mercoledì 31 dicembre 2014

IN BOCCA AL LUPO! (dal blog di Giovanni)


…Mi pare che questa spiegazione inscritta nella foto, abbia un che di etologico che la rende molto condivisibile. La trovo molto bella, limpida, diretta, onesta, persino coraggiosa. Sembra come una finestra sulla lupinità libera, che finalmente abbiamo intenzione di cominciare a guardare, dalla giusta distanza (la distanza del rispetto dello spazio altrui, non la distanza della paura irriflessiva). Se l'augurio è vecchio, questa più recente motivazione gli ridona attualità, lo trasporta verso nuovi territori, abitati da diverse sensibilità, nuove aperture, diversi movimenti verso l'incontro dell'altro - infinite altre singolarità viventi. Anche quelle umane, gli umanimali.

L'armamentario delle spiegazioni che vengono da altre fonti riportate, appaiono invece molto di più come il riflesso di una chiusura oppositiva, di una esclusione: ci raccontano di realtà diverse - anche se a ben pensarci non così tanto, purtroppo (si pensi a Daniza, alle campagne di disinfestazione di nutrie, cinghiali, lupi, ricorrenti in varie Regioni italiane) - fatte di ostilità immediata nei confronti di qualsiasi altro animale.

Per prima cosa, occorre sapere che il significato scaramantico è comune a tutte le spiegazioni. 

Una prima interpretazione…

lunedì 29 dicembre 2014

Il vegano consumatore, il nuovo nemico del vegano etico

Scegliamo il periodo natalizio per affrontare un tema a noi caro e che pensiamo sia di massimo interesse ovvero quello della diffusione capillare del veganismo a partire da premesse non strettamente etico politiche.
Etico politiche.
Esattamente.
Proprio da queste due parole crediamo sia necessario partire per ribadire quelle sono le premesse, gli ambiti di sviluppo e gli obiettivi del veganismo o meglio, quelli che dovrebbero essere viste le derive odierne.
Ma andiamo con ordine.
Il popolo dei vegetariani e soprattutto dei vegani aumenta e lo fa a vista d’occhio: non c’è quasi ormai più un ristorante che non proponga un menù ad hoc e pressocché tutti i programmi tv dedicati alla cucina offrono consigli per preparare piatti a base vegetale. “, parola di Panorama.
Il marketing animalista ha pensato a innumerevoli surrogati di tutti gli alimenti di origine animale. E così, sui banchi vegan troviamo “affettato, salame, wurstel, pancetta, porchetta, macinato per ripieni e ragu’, filetto, arrosto, maionese, latte”, tutti rigorosamente vegetali.”, leggiamo su un altro noto quotidiano on line.
E così potremmo andare avanti per ore tra link di sedicenti VeganCoach ovvero “professionisti” che guidano gli apprendisti vegani nel loro percorso, Pharma-cie Vegan e menu appositi inseriti fra quelli onnivorissimi di ristoranti che per puro business hanno deciso di strizzare l’occhio a chi preferisce il seitan alla costoletta.
Evviva!
Diranno molti di voi pensando che questa diffusione numerica corrisponda a una maggiore diffusione dei contenuti profondi legati al veganismo.

Noi la pensiamo diversamente...
continua qui

(grazie a Giuseppe per la segnalazione)

domenica 28 dicembre 2014

nostra sorella Sandra

L’orango Sandra ha diritto di essere liberata dallo zoo argentino in cui vive. È la conseguenza della sentenza di una Corte di giudici che ha riconosciuto la scimmia come “persona non umana” illegittimamente privata della sua libertà.  

Nel mese di novembre gruppi di attivisti per i diritti animali avevano presentato una petizione per sostenere l’«habeas corpus» a nome di Sandra. Un documento che normalmente viene usato per contestare l’illegittima detenzione di una persona. 

La corte ha considerato Sandra, nata in cattività in Germania e trasferita 20 anni fa in Argentina, come persona “non umana” con diritti fondamentali da tutelare. Ora l’orango di 29 anni, salvo capovolgimenti di sentenza dovuti a possibili ricorsi, dovrebbe finalmente lasciare lo zoo di Buenos Aires per continuare a vivere più in libertà in un santuario per animali. 

Quella presa in Argentina è una « sentenza storica che potrebbe aprire la strada ad ulteriori azioni legali non solo per altri grandi scimmie - spiega a La Nacion Paul Buompadre, avvocato per l’Afada (Association of Officials and Lawyers for Animal Rights) -, ma anche per altri esseri senzienti ingiustamente e arbitrariamente privati della loro libertà negli zoo, circhi, parchi acquatici e laboratori scientifici». 

Solo poche settimane fa, in un’analoga situazione, un tribunale statunitense non aveva riconosciuto lo status di “persona” allo scimpanzé Tommy, negandogli di fatto i diritti e le tutele previste per l’«habeas corpus».  
Nel 2011 la Peta (People for the Ethical Treatment of Animals) aveva intentato una causa contro il gestore del parco marino Seaworld relativamente a cinque orche catturate e detenute “in schiavitù”. La causa però venne respinta da un tribunale di San Diego...

qui un articolo molto interessante, in spagnolo



martedì 23 dicembre 2014

La Sardegna verso la servitù agricola: con le stesse dinamiche che imposero la petrolchimica - Salvatore Cubeddu

