mercoledì 21 maggio 2014

sulla gestione delle Foreste Demaniali - Giovanni Monaci

Da molto tempo si sente un gran bisogno di accendere un dibattito sulla produttività dei boschi in Sardegna, e sulla compatibilità di tale funzione con le altre più di carattere ambientale, da quella idrogeologica a quella naturalistica. Già trent’anni fa all’Università i docenti invitavano gli studenti a farsi promotori nei confronti dei  nascenti movimenti ambientalisti di una diffusione della cultura forestale, cercando con tutta la delicatezza necessaria di spiegare che la selvicoltura, eseguita secondo la scienza e tecnica appresa dall’esperienza dei secoli passati e secondo le più recenti metodologie dettate dalla selvicoltura naturalistica, è portatrice di sviluppo economico, di presidio idrogeologico delle montagne, e che può, anzi deve, conformarsi alle funzioni paesaggistiche e naturalistiche sempre più richieste da parte di una società diventata nel frattempo più sensibile a tali tematiche. Da tener presente che a quei tempi doveva ancora essere emanato  il c.d. Decreto Galasso che avrebbe attribuito ope legis una tutela paesaggistica a tutti i boschi.
Rispetto ad allora, sembra che non vi sia stata la capacità da parte del mondo accademico,  imprenditoriale, professionistico di spiegare ai profani della materia la compatibilità tra utilizzazione economica e tutela delle funzioni ecologiche dell’ecosistema boschivo, ma viceversa vi è stata semmai un irrigidimento ulteriore da parte di quest’ultimi, al punto tale che addirittura qualche settore politico ed economico ha attribuito al termine “ambientalista”  un significato dispregiativo, facendo torto a chiunque abbia a cuore la conservazione della natura e un mondo migliore.
La Sardegna, per quanto riguarda la questione forestale, è un caso particolare nel panorama italiano. Particolare perché, a differenza delle altre regioni, storicamente non si riconosce  al bosco una funzione di produzione legnosa. Le motivazioni possono ricondursi al fatto che le prevalenti specie arboree nostrane come il leccio, la sughera, la roverella,  mal si adattano ad un utilizzo come legname da lavoro per la produzione di assortimenti di maggior valore rispetto alla legna da ardere, con l’eccezione del castagno che però ha un areale piuttosto ristretto. Altro motivo è riconducibile alla convinzione di una scarsa produttività dei boschi dovuta a un regime climatico mediterraneo con scarse precipitazioni, che limita le produzione. Essendo poi la Sardegna una terra che ha da tempo immemore basato la sua economia prevalentemente sulla pastorizia, al bosco si è sempre guardato come luogo da pastura per gli armenti, in cui una selvicoltura razionale  non può trovare spazio perchè antagonista della pastorizia. Inoltre le vicende dello sfruttamento forestale del secolo diciannovesimo, iniziato con la ricerca da parte del regime sabaudo degli assortimenti adatti alla propria marineria, facendone commercio anche con altre nazioni, continuato con lo sfruttamento per la produzione delle traverse della nascente rete ferroviaria nazionale, e protrattosi ancora successivamente con la produzione del carbone di legna, produzione che è continuata fino alla fine della metà del secolo scorso, ha determinato sostanzialmente un’avversione da parte della società sarda per ogni ulteriore utilizzazione legnosa. Avversione alimentata anche dal fatto che lo sfruttamento boschivo intensivo è stato condotto in prevalenza da società ed imprenditori non isolani, coinvolgendo solo marginalmente maestranze ed operai locali, non contribuendo  pertanto un arricchimento reddituale ed un accrescimento professionale della popolazione sarda. La mancanza di un’imprenditorialità locale ha determinato anche il venir meno dell’interesse di pianificare le utilizzazioni boschive affinchè i tagli  si svolgessero con regolarità, garantendo la continuità nel tempo dell’attività, presupposto di un sistema che contemperi la rinnovazione del capitale boschivo nel corso del tempo. Non essendo gli imprenditori esterni proprietari dei terreni, ma soltanto acquirenti del soprassuolo, non avevano alcun interesse al mantenimento della produttività degli stessi, ma viceversa l’interesse consisteva nel realizzare nell’immediato il massimo profitto, con il conseguente successivo abbandono delle terre sfruttate. Eccezione può farsi per le compagnie di sfruttamento minerario, grandi consumatrici di legname per l’armamento delle gallerie e per l’alimentazione dei forni di lavorazione del minerale. Infatti, lo sfruttamento minerario è un’attività che si protrae per parecchio  tempo, tant’è che si esprime con il termine di “coltivazione mineraria”. Vi era pertanto l’interesse a garantirsi nel tempo l’approvvigionamento degli assortimenti legnosi necessari, e conseguentemente a regolamentare lo sfruttamento dei boschi in maniera intelligente. Prova ne è per esempio la conservazione del bacino forestale di Marganai, inserito nel più importante centro minerario della Sardegna e di cui ancora oggi se ne apprezza la consistenza boschiva.
L’avversità culturale all’utilizzazione boschiva è pertanto un retaggio storico degli errori del passato. E ancora oggi dall’opinione pubblica viene precluso il riconoscimento ai boschi sardi della produzione di beni  primari, con l’eccezione delle sugherete il cui assortimento commerciale è tuttavia un prodotto secondario del bosco. Tale disconoscimento è largamente diffuso anche nel mondo accademico e in parte dagli stessi operatori pubblici del settore. Parlare di funzione produttiva primaria dei boschi sardi è diventato praticamente un tabù, un sacrilegio.
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