sabato 12 dicembre 2015

Ridurre le merci - Giorgio Nebbia

C’è un invitato di pietra alla favolosa riunione della Cop 21, la ventunesima riunione della Conferenza delle parti interessate alla limitazione dei mutamenti climatici: le merci. A Parigi per due settimane ministri, sottosegretari, scienziati, lobbysti, industriali, cercheranno di inventare strumenti fiscali, economici, incentivi e commerci per diminuire le modificazioni della composizione chimica dell’atmosfera dovute alle emissioni di “gas serra”, come anidride carbonica, metano, ossidi di azoto, composti organici alogenati, eccetera e ai cambiamenti dei terreni agricoli e delle foreste. Si parla di oltre 40 miliardi di tonnellate all’anno di gas serra: una parte viene eliminata dall’atmosfera trascinata dalle piogge nei mari; una parte contribuisce alla fotosintesi; una parte, circa 20 miliardi di tonnellate all’anno, va ad aggiungersi ai circa 3.000 miliardi di tonnellate di gas serra che già sono presenti nei 5 milioni di miliardi di tonnellate di gas dell’atmosfera. Tenendo conto del peso specifico dei vari gas, il volume dei gas serra nell’atmosfera aumenta ogni anno di circa due unità ogni milione di volumi di gas totali (ppm).
Tutti parlano di pi-pi-emme, di aumento della temperatura terrestre, del pericolo di avanzata dei deserti, di tempeste tropicali, di fusione dei ghiacciai, di aumento del livello dei mari, ma nessuno dice esplicitamente che tutti questi guai sono dovuti alla crescente domanda di energia la quale, a sua volta, dipende, direttamente o indirettamente dai combustibili fossili. E che l’energia non è una cosa astratta, ma “serve” per produrre merci (cemento o acciaio, grano o plastica, navi o telefoni mobili, eccetera) o servizi (mobilità o sanità, o istruzione; c’è energia anche “dentro” i libri o i banchi di scuola, eccetera). Per rallentare i cambiamenti climatici non è possibile diminuire i gas serra che già sono nell’atmosfera; si può solo aggiungerne di meno ogni anno e per fare questo ogni anno bisogna usare meno energia fossile.

Molti governanti cominciano a essere spaventati dal fatto che i cambiamenti climatici comportano dei costi, necessari per risarcire i proprietari della case allagate, dei campi alluvionati, delle strade franate, e fanno arrabbiare gli elettori, e da anni si incontrano, senza successo, per arzigogolare qualche strumento fiscale o monetario o per incentivare qualche forma di energia che emetta meno gas serra: solare, eolico, o anche (chi si vede ?) nucleare. Senza contare che anche le macchine che producono elettricità o calore rinnovabili o con la fissione nucleare, proposti come soluzioni “decarbonizzate”, l’orribile neologismo, sono anche loro merci che, andando a ritroso nel ciclo produttivo che le ha fabbricate, hanno richiesto fonti energetiche fossili. Dall’albero della conoscenza non pendeva una mela ma pendevano barili di petrolio, sacchi di carbone, serbatoi di metano.
Alcuni paesi, e anche il nostro, stanno timidamente facendo qualche passo per cambiare le attuali tecnologie e gli attuali prodotti, per ottenere automobili, frigoriferi, plastica, dissalatori, centrali, abitazioni, che hanno richiesto o richiedono meno energia nella fabbricazione o nel funzionamento, che consumano un po’ meno energia per tonnellata di grano o per chilometro percorso o per chilo di cibo conservato al freddo o per metro quadrato di spazio abitabile; macchine o beni o servizi talvolta baldanzosamente pubblicizzati come “energia zero”. Niente è possibile ottenere senza energia; la natura non da niente gratis. Altri passi avanti potranno essere fatti, soprattutto se progrediranno i metodi, ancora balbettanti, di corretta misurazione del “costo energetico”, cioè della quantità di energia richiesta per unità di peso o di servizio, una operazione che richiede il contributo della Merceologia, la scienza capace di descrivere i flussi di materia e di energia e la qualità delle merci.

L’auspicabile diminuzione del costo energetico delle merci è però neutralizzata dall’aumento della loro quantità, imposto dalle regole della società dei consumi e del profitto. Se i governanti avessero una sincera intenzione di rallentare gli effetti disastrosi, e costosi, dei cambiamenti climatici dovrebbero avere il coraggio di incoraggiare la diminuzione dei consumi di merci — e quindi di energia — anche a costo di disturbare gli interessi della maggior parte degli elettori, venditori di combustibili, fabbricanti di merci, padroni e lavoratori e commercianti e gli stessi “consumatori” intossicati dalla pubblicità, complici e vittime. Se i potenti della Terra non hanno voglia di mettere in discussione il mondo dei soldi e degli affari, si tengano le città allagate e i campi inariditi.

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