A Sassari l’hanno chiamata Matrìca, a Carbonia si chiamerà Mossi&Ghisolfi, a Nuoro vorrebbe farlo Clivati, anche per Chilivani è già stato approvato un progetto per la realizzazione di impianto di biogas con materia prima proveniente dall’agricoltura. Neanche se la Sardegna fosse il doppio di quella che è, basterebbe a nutrire questi impianti voraci. Si tratta di notizie riprese negli ultimi giorni. Con una nuova e peggiore, che va loro incontro: non è vero che il governo rinuncia a far pagare l’Imu dei terreni agricoli, ne ha solo spostato a gennaio il versamento.
Mentre noi si viaggia nelle strade per protestare contro l’occupazione militare delle nostre terre e l’arrivo delle scorie nucleari, la conferma del solito meccanismo di sviluppo ci si para davanti agli occhi, in avvio per i prossimi trenta-cinquanta anni. E se, come affermato ieri, pare che il Pd diSoru voglia essere partecipe dei movimenti anti-servitù, lo stesso partito risulta il protagonista politico e l’interlocutore sardo dell’invasione delle campagne sarde con le coltivazioni di cardi e di canne, le cui caratteristiche infestanti e consumatrici di acqua e suolo lascio descrivere agli esperti agronomi. Comunque, una tragedia per l’agricoltura e per l’economia sarda.
La gestione delle motivazioni è quella che portò alla petrolchimica di sessant’anni orsono: la fame di occupazione “moderna” e l’adeguamento dell’Isola agli standard continentali. Qualche giorno fa erano i sindacati chimici ad insistere con Pigliaru perché non abbia indecisioni verso Matrìca: in realtà erano in piazza per bloccare le crescenti incertezze sugli enormi svantaggi e danni per la Sardegna del procedere del progetto. Matrìca ed i suoi sindacati (chi non è dentro la materia non sa che il sindacato dei chimici nei fatti non è altro che un coordinamento di organismi sindacali aziendali, ai quali sarebbe drammatico affidare i nostri destini) hanno puntato sull’esclusiva per sé dell’utilizzo delle terre sarde, sono loro che per primi hanno “occupato il posto”, legato a sé l’università di Sassari ed il ceto politico locale, fatto le sperimentazioni promettendo risanamenti ambientali sempre rimandati ed occupazione probabilmente gonfiata.
Nel frattempo altri vogliono attingere a quel piatto, indifferenti al fatto che la Sardegna ha surplus di costosa energia e disattenti al fatto che il territorio non regge tutta quella richiesta di coltivazione e che la gente va imparando a porsi le giuste domande: a chi giova? Quali prezzi, e fino a che punto, l’Isola è disponibile a pagare per quelle decine di occupati, costretti a venire utilizzati già dall’inizio quale arma di ricatto contro l’interesse generale di un’agricoltura produttrice di beni commestibili, per difendere invece gli interessi esterni importati dai tramiti locali? Argomentazioni quali le nostre iniziano a penetrare.
Tore Cherchi – che ha sul tavolo un investimento di bioraffineria di canne da 220 milioni di euro del gruppo Mossi&Ghisolfi, che dovrebbe creare 300 posti di lavoro (150 diretti) a Porto Vesme – non ci dice di quanta terra avrà bisogno per arrivare a 80mila tonnellate l’anno di etanolo. Preferisce parlare di “una opportunità per la notevole estensione di terre marginali (la canna cresce anche in aree salse o da bonificare)”.
Nella sua ottica il problema delle terre risulta successivo e secondario, per noi resta principale: una volta che l’investimento fosse realizzato, sarebbe facile contrapporre il destino di quei pochi operai a quello dei giovani che volessero tornare alla terra. Tema di sovranità alimentare e di presenza agricola nel nostro territorio. C’è poi la giusta paura del monopsonio: una cordata delle aziende utilizzatrici dei cardi e delle canne controllerebbe i prezzi della materia prima, con gli effetti da noi già sperimentati con i caseari romani ed il latte portato dai pastori. Prima o poi i coltivatori di canne e cardi sarebbero costretti a vendere le terre.
Questo processo verrà accelerato dal pagamento dell’Imu. Parte delle nostre campagne sono in mano ad affittuari che le leggi hanno favorito. Proprietari lontani o anziani troveranno dannoso possedere delle terre oppresse dalle tasse, accetteranno qualsiasi compenso che l’industria fosse all’inizio disponibile ad offrire, ad affittarle per un lungo periodo e persino a venderle del tutto. Immaginatevi le terre sarde in acquisto da parte di associati all’Eni o al gruppo Mossi&Ghisolfi: non vi richiama il land grabbing (accaparramento delle terre) attuata dei cinesi in Africa?
Ma proiettatevi in avanti, anno dopo anno, con l’indispensabile ricambio dei coltivi già irrorati di concimi per le sementi agricole geneticamente modificate: una terra non nostra e non più fungibile per le coltivazioni di cui abbiamo bisogno e che ora importiamo. Peggio: interi territori diventerebbero disponibili all’acquisto da parte delle multinazionali. Non peccate di fantasia: pensate che, anche per il turismo, un territorio invaso da cardi e canne sia paragonabile all’attuale coperto da natura, greggi e coltivazioni?
Il tema che andiamo affrontando rappresenta una conquista di territorio assimilabile alle servitù militari. Dopo quella militare, industriale, ambientale e culturale è in atto la costruzione della servitù agricola. Come le altre, richiesta persino da parte di alcuni di noi.
Perché: pensate che, venerdì prossimo, quando Pigliaru incontrerà a Nuoro la classe dirigente locale, questa non gli rivolgerà la domanda che ieri faceva a se stesso Clivati da Ottana: “Dobbiamo puntare su una produzione biosostenibile, ma per farlo occorrono interventi da parte del Governo e della Regione!”. Li avrà con sé tutti, i dirigenti locali. Ed i Nuoresi chiederanno di avere pure loro la fabbrica di biodisel per la piana di Ottana e per tutta la provincia. Lo rivendicheranno come un loro diritto. E che: loro sono da meno dei Sassaresi e dei Sulcitani?
Salvatore Cubeddu

lunedì 22 dicembre 2014

Una mano che cura - Maria D’Asaro

A Palermo, su certi slabbrati marciapiedi di periferia, tra feci canine essiccate e rifiuti di ogni genere, il passante meno distratto nota anche talvolta dei recipienti di acqua ricavati da piccole vaschette o da bottiglie di plastica tagliate a metà: indovina che una mano pietosa li ha deposti lì perché qualche volatile o animale randagio, cane o gatto che sia, se ne possa servire. Mentre non è raro trovare, ai piedi di un albero o nei pressi di un giardino abbandonato, vaschette con resti di cibo, scorgere anche i recipienti colmi di acqua fresca e pulita è meno frequente. E allora il passante mastica piano un pensiero e nutre nel cuore un filo di gioia: finché il desiderio di cura alberga in anime generose, fino a quando qualcuno si preoccupa di dare da bere a sconosciute creature di strada, c’è ancora un po’di speranza di vita buona, in questo pianeta.                                                       
da qui

mercoledì 17 dicembre 2014

Vieni a vivere a Tula

“Non ne potete più dei ritmi della città? Sognate una qualità della vita migliore? Pensate di cambiare aria? Siete alla ricerca della serenità nonostante le difficoltà del nostro tempo? La soluzione è Tula“. È la trovata promozionale del sindaco della cittadina, Andrea Becca, e dell’assessore comunale della Comunicazione, Francesca Violante Rosso. Da alcuni anni l’amministrazione della cittadina a metà strada tra Sassari e Olbia, le tenta tutte per  far fronte ai problemi di spopolamento e invecchiamento. E ora che gli italiani rimettono al primo posto delle loro priorità la qualità della vita, gli amministratori di Tula lanciano la nuova campagna di comunicazione.
Il progetto si chiama “Vieni a vivere a Tula” ed è stato presentato oggi, nel corso di una conferenza stampa nella sede di rappresentanza del Comune. Già la scorsa estate Tula era stato promosso come uno dei paesi italiani con la più bassa pressione fiscale, a partire dal contenimento della tassa sui rifiuti e l’azzeramento dell’Imu. Ora, per stimolare ulteriormente il mercato immobiliare, scongiurare la fuga delle giovani generazioni e invogliare anche nuovi arrivi, il Comune si fa promotore diretto delle potenzialità del paese. “Agli elevati standard ambientali si uniscono alti indici di qualità sotto altri aspetti” assicurano gli amministratori. A Tula, che attualmente ha una popolazione 1500 persone, tutto funziona bene: dall’assistenza domiciliare per anziani e disabili all’assistenza per le persone che si trovano in una temporanea condizione di difficoltà economica, dal centro di ascolto gestito con il supporto di uno psicologo al centro di aggregazione sociale, dalla ludoteca alle numerose attività ricreative, dal bonus bebè al sostengo per chi abita nell’agro. “Perché non venire a vivere a Tula?”, si chiedono allora il sindaco Becca e l’assessore, tanto più che “anche dal punto di vista artistico e culturale, Tula è uno dei centri più vivaci della Sardegna”.
da qui

martedì 16 dicembre 2014

una lettera di Walter Piludu (sulla fine)

