martedì 15 settembre 2015

Perché la desertificazione ci riguarda - Annamaria Testa

Anna Luise ha gli occhi azzurri dietro gli occhiali con la montatura colorata e lo sguardo aperto. È napoletana e, nonostante viva a Roma, quando si accalora il suo accento rotondo viene fuori. È un’esperta di desertificazione e lavora per l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra). Ce l’ho di fronte e la sto intervistando.
Di cosa si occupa esattamente?
Mi occupo di lotta alla desertificazione. Che non riguarda, come molti credono, i deserti, ma i territori fertili che perdono la loro produttività biologica e diventano inadeguati a sostenere la vita e a far crescere prodotti agricoli.
Quali sono le conseguenze?
La desertificazione fa perdere ad amplissime porzioni di territorio il loro valore economico, estetico, socioculturale e religioso.
Un territorio può avere un valore religioso?
Il caso tipico è quello di Uluru (Ayers rock) in Australia. Ma anche nelle religioni animiste africane molti territori sono considerati aree sacre e la loro distruzione ha ricadute drammatiche sulle comunità perché ne scardina i valori. Da noi, molti territori hanno grande rilievo non religioso ma socioculturale: se vengono distrutti, l’impatto può risultare ugualmente grave.
A cosa serve studiare la desertificazione?
Dobbiamo capire come conservare l’equilibrio degli ecosistemi. Se questo è pregiudicato, la qualità della vita di tutti noi peggiora. La desertificazione è provocata da due categorie di fenomeni: gestione non sostenibile del suolo e cambiamenti climatici.
Lottare contro la desertificazione vuol dire promuovere pratiche agricole sostenibili, che impediscano per esempio al suolo di compattarsi o di avere tassi di salinità troppo alti, e aiutino a tenere sotto controllo l’erosione eolica e idrica, provocata dalla forza del vento e dell’acqua che dilava e corrode lo strato superiore fertile del terreno.
Cioè, è tutto un problema di suolo troppo duro?
Troppo duro, o troppo fragile e non coeso. Il suolo reso fertile dai microrganismi è profondo in media trenta centimetri. Se diventa duro come il cemento o se, al contrario, si sgretola e diventa polvere, quando piove, ammesso che piova, non riesce a bagnarsi a sufficienza perché l’acqua, non trattenuta, se ne scivola via. Così il suolo smette di essere produttivo.
Quindi la sopravvivenza alimentare del genere umano è legata a una buccia di terra della giusta consistenza e profonda trenta centimetri?
La profondità può variare, ma la media è questa. È abbastanza impressionante. Il suolo è stato definito “la pelle della nostra terra”: è il luogo dove si verificano gli scambi biochimici che permettono alle colture di crescere.
Quando si è cominciato a parlare di desertificazione, e quando a cercare di contrastarla?
La desertificazione è un fenomeno lento e non sappiamo bene quando sia cominciata. Se ne è parlato per la prima volta nel corso della conferenza di Stoccolma del 1972, che ha lanciato l’idea di sviluppo sostenibile, cioè di equilibrio tra società, economia e ambiente. La prima decisione politicamente importante è stata presa nel 1992 a Rio de Janeiro, con una convenzione delle Nazioni Unite (Unccd) entrata in vigore nel 1996, fortemente voluta dai paesi africani soprattutto dell’area maghrebina e subsahariana per i quali la desertificazione è una diretta minaccia alla sopravvivenza. L’Italia ha aderito nel 1997. Oggi aderiscono 198 paesi.
Quanto pesa globalmente il rischio di desertificazione?
Diciamo che nel mondo il suolo fertile è il 75 per cento delle terre emerse. Di questo 75 per cento, almeno il 40 per cento è variamente degradato, anche perché è inquinato o contaminato, e si trova in gran parte nelle zone aride o semiaride: non stiamo, lo ripeto, parlando di deserti, ma di zone in cui l’acqua c’è ma è scarsa.
La desertificazione è definita come il livello estremo del degrado del suolo, ed è, insieme al cambiamento climatico e alla perdita di biodiversità, uno dei tre grandi fattori di rischio di rottura dell’equilibrio ecosistemico. E quando si rompe un equilibrio così complesso, mica lo sappiamo quali possono essere le conseguenze: le variabili sono talmente tante che, come si dice in fisica, il sistema diventa caotico e del tutto incontrollabile.
Qui in Italia abbiamo rischi seri di desertificazione, o possiamo preoccuparci del solo cambiamento climatico?
Il cambiamento climatico aggrava la desertificazione perché fa crescere le temperature e altera il regime delle acque: teniamo presente che il Mediterraneo è considerato un hot spot, cioè un punto di particolare intensità dei cambiamenti climatici.
Circa il 20 per cento del nostro territorio nazionale è già stato riconosciuto come interessato da fenomeni di desertificazione tra il 1961 e il 2000, e un altro 20 per cento è a rischio di desertificazione nel giro dei prossimi venti o trent’anni. Nelle nostre regioni meridionali, ma anche in aree dell’Emilia Romagna, delle Marche o del Molise, i segni di desertificazione sono già evidenti. E non dimentichiamo che nel suolo “sano” è conservato il carbonio organico.
… cioè?
Il suolo contiene il doppio dell’anidride carbonica che troviamo nell’atmosfera, il triplo di quello che troviamo nei vegetali. Il soil organic carbon potrebbe mitigare i cambiamenti climatici dovuti all’eccesso di emissioni di anidride carbonica sequestrandola. Ma questo avviene, appunto, se il suolo è “sano”, e non eccessivamente sfruttato dall’agricoltura intensiva.
Come se ne esce?
Se ne esce facendo ricerca, sperimentazione ed educazione ambientale. Attivando politiche locali, regionali e nazionali: vuol dire, per esempio, razionalizzare l’uso delle risorse idriche, oppure riforestare. Oggi stiamo andando nella direzione dell’agroecologia: un’agricoltura che esercita meno pressione sul suolo impiegando meno fertilizzanti e passando, per esempio, da cinque a due raccolti di grano all’anno. Tra l’altro, qui in Italia avremmo mille buoni motivi per passare da un’agricoltura di quantità a un’agricoltura di qualità.
Che cosa può fare un singolo cittadino che si proccupa per la desertificazione?
Non dimentichiamo che i singoli individui indirizzano il mercato, per esempio comprando prodotti di stagione e prodotti locali: non pretendere di mangiare i peperoni a Natale è già qualcosa, perché evita che porzioni di territorio siano coperte da serre, in cui si usano troppi fertilizzanti e il terreno è eccessivamente sfruttato e danneggiato. E poi non bisogna stancarsi di fare opera di divulgazione e sensibilizzazione: è quello che stiamo facendo proprio adesso.

Nessun commento:

Posta un commento