americani a Calleria; invece sento parlare il linguaggio dello sviluppo sostenibile, le risorse naturali, i “saperi ancestrali”. Il villaggio ha 315 abitanti, una settantina di famiglie. Luis, il capovillaggio, spiega che molti giovani della comunità sono andati a studiare a Pucallpa o fuori, a Lima, perfino all’estero, e “sono tornati con grandi idee di sviluppo”. Ora i dirigenti della comunità sono eletti “con il metodo democratico”, spiega. 
La comunità è molto cambiata negli ultimi anni”. Luis mostra con orgoglio l’antenna parabolica, la radio e il telefono pubblico; la scuola e la casa comune. Parla di forestazione sostenibile, che significa tagliare solo alberi adulti, non a tappeto ma a “sfoltimento”, su un ciclo ventennale per lasciar crescere la foresta; ci lavorano 12 persone, “appena avremo la certificazione forestale potremo vendere il nostro legname”. Infine ci porta giù verso il fiume a vedere l’immancabile allevamento di pesce (ogni villaggio nativo ne progetta uno) e le vasche con i girini di paiche, il più pregiato tra i grandi pesci dell’Amazzonia, che si sta estinguendo per eccesso di pesca (di frodo, perché è una specie protetta: ma ceviche e zuppe di paiche sono servite in tutte le osterie dell’Amazzonia peruviana).
Il progetto qui è ripopolare il fiume con giovani paiche e anche venderne sul mercato, perché resta un pesce ricercato.

Il rio Calleria si addentra serpeggiando nella zona “intangibile”, secondo la definizione burocratica. In parte è riserva indigena: ogni comunità ha il suo territorio e ha il diritto di estrarne le risorse (incluso il legname), per questo a Calleria aspettavano la certificazione.
Altrimenti, tagliare alberi o estrarre qualunque risorsa è vietato ai non nativi – “intangibile” – almeno in teoria. Nei fatti, la regione alla frontiera tra il Perù e il Brasile è terra di conquista per tagliatori di frodo. La deforestazione illegale è così massiccia che, secondo uno studio della Banca mondiale, l’80 per cento del legname esportato dal Perù è tagliato illegalmente.
I tagliatori di frodo sono bande armate che invadono il territorio dei nativi, si accampano nella foresta profonda con le loro motoseghe, tagliano il possibile – mogano, cedro, caoba, specie protette dal legno pregiato – e poi caricano il bottino su chiatte e barche. Proprio da queste parti qualche tempo fa la forestale ha fatto irruzione in un campo illegale, arrestato 15 abusivi e recuperato 12 metri cubi di buon legno. Spesso gli abusivi ingaggiano piccole guerre per difendere la loro economia illegale, anche se poi loro stessi sono solo l’ultima pedina. Due anni fa alcuni dirigenti nativi ashaninka sono stati assassinati, dopo aver denunciato un traffico illegale con complicità di spicco.
Ridiscendiamo verso la laguna. Due ragazzi su una canoa si avvicinano per venderci dei pesci. Saranno la cena, fritti sulla nostra barca insieme a fette di platano, la banana verde. Butto in acqua lische e teste di pesce, ma faccio appena in tempo a vederle scomparire in un guizzo: divorate all’istante da piccoli piranha, voracissimi, poco più grandi del palmo di una mano (piccola ecologia quotidiana: gli scarti organici rientrano subito nel ciclo naturale).

Suoni inaspettati
Prima del tramonto troviamo una radura dove sistemare il campo per la notte, prima che il crepuscolo porti i terribili sancudos, grossi tafani. Ripuliamo il terreno, stendiamo una spessa tela cerata. Non abbiamo una vera e propria tenda ma un’ampia zanzariera che fissiamo da una parte agli alberi vicini, dall’altra a pali conficcati ben a fondo nel terreno. Stendiamo i materassini, fissiamo un telo impermeabile a tettoia. Infine la nostra guida traccia un piccolo solco intorno alla tenda-zanzariera e lo cosparge di petrolio: “È infallibile, tiene lontano i serpenti”.
Otto di sera: due ore dopo il tramonto è buio pesto. Acrobazie per scivolare sotto la zanzariera senza portarci dietro la nuvola di insetti che ci segue (nonostante i repellenti di cui siamo cosparsi).
La notte si riempie di suoni inaspettati. Scricchiolii, sgocciolii. Versi di animali notturni a noi sconosciuti. Cigolio di rami. Fruscio di passi? Passi, non c’è dubbio, qualcuno cammina nel sottobosco, si avvicina. Sotto la zanzariera però nessuno reagisce. Mi rassegno a dormire, un sonno popolato di passi furtivi nella foresta.
La mattina dopo, mentre scaldiamo l’acqua per il tè (e per lavarsi i denti o fare la barba), la nostra guida ride: passi, fruscii? Saranno stati animaletti che andavano a bere al fiume, o serpenti che strisciavano sulle foglie: “Nella foresta non siamo mai soli”.
(*) Ripreso dal settimanale «Internazionale». Marina Forti ha un suo blog:www.terraterraonline.org/blog/ ovvero «Terra Terra – cronache da un pianeta in bilico». (db)