(Ad Angelino Alfano, Silvio Berlusconi, Beppe Grillo, Giorgia Meloni, Mario Monti, Matteo Renzi, Matteo Salvini, Niki Vendola. In forma privata e in forma pubblica, scrivo a voi, leader di forze presenti nel Parlamento della Repubblica, per sottoporvi una questione, al tempo stesso, personale e generale: il problema del fine vita)
Mi chiamo Walter Piludu, ho 64 anni, vivo a Cagliari.
Nell’agosto del 2011 mi è stata diagnosticata la SLA. Posso scrivere questa lettera solo grazie ad un computer a comandi oculari.
La malattia ha infatti progredito velocemente nel suo avido tragitto: da metà del 2013 sono completamente immobilizzato, vivo con un tubo che collega, 24 ore al giorno, il mio naso ad un respiratore meccanico, le mie funzioni vocali sono fortemente compromesse, non avendo più il riflesso difensivo della tosse mangio e bevo ogni volta con il terrore che qualcosa vada di traverso – mi è già successo due volte – generando una situazione terribile di soffocamento. Inoltre, vivendo solo da molti anni, ho dovuto abituarmi a condividere la mia casa di 80 mq. con badanti extra-comunitari ai quali mi sono dovuto affidare, giorno e notte.
Queste notazioni credo siano utili per tentare di trasmettere una specifica concretezza ad una questione che altrimenti potrebbe essere declinata a mera questione filosofica astratta.
Peraltro, ad onta della mia condizione, non sono afflitto da fisime suicidarie e, anzi, facendo leva sulle mie residue risorse intellettuali, sulla vicinanza di alcune care amicizie e, soprattutto, sugli affetti familiari, riesco tuttora a trovare un senso alla mia esperienza umana.
Sono però del tutto consapevole del mio destino: sempre che non intervenga prima una fatale crisi respiratoria che sopravanzi l’azione meccanica del respiratore, sono condannato a perdere completamente – più prima che poi – le mie funzioni vocali.
A tale evento – non aggirabile, secondo il mio attuale sentire, da nessun marchingegno elettronico per ragioni sia pratiche sia spirituali – io ho deciso di collegare il punto finale della mia vita.
Non avendo avuto in dote alcuna credenza religiosa e avendo il sereno convincimento che la morte sia la fine di tutto, non prendo affatto sottogamba questo tema.
Appunto perché la vita è una, unica, irripetibile esperienza, essa deve poter essere vissuta senza essere avvertita come una insopportabile prigione.
C’è, insomma, un diritto inalienabile, di dignità e di libertà, che deve essere garantito ad ogni persona.
E allora io mi chiedo e vi chiedo: come potrò rendere operative le mie volontà?
Mi chiedo e vi chiedo: perché costringermi ad andare in Svizzera invece di poterlo fare vicino ai miei affetti, nella mia terra, nella mia patria?
Ancora, mi chiedo e vi chiedo: se, come temo, non potrò andare in Svizzera, in ragione di insuperabili ostacoli logistici ed emozionali, in quale altro modo potrò realizzare la mia volontà se non col rifiuto di acqua e cibo e, dunque, con una lenta morte per sete e fame?
Naturalmente, c’è sempre la possibilità – quien sabe?- che, al momento cruciale, io possa cambiare idea o perdere la forza necessaria. Ma se la mia determinazione avrà la meglio sulla mia eventuale incertezza, mi chiedo e vi chiedo: è accettabile, è umano, è pietoso costringere una persona e i suoi cari ad un tale fardello di prolungata, indicibile sofferenza?
Ho abusato, e me ne scuso, con l’artificio delle domande retoriche. Quanto alla ruvida asprezza della descrizione della mia “soluzione finale”, preferisco il rischio di apparire fastidioso o invadente pur di non rinunciare a trasmettere a voi, leader della politica, il sentimento di angoscia nel quale vive un vostro concittadino.
Non ho mai avuto simpatia per la faciloneria e la superficialità e, dunque, ho la piena consapevolezza che non bastano queste mie scarne, individuali considerazioni sul fine vita o – per chiamare le cose con il loro nome – sull’eutanasia, a scalare la vetta della enorme complessità di questo problema, nel quale si intrecciano aspetti, ognuno degno di rispetto, di ordine filosofico, religioso, medico, legale.
Per di più – avendo partecipato, pur in modo microscopico, dalla fine degli anni ’60 ai primi anni ’90, alle cose della politica come funzionario e dirigente locale del PCI e come assessore e Presidente della Provincia di Cagliari – non mi sfuggono le difficoltà della politica a misurarsi su questo tema, stretta come è da una pluralità di convincimenti ideali, appartenenze ideologiche, considerazioni di opportunità, valutazioni di utilità.
Ma, pur non dimenticando che anche la non decisione è una decisione, so che l’essenza, vorrei dire la nobiltà, della politica sta nella sua capacità di osare, nel coraggio di assumere decisioni in grado, a volte in tempi imprevedibilmente rapidi, di rendere migliore la vita delle persone e della società.
E’ in nome di questi valori alti della politica che mi sono rivolto a voi nella vostra funzione di leader ma anche in quanto persone, in ciascuna delle quali, ne sono certo,  risiede un forte attaccamento ai princìpi di libertà e un sentimento genuino di umanità e di compassione.
Ho già avuto la sfrontatezza di indirizzarvi questa lettera e non ho, assolutamente, l’aspettativa di una vostra risposta.
Sento invece di chiedervi un silenzio operoso: perché, senza sgargianti bandierine di parte e senza querule primazie propagandistiche, almeno su un tema come questo, si riesca a trovare l’inedito coraggio di una sostanziale intesa che stimoli la predisposizione di un serio e approfondito disegno di legge e faciliti la scelta di un percorso parlamentare efficace e concludente, in un quadro, se non di auspicabile ma improbabile unanimismo, almeno di assenza di battaglie campali.
E’ una richiesta ingenua la mia? Sì, certamente lo è. Ma, credetemi, nella disperazione anche l’ingenuità può offrire un po’ di energia vitale e un po’ di speranza.
Il nostro Paese, per compiere un decisivo passo in avanti verso una più giusta e moderna civiltà, deve dotarsi di una sapiente legge sul fine vita.
E allora, per concludere questa lunga lettera, non se ne avrà a male Alessandro Manzoni se prendo in prestito – modificandola alla bisogna – una delle sue più celebri frasi: «con juicio» ma «adelante». (Cagliari, 29 settembre 2014)

sabato 13 dicembre 2014

un bambino mai nato

Da un mese un bambino nato prematuro, in seguito di un incidente stradale della madre, si trova nella camera mortuaria dell'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo senza che sia ancora stato seppellito perché la donna non ha i soldi per pagare il funerale. Il bambino era nato di 24 settimane il 7 novembre scorso all'ospedale di Calcinate (Bergamo) il giorno dopo che la madre, una marocchina di 29 anni, era rimasta coinvolta in un incidente stradale a Cologne (Brescia), il paese dove la donna vive da quando era adolescente.

Il bimbo, gravissimo, era stato portato all'ospedale di Bergamo, dove 15 ore dopo era morto. La Procura di Bergamo sta cercando di far luce sulle responsabilità dell'accaduto dopo un esposto dei genitori: ci sono 30 indagati fra medici e infermieri di Calcinate e Bergamo. Il 21 novembre era stata eseguita l'autopsia e il giorno dopo era arrivato il nulla osta per la sepoltura. "Mi hanno detto che per i funerali ci volevano 750 euro - ha raccontato la donna - ma io ho risposto che non li avevo. Da marzo ho perso il lavoro in una ditta di pulizie e vivo col sussidio di disoccupazione, che non arriva a 600 euro. Il mio compagno ha un lavoro saltuario, fatica a campare lui stesso, e mio fratello non lavora.

La madre si era inizialmente rivolta alle assistenti sociali del Papa Giovanni, che si erano interessate alla vicenda. In seguito aveva chiesto al Comune di Cologne di poter procedere con un 'funerale di povertà': da Bergamo era stato spedito un sollecito al municipio bresciano. La donna era stata convocata il 1° dicembre in Comune con la dichiarazione dei redditi del nucleo familiare: "Mi hanno detto che avevo un reddito e una casa e che più di 250 euro non potevano darmi. Ma io con la disoccupazione non riesco nemmeno ad arrivare a fine mese e la casa in cui vivo mi è stata pignorata e messa all'asta dopo che cinque anni fa ho smesso di pagare il mutuo. Mi sono sentita umiliata: chiedo aiuto per seppellire mio figlio, non per cambiare l'auto. In otto anni non ho mai chiesto sussidi al Comune di Cologne . Piuttosto faccio la fame, ma mio figlio non lo lascio in una cella frigorifero. Sono anche disposta a che venga sepolto a Bergamo, così risparmiamo sul costo del trasporto"…

Il capitalismo è finito in un pollaio - Michael Zezima


Questa cultura di morte può immaginare soltanto soluzioni sanguinarie
Diane di Prima

Ecco un piccolo esempio di come l’industria globale e l’allevamento agricolo (allevamenti intensivi, la dieta a base di latticini, carne, ecc.) influenzano il nostro ecosistema comune.
Essi consumano e avvelenano un terzo della superficie terrestre del pianeta; questo contribuisce direttamente allo sfruttamento del terreno, alla deforestazione, alla pesca eccessiva, all’estinzione delle specie, ecc.; e ciò è la principale fonte di gas serra creato dall’uomo, il quale si traduce in cambiamenti climatici.
Sulla base di questo elenco incompleto di alimenti a base di eco-devastazione, dovrebbe sembrare dolorosamente ovvio che si deve fare qualcosa per porre fine a questa situazione. Beh, non temete, le soluzioni sono in fase di costruzione.

“Abbiamo bisogno di un approccio razionale”
“Gli scienziati americani – scrive Edward Helmore nel Guardian – fanno a gara per sviluppare i polli che possono far fronte al caldo torrido come parte di una serie di programmi finanziati dal governo, i quali cercano un adattamento o una mitigazione degli effetti causati da condizioni climatiche estreme sull’alimentare”.
“I periodi di grande caldo dureranno più a lungo e ce ne accorgeremo quando vedremo picchi significativi nella mortalità e di altri fattori di stress in arrivo”, avverte il leader del progetto Carl Schmidt, professore associato presso l’Università del Delaware. “Non possiamo aspettare che questo accada. Dobbiamo muoverci ora”.

Perché dare più importanza alla prevenzione che all’adattamento?
“Abbiamo bisogno di un approccio razionale per fornire cibo nel contesto di un clima che cambia mentre la popolazione si avvicina a nove miliardi”, spiega Schmidt. “L’aspettativa è che le persone mangeranno di più, e in particolare più volatili perché questo è il modo più economico per soddisfare la richiesta di carne in continua crescita”.
Facendo eco all’ eroe liberale, Bill Gates (“Non possiamo chiedere a tutti di diventare vegetariani”), Schmidt conclude: “E ‘irrazionale pensare che la gente possa tutta diventare vegetariana. Avrà ancora voglia di mangiare carne”.

Seguite il denaro
Piuttosto che approfondire sulla miopia di questo argomento, ho scelto invece di dare un po’ più di informazioni su Carl Schmidt e la distruzione ambientale che ha previsto.
Nel giro di pochi minuti, ho trovato un articolo su High Plains Journal il quale spiega che questo progetto quinquennale è finanziato dai contribuenti americani per la somma di 4,7 milioni di dollari forniti dalla Agriculture and Food Research Initiative del Dipartimento dell’ Agricoltura Usa. Ma ancora più spregevole dei sussidi alle imprese aziendale in nome di ecocidio è ciò che è stato lasciato fuori della rendicontazione dei media corporativi: Schmidt sta conducendo lo studio insieme a scienziati provenienti da tre università e da Hy-Line International, il più grande allevamento di galline ovaiole degli Usa.
Si, in collaborazione con gli scienziati Hy-line, ci viene detto, “il progetto valuterà le risposte fisiologiche delle galline commerciali sotto stress da calore, compresa l’efficienza dei mangimi, la produzione di uova, e la qualità delle uova”.

Evolversi o morire
Possiamo continuare ad accettare soluzioni capitalistiche ai problemi capitalistici, oppure possiamo cominciare a re-immaginare e reinventare la cultura umana, ma cerchiamo di essere chiari: il futuro della maggior parte della vita sulla terra dipende dalla direzione che scegliamo oggi.


venerdì 12 dicembre 2014

La terra piange le guardie indigene - Pueblos en Camino

Questa lettera aperta, sull’uccisione di Guardie Indigene da parte delle FARC-EP presso Toribío-Cauca, (avvenuta durante i negoziati tra FARC e Governo (1) che si stanno svolgendo a l’Avana – e precisamente mentre viene affrontato il tema delle vittime del conflitto ed in contrasto con le dichiarazioni espresse da entrambe le parti), mette in evidenza come la spoliazione, il dolore e la morte dei popoli, nello specifico di quelli indigeni, è funzionale oggi come ieri all’interesse di coloro che disprezzano sia i popoli sia il loro giusto dolore e rabbia.
La Lettera rimane aperta per poter essere sottoscritta. È stata pubblicata il 9 novembre con le prime firme, al fine di condividerla con le comunità colpite durante l’Assemblea che si terrà nel territorio Nasa di Toribío il giorno della sua pubblicazione. Continuano ad arrivare centinaia di firme e viene aggiornata nella misura in cui si aggiungono nuove adesioni. Malgrado la censura nei confronti delle comunità, questo messaggio sta pervenendo alla Guardia. Sostieni e condividi quanto viene detto in merito al sopruso degli uni e al dolore degli altri. Questo messaggio è ancora più rilevante e significativo dopo le dichiarazioni delle FARC e dell’Acin rispetto a questi fatti:
“Abbracciamo e appoggiamo la Guardia Indígena del Cauca: la Nostra Guardia Indígena. I familiari, gli amici e la comunità. In questa guerra contro i popoli, voi continuate ad andare avanti dando l’esempio di una lotta che nasce dalla terra contro quelli che, da qualsiasi parte provengano, vogliono approfittare delle nostre cause per derubarci e sottometterci. Voi rappresentate il cammino della parola degna. Vogliano e dobbiamo essere come voi e assieme a voi. La vostra pace nella libertà è, per tutte e tutti, l’unica pace. Manuel Antonio Tumiñá Gembuel, Daniel Coicué Julicue e José Libardo Pacho, oggi vengono restituiti alla Madre Terra, a colei che hanno difeso, di fronte a voi, di fronte all’assassinio che ha spezzato le loro vite; qui, nel giorno in cui come sementi fanno ritorno alla Terra, affermiamo che con il loro esempio esigono da noi la dignità e il dovere di proseguire tutte e tutti, con la parola e con l’azione, nello spirito dei popoli: Essere Guardie Indigene.”
  Pueblos en Camino

Uma Kiwe piange di rabbia e dolore mentre uccidono le Guardie Indigene
(Di fronte all’omicidio di due Guardie Indigene Nasa del Cauca da parte delle FARC)

           “Voglio scavare la terra pezzo per  pezzo
              con morsi secchi e impetuosi
                e toglierti il bavaglio e riportarti  indietro
 Mi duole più la tua morte che la mia vita”
Miguel Hernández

Uma Kiwe, la Madre Terra, piange. Proprio in questo momento sta piangendo. Piange il C’xab Wala Kiwe (Territorio del Gran Pueblo), piange di rabbia e di dolore il popolo Nasa, le figlie e i figli del Cauca. Anche noi piangiamo e anche noi proviamo rabbia, molta rabbia. Manuel Antonio Tumiñá Gembuel di 42 anni e Daniel Coicué Julicue di 63 anni, Guardie Indigene, eroi senza fama né gloria, senza vanità né arroganza, fratelli e compagni anonimi e appartenenti alla comunità, persone come noi, quando siamo ciò che in dignità dobbiamo essere, sono stati assassinati dalle FARC. Assassinati a sangue freddo, con colpi di fucile a distanza ravvicinata, a mezzogiorno, lungo il sentiero del villaggio di Sesteadero, che fa parte del territorio ancestrale e sacro di Toribío, nel Cauca del Popolo Nasa.
Non dimenticheremo mai, MAI!
L’immagine del nostro compagno morto, avvolto nei colori del CRIC [2], con accanto il suo bastone e con il suo/nostro sangue che bagna la terra da lui difesa con dignità e alla quale, prematuramente e ingiustamente, fa ritorno come figlio esemplare. Non dimenticheremo mai. Così come non dimentichiamo il pianto che in questo stesso momento proviene da Uma Kiwe, Wallmapu, Pacha Mama, Abya Yala per i suoi figli uccisi e scomparsi. Siamo vita. Per questo motivo ci ingannano, ci derubano e ci uccidono.
I negoziati che si tengono a l’Avana tra il Governo Colombiano e le FARC entrano nella loro fase finale. Si affronta la questione delle vittime. Delegazioni che le rappresentano sono in viaggio per incontrarsi con i portavoce di entrambe le parti. Per la prima volta nella loro storia, le FARC riconoscono pubblicamente le vittime delle loro azioni e di persona chiedono perdono ad alcune di esse e ai loro familiari.
In questo contesto, però, danno ordine di occupare il territorio indigeno del Cauca usando propaganda armata come se fosse la loro terra e come se le comunità avessero il dovere di sottomettersi ed obbedirgli su una terra che invece appartiene a loro e che hanno sempre difeso contro ogni invasore. L’occupazione comprende enormi cartelli pubblicitari con l’immagine del loro comandante Alfonso Cano, nell’anniversario della sua morte.
Le comunità e la Guardia Indigena con i loro “bastones de mando” e con la loro autorità che non prevede l’uso di armi, esigono rispetto e ordinano di togliere la propagaganda ed andarsene.

Non obbediscono. La Guardia e le comunità tolgono i cartelli, li stanno togliendo, continuano a toglierli e a testa alta e con una coscienza retta respingono l’oltraggio. Se non lo avessero fatto, avrebbero smesso di essere Nasa, figli della terra. A Toribío, i guerriglieri uccidono a colpi di fucile e a distanza ravvicinata due Guardie Indigene. La sepoltura provoca un dolore e una rabbia che rimangono impressi nelle immagini dei media. Sappiamo che le FARC si servono delle trattative con il Governo per appropriarsi e sottomettere territori, come parte del bottino derivante dai negoziati i quali non fanno alcun cenno al modello di espropriazione. Sappiamo che ciò esige la difesa territoriale pacifica e conduce alla codarda uccisione delle Guardie. Sappiamo che il dolore e la rabbia del Popolo Nasa e il processo agli autori materiali e ai comandanti delle FARC che hanno dato l’ordine di oltraggiare il territorio, sottomettere la popolazione e uccidere, costituiscono il cammino da percorrere...

martedì 9 dicembre 2014

Ecco come gli studenti Erasmus vedono la Sardegna e i sardi - Chiara Carrus

“Ho scelto di fare l’Erasmus aCagliari per le bellezze naturalistiche dei paesaggi, il clima e la simpatia degli abitanti”. Josef è uno dei tanti ragazzi europei che ogni anno scelgono l’Isola per il progetto Erasmus. Uno studente di farmacia dell’Università di Brno(Repubblica Ceca) che ha vissuto in Sardegna per quasi un anno e che, durante la sua permanenza, ha potuto visitare le località dell’Isola: dalle spiagge della Maddalena, a Stintino, Portocervo, Chia, Villasimius e Nora; da Matzanni, al Gennargentu, a Gorroppu e Monte Mannu; da Oristano a Barumini, Teulada e Muravera, con il suo caratteristico festival delle arance. “Sono rimasto strabiliato per tutto quanto. Dovete assolutamente mantenere il vostro stile di vita: senza stress e sempre allegri, da quanto ho potuto vedere”.
Gli atenei sardi ospitano frequentemente giovani provenienti da ogni angolo d’Europa, ragazzi che in questo modo hanno la possibilità di vivere l’isola in tutte le sue caratteristiche, e non soltanto per quelle poche settimane di “boom” turistico estivo. Gli studenti che eleggono la Sardegna loro meta non solo hanno l’occasione di cogliere la cultura e l’ambiente, ma possono anche esplorare tutta la complessità e il ventaglio di sfaccettature caratteristico della Regione: problemi, bellezze, stili di vita, contraddizioni e varietà locali che differenziano l’isola da ogni luogo d’Italia. Possono, in sostanza, diventare sardi anch’essi, e prestarci un modo differente di guardare e approcciarci alla nostra Regione.
“Prima di partire mi sono documentato su internet – continua Josef – e ho letto molte informazioni sulla Sardegna. Al mio arrivo ero pieno di aspettative. Non sono rimasto sorpreso dalla città, immaginavo che fosse molto differente dal mio Paese: in Italia c’è tempo per tutto, specialmente per il caffè. Nel mio Paese tutto quanto è più in orario. Però sono rimasto molto sorpreso dalle persone e dal fatto che i sardi sono gentilissimi con gli stranieri, anche con quelli che non sanno parlare italiano”.
“La mia peggiore esperienza in Sardegna ha a che fare con l’Arst: ero a Teulada per il carnevale e avevo intenzione di tornare a casa con l’ultimo bus, che però non è mai arrivato (anche se sul tabellone era indicato). Ho dovuto fare l’autostop. Ho alcuni amici che hanno avuto lo stesso problema per tornare da Villasimius. È una pessima compagnia e sono rimasto parecchio deluso, ma non rimpiango niente della mia esperienza. I sardi sono moltogentili e simpatici. Ho trascorso un anno meraviglioso e sono felice di aver scelto Cagliari”.
Mantas e Agne sono una coppia proveniente da Panavezys (Lituania). Sono rimasti a Cagliari per sei mesi e hanno potuto sperimentare diversi periodi climatici. “In inverno, c’era molto vento e pioggia, e tutti erano malati. Neanche in Lituania il tempo è così duro! In primavera si sta benissimo, mentre l’estate è stata impossibile! Mamma mia, come dormire quando ci sono più di 30°?”
“La prima cosa che abbiamo notato al nostro arrivo – dicono – è stato il modo in cui le persone si fidano degli altri: il proprietario della casa in cui abbiamo abitato ci è venuto a prendere in aeroporto per mostrarci l’appartamento. Ci ha dato le chiavi e siamo rimasti molto sorpresi perché non ha chiesto il deposito e nemmeno una copia dei passaporti”.
“Abbiamo notato che i sardi sono persone molto rilassate, totalmente dipendenti dal caffèe perfezionisti in cucina, ma quando si parla di guidare sono pazzi! Avete davvero grossi problemi nella guida! Rilassatevi e rispettate i segnali stradali… D’altra parte avete ottime abilità nel parcheggio. Sono rimasto a bocca aperta quando ho notato la destrezza con cui i conducenti riescono a incastrare l’auto in spazi piccolissimi. Ho anche imparato qualche trucco e adesso parcheggio come un italiano”, dice con orgoglio Mantas.
Riguardo alle bellezze naturali dell’isola, Agne non ha dubbi: “Tra i posti che ho visitato, credo che la parte orientale sia la più bella della Sardegna. Sono rimasta sorpresa specialmente da Cala Goloritzè e dall’intensità del blu delle sue acque”.
“Si dice che i sardi siano molto riservati e un po’ scontrosi ma non credo che sia così. Una volta stavamo facendo un’escursione vicino alle cascate di Villacidro – racconta Agne - e sulla via del ritorno abbiamo incontrato un gruppo di uomini di mezza età. Stavano arrostendo del maiale sul fuoco e ci hanno invitato a unirci a loro. Ci hanno offerto carne, formaggio e mirto fatto in casa. Non parlavano per niente l’inglese e anche il nostro italiano non era il massimo, così è stato un po’ imbarazzante ma tutti quanti si sono divertiti molto. “L’unica volta in cui non ci siamo sentiti benvenuti è stato a Orgosolo. La cittadina è bella ma le persone sono inquietanti! Ci fissavano come degli alieni e ho avuto l’impressione che non amassero molto i turisti”.
Mireille, invece, viene dall’Università di Lille, in Francia, e ha vissuto a Cagliari per sette mesi. La sua permanenza le ha permesso di confrontarsi con gli aspetti più duri della vita in Sardegna. “Per me la Sardegna è un paradiso: le spiagge sono meravigliose. Ho amato soprattutto l’isola di Caprera. Ho anche pensato di trovare un lavoro qui e trasferirmi ma non ci ho messo molto a capire che in questo paradiso non ci sono impieghi,soprattutto per gli stranieri. Per questo motivo probabilmente non potrò mai stare con il mio ragazzo sardo. È un amore impossibile”.
“Vivendo qui – continua Mireille – ho capito l’orribile dilemma di quei sardi che devono allontanarsi dalla loro famiglia e dal loro paradiso per avere una vita decente. Il problema del lavoro è troppo grande e triste. La Sardegna ha molte risorse ambientali e potrebbe essere un luogo prospero. Le città hanno il fascino dell’antico, ma forse per i giovani è un po’ noioso passarci tutta la vita. Non ci sono molte attività da fare in inverno”.
E ancora, dice Mireille: “Penso che i sardi non siano riservati, ma un po’ scontrosi. Non sono mai contenti della Sardegna, ma allo stesso tempo ne sono orgogliosi. Penso che dovrebbero godere della loro isola e cercare di trovare insieme una soluzione per uscire dalla crisi, cercare di reagire invece che essere fatalisti. Amo tantissimo la Sardegna. Penso che solidarietà, nuove idee, iniziativa e innovazione potrebbero essere d’aiuto. La Sardegna ha risorse che non ho visto da nessun’altra parte, specialmente per il fatto che è ancora preservata e selvaggia. Conservata dal turismo di massa.”
Nel 2012-2013 sono stati oltre 269mila gli studenti che, come Josef, hanno partecipato al Progetto Erasmus e hanno lasciato la loro casa e la loro università per andare a studiare – o effettuare un tirocinio – presso un altro ateneo europeo aderente. Quella dello scorso anno è la cifra più alta mai registrata in tutti i 27 anni di vita del programma, creato dalla Comunità Europea nel 1987.
L’Erasmus Impact Study ha permesso di constatare che gli studenti Erasmus hanno in media migliori abilità occupazionali rispetto al 70% dei loro colleghi rimasti nell’università di origine. Inoltre più del 90% dei datori di lavoro sembra essere alla ricerca di quelle capacità trasversali come curiosità, apertura mentale, tolleranza, abilità nel problem-solving e nel decision-making che i ragazzi dell’Erasmus mirano a sviluppare durante il loro periodo all’estero.
L’Italia è uno dei Paesi che attira di più gli studenti stranieri in partenza, si colloca infatti al quinto posto della classifica. Mentre è in quarta posizione per quanto riguarda gli universitari “outgoing”. E con l’Italia anche l’Isola.

domenica 7 dicembre 2014

Tommy non è una persona giuridica

Usa, gli scimpanzé come gli schiavi africani nel '700: la stessa legge potrebbe renderli liberi - Anna Guaita

Tommy, Kiko, Hercules e Leo potrebbero un giorno essere famosi nella storia come lo sono gli schiavi della “Amistad”. Facendo ricorso alla stessa legge che portò nel 1839 alla liberazione degli schiavi africani che si erano ribellati nella goletta negriera spagnola “Amistad”, un gruppo di avvocati americani sta intentando in questi giorni in vari tribunali dello Stato di New York una serie di azioni legali per il riconoscimento del diritto alla libertà fisica di quattro “persone non-umane”, cioè di quattro scimpanzè. Appunto, Tommy, Kiko, Hercules e Leo.

Gli avvocati fanno parte di un progetto legale, il NonHuman Rights Project, che sostiene che gli esseri umani non sono gli unici esseri viventi ad avere diritti che devono essere formalmente riconosciuti dalla legge: l’associazione vuole ottenere che anche alcuni animali passino dallo stato giuridico di “oggetti” a quello di “persone” in possesso di alcuni diritti fondamentali, quali il diritto alla libertà e all’integrità fisica. A giudizio di questi avvocati, «l’evolversi della morale, le scoperte scientifiche e la stessa esperienza umana» garantiscono questi diritti anche alle “persone non-umane”.

Gli avvocati si appoggiano esattamente alla stessa legge che venne usata nel 1772 nel Regno Unito nel primo caso in cui uno schiavo africano ottenne di riconquistare la libertà. In quell’occasione il giudice, Lord Mansfield, riconobbe che uno schiavo non era un “oggetto” ma una persona, e quindi non poteva appartenere a un altro essere umano. Quella stessa legge è stata usata poi molte volte negli Stati Uniti dagli schiavi fuggitivi del sud che arrivavano negli Stati abolizionisti del nord, prima che con la Guerra Civile del 1861 la schiavitù venisse ufficialmente abolita ovunque. Si tratta dell’habeas corpus, letteralmente “che tu abbia la tua persona (libera)”. E’ un mandato con cui il giudice viene urgentemente chiamato a decidere se la detenzione di una persona sia legale o meno.

Dunque, un giudice è stato chiamato già ieri, lunedì, a decidere se la detenzione dello scimpanzè Tommy sia legale, o se Tommy non sia una “persona” imprigionata senza giusta causa e quindi non abbia diritto a tornare libero. Se la libertà gli venisse riconosciuta, Tommy verrebbe accolto alla North American Primate Sanctuary Alliance http://www.primatesanctuaries.org/ dove scimpanze, bonobo, gorilla e orangutanghi che siano stati oggetto di ricerche o siano sfuggiti a prigionie crudeli trovano protezione e cura nella loro vecchiaia.

Tommy vive all’aperto, in una gabbia di cemento, nel nord dello Stato di New York, in temperature molto più fredde di quelle che sarebbero giuste per lui. Altri scimpanzè che vivevano con lui sono morti. Kiko è uno scimpanzè di 26 anni, che ha fatto l’attore ma ora che soffre di un’infezione ai timpani e ha perso la sua agilità è tenuto in gabbia. Hercules e Leo sono oggetto di ricerche ed esperimenti presso un laboratorio che vuole determinare come camminavano i primi ominidi, anche loro vivono in gabbia.

Gli avvocati che hanno presentato il mandato di habeas corpus avevano già programmato di tentare una simile azione lo scorso aprile, per due scimpanzè prigionieri di uno zoo privato, Merlin e Reba, ma prima che il ricorso ai tribunali potesse prendere forma tutti e due quelle “persone non-umane”, per usare il termine adottato dagli avvocati, erano morte di malattia.

Va sottolineato che ieri era la Giornata Internazionale per la Abolizione della Schiavitù, un giorno in cui le Nazioni Unite ricordano che nel mondo ci sono tuttora milioni di schiavi umani, donne e bambini, e che “tutti coloro che hanno una coscienza devono combattere per porre fine a questa vergogna”. Gli avvocati della “NonHuman Rights Project” sperano che un giorno questa “sacrosanta lotta per la libertà” includerà anche i nostri cugini primati.


sabato 6 dicembre 2014

5 numeri sul clima che fanno paura - Federico Gennari Santori

Il primo dicembre, in Perù, è iniziata la conferenza internazionale dell'Onu sul clima (Cop 20). Per dodici giorni sarà completamente incentrata sugli impegni vincolanti che i paesi del mondo prenderanno nella conferenza successiva, la Cop 21 di Parigi. In quella sede, fra un anno esatto, dovranno essere stabilit gli obiettivi per il contrasto alle emissioni di gas serra che rimpiazzeranno quelli di Kyoto dopo il 2020. C'è molta aspettativa per questo anno di negoziati e l'assemblea di Lima si svolge in un contesto che appare in tutto favorevole a un'inversione di rotta globale nell'ambito della questione climatica. C'è l'incoraggiamento di Ban Ki-moon, che in prima persona si è impegnato per invitare i paesi del mondo ad uno sforzo comune contro i cambiamenti climatici nel meeting informale svoltosi lo scorso settembre a New York. E a metà novembre Cina e Stati Uniti, primi inquinatori e maggiori economie al mondo, hanno stretto un accordo per per porre un freno alle emissioni. La posta in gioco è alta. Se non ci saranno interventi adeguati e tempestivi per la mitigazione del riscaldamento globale, gli effetti saranno catastrofici. Per l'ambiente e per l'economia. A prevederlo è il rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) delle Nazioni Unite – una «relazione storica» la cui ultima parte è stata presentata proprio un mese fa – e gli studi di molti altri centri di ricerca e istituzioni. Sono alcune in particolare le questioni che i leader del mondo dovrebbero tenere in considerazione per farsi effettivamente carico delle loro responsabilità.

1) Meno carne per tutti
Frenare l'enorme e crescente appetito del mondo è essenziale per evitare il cambiamento climatico devastante. Secondo uno studio del think tank Chatham House, l'industria del bestiame produce più gas serra di tutte le auto, gli aerei, i treni e le navi del mondo, nonostante l'opinione pubblica non lo creda affatto. Nello stesso rapporto Ipcc si parla solo approssimativamente dell'impatto che il settore zootecnico potrebbe avere sul clima. La crescente domanda di carne in Cina e nei paesi emergenti potrebbe ribaltare la situazione. Bati pensare che dal bestiame deriva quasi il 15% delle emissioni globali. E il consumo di carne è sulla buona strada per aumentare del 75% entro il 2050, e prodotti lattiero-caseari del 65%. Senza tagli drastici, nel 2050 le emissioni agricole peseranno enormemente sul bilancio globale del carbonio, al punto che ogni altro settore, comprese energia, industria e trasporti, dovrebbe funzionare a emissioni zero, cosa ritenuta "impossibile"…

domenica 30 novembre 2014

“Oggi sono morto” – L’ultimo giorno di vita di Duke

Chi ha fatto entrare nella propria vita un animale lo sa benissimo: ci si affeziona talmente tanto da sentirlo come parte della famiglia. Noi ci prendiamo cura di loro e in cambio riceviamo una montagna di affetto. Code che scodinzolano, leccate, salti, capriole…ma purtroppo dopo anni di giochi, carezze e passeggiate nel parco, arriva il momento della separazione.
Quando questa famiglia ha scoperto che avrebbe dovuto dire addio al suo amato cane Duke, ha deciso di farlo in un modo davvero bello e commovente. Una giornata, anzi probabilmente la giornata più bella ed emozionante mai vissuta da Duke, tutte le sue cose preferite raccolte in un solo giorno..dagli hamburger ai parchi acquatici. Il tutto è stato documentato dal fotografo Robyn Arouty che ha condiviso la storia sul suo blog. Per parecchi giorni il blog del fotografo ha attraversato alcune difficoltà tecniche, a causa dell’enorme volume di persone interessate alla storia di Duke.
Qui di seguito riportiamo le foto che raccontano la storia, con la traduzione dal testo originale (la giornata raccontata dal punto di vista di Duke). Fidati, probabilmente avrai bisogno di qualche fazzoletto prima di scorrere le immagini…

martedì 25 novembre 2014

Il melograno, il frutto che unisce la vita e la morte - Patrizia Cecconi

RummanPunica granatum,  Malum punicum, Pomo saraceno, Melograno. Tanti nomi per un alberello della famiglia delle Lythracee che per bellezza, simbologia e proprietà li merita tutti. Il nome Rumman, con cui è conosciuto in Palestina viene dall’antico egiziano “Rmn” e dato che la pianta ha la sua origine nell’area compresa tra l’Africa settentrionale e l’Asia occidentale, questo  dovrebbe essere il nome originario. I romani invece lo chiamarono Punica granatum, che oggi è anche il suo nome scientifico: Punica perché arrivato da Cartagine,  e  granatum per i tanti grani che lo compongono.
Di miti intorno al melograno ne sono fioriti tanti, sia per la bellezza dei suoi fiori, sia per la particolarità dei suoi frutti. Anche le religioni lo hanno fatto proprio: per il Corano è un albero del paradiso; per la Bibbia è importante  il frutto per il numero dei suoi  grani (o arilli 613 come i 613 precetti della Torah che, secondo la tradizione ebraica,  dovrebbero rappresentare l’agire corretto di ogni ebreo. Un ruolo, giocato solo sulla sua bellezza,  viene assegnato a questo frutto nel Cantico di Salomone in un crescendo di sensualità rendendo chiaro che l’amore cantato è inteso anche come amore fisico. La donna amata è paragonata a un intero giardino di melograni che si offriranno all’amore durante la fioritura. Immagine, questa, che nobilita tanto il melograno quanto il piacere di amare come essenza della vita.
E infatti questo frutto si presta da sempre a interpretazioni legate alla sfera della sensualità e della fertilità, basti pensare che tra i suoi simboli più antichi c’è quello dell’erotismo e dell’invincibilità attribuitogli già dai babilonesi tramite la figura di Ishtar,  dea dell’amore e della fertilità ma anche della guerra. Simbolo  riproposto nel legame vita-morte-vita dalla mitologia  greca. Leggende che hanno in comune il simbolo dell’abbondanza, del dolore e dell’amore, della vita e della morte che si riallacciano in energia vitale...

sabato 22 novembre 2014

mangiare insieme fa bene

MANGIARE con i propri figli li aiuta ad andare meglio a scuola, soprattutto in matematica. Lo rivela uno studio del Consejo Escolar de Estado, il massimo organo spagnolo in tema di educazione. Secondo la ricerca, ci sono differenze fino a due punti di rendimento tra i bambini con famiglie coinvolte nella loro vita scolastica e quelli che invece se la devono cavare da soli. E il momento da non sottovalutare nell'ambito della giornata è proprio la cena, visto che è il pasto in cui la famiglia si ritrova con più calma per parlare. La colazione infatti è spesso consumata di fretta, con l'occhio all'orologio, e a pranzo figli e genitori si trovano quasi sempre in posti diversi.

Un momento per scambiare esperienze. "Non fatico a credere che anche il rendimento scolastico, così legato al benessere del giovane e non solo alle mere abilità cognitive, possa beneficiare di un clima più disteso, dove l'incontro a cena fra bambini e adulti favorisce il flusso di parola e lo scambio di esperienze dentro una reciproca soddisfazione", spiega Luigi Ballerini, psicoanalista e scrittore per ragazzi che, partendo dalla sua esperienza professionale, sul tema ha pubblicato il libro I bravi manager cenano a casa. Mangiare in famiglia fa bene a tutti...

giovedì 20 novembre 2014

Un appello dei Masai

Siamo gli anziani dei Masai della Tanzania, una delle più antiche tribù dell'Africa. Il governo ha appena annunciato di voler cacciare migliaia delle nostre famiglie dalle nostre terre per permettere a ricchi turisti di usarle per la caccia a leoni e leopardi. Gli sgomberi inizieranno immediatamente.

L'anno scorso, quando per la prima volta è stato rivelato a tutto il mondo questo piano, quasi un milione di membri di Avaaz si è fatto sentire per aiutarci. La vostra attenzione e la bufera mediatica che si è scatenata hanno costretto il governo a fare marcia indietro, facendoci guadagnare mesi preziosi. Ma il Presidente ha aspettato che l'attenzione internazionale scemasse e ora ha fatto ripartire il piano per sottrarci la nostra terra. Abbiamo urgentemente bisogno del vostro aiuto.

Al Presidente Kikwete forse non interessa di noi, ma ha mostrato che risponde alla pressione globale: quella di tutti voi! Ma forse abbiamo solo poche ore. Vi chiediamo di stare al nostro fianco per proteggere la nostra terra, la nostra gente e gli animali più incredibili di questo nostro pianeta e di far sapere a tutti cosa sta accadendo prima che sia troppo tardi. Si tratta della nostra ultima speranza. 

-- La comunità Masai del distretto di Ngorongoro

Nei giorni scorsi, il governo della Tanzania ha annunciato la creazione di una nuova area di “conservazione” sulle terre dei Masai che, secondo il leader della comunità Samwel Nangiria, segnerà “la fine dei Masai e dell’ecosistema del Serengeti”.
I Masai del distretto di Loliondo si sono duramente opposti all’accaparramento delle loro terre da parte del governo, e hanno giurato di battersi per mantenerle.
Lo straordinario paesaggio del Serengeti è meta ambita dai turisti di tutto il mondo. Per i Masai, invece, già sfrattati da gran parte delle loro terre nel nome della conservazione, si tratta della loro casa.
Nonostante il governo affermi che la terra debba diventare un corridoio funzionale agli spostamenti degli animali selvatici tra il Parco Nazionale del Serengeti e il Parco Nazionale del Masai Mara, in Kenya, l’area è stata affittata nel 1992 a una società che organizza safari di caccia, la Ortello Business Corporation (OBC). Ai Masai è stato intimato di andarsene con il loro bestiame nell’interesse della conservazione, mentre ai ricchi turisti è concesso cacciare i grandi animali selvatici che vivono nell’area…

Come vivono?
Per i Masai il bestiame è ciò che rende bella la vita, e latte e carne sono i loro alimenti preferiti. Sebbene il loro stile di vita tradizionale fosse basato sull’allevamento del bestiame (potevano procurarsi gli altri generi alimentari con lo scambio), oggi i Masai hanno bisogno di praticare anche l’agricoltura.
Conducono il bestiame da un pascolo all’altro, per dare all’erba la possibilità di ricrescere; un tempo, questi spostamenti erano garantiti da un sistema di proprietà collettiva della terra, che dava a tutti la possibilità di condividere l’accesso all’acqua e ai pascoli.
Oggi, invece, i Masai sono stati progressivamente costretti ad adottare uno stile di vita stanziale, e molti hanno trovato lavoro nelle città.
La società masai è organizzata per gruppi d’età maschili, i cui i membri vengono iniziati a diventare guerrieri e successivamente anziani. Non hanno capi, ma ogni gruppo ha un ‘Laibon’ di riferimento, una sua guida spirituale.
I Masai venerano un unico dio immanente in ogni cosa, che può manifestarsi in forme benevole oppure distruttive. Tuttavia, oggi molti Masai hanno abbracciato diverse fedi cristiane.
Quali problemi devono affrontare?
Il furto delle terre dei Masai ha avuto inizio in epoca coloniale. La maggior parte dei territori tribali sono stati gradualmente Trasformati in aziende agricole eallevamenti di bestiame, in aree gestite dal governo e in parchi naturali.
I Masai si ritrovano così confinati nelle zone più aride e sterili del paese, in cui spesso il governo cerca anche di ‘portare sviluppo’ col pretesto che i Masai gestiscano troppo bestiame rispetto alla terra disponibile.
Al contrario, i Masai sono allevatori eccellenti e raramente dispongono di più animali di quanto non sia loro necessario e di quanto il territorio possa sopportare. Le interferenze delle autorità mirano in realtà a cambiare il loro sistema di accesso comunitario alla terra.
Se da un lato ha soddisfatto gli stranieri e alcuni Masai dallo spirito imprenditoriale che sono stati in grado di acquistare o vendere terre, dall’altro, questa politica dello ‘sviluppo’ ha inaridito il territorio e condotto alla povertà gran parte del popolo dei Masai, relegato in aree troppo piccole e inadatte all’autosostentamento.
In cosa consiste la campagna di Survival?
Sin dal 1993 Survival sostiene numerosi gruppi di Masai che lottano per riavere i loro territori. In Kenia abbiamo raccolto fondi per una loro campagna di sensibilizzazione contro la vendita delle terre e abbiamo sostenuto la protesta delle tribù di Iloodoariak e Mosiro, derubati dei loro pascoli in virtù di una frode giudiziaria.
In Tanzania abbiamo aiutato i Masai di Ngorongoro a rivendicare il diritto di partecipare all’amministrazione dell’area protetta, e abbiamo condotto una campagna per la difesa della collina sacra di Endoinyo Ormoruwak (‘collina degli anziani’).