venerdì 19 aprile 2024

L’impatto culturale di Amazon - Leonardo Animali

 


Un’area definita ad “elevato rischio di crisi ambientale” nella quale una raffineria di petrolio è circondata da altri impianti industriali, allevamenti intensivi, una centrale a turbogas e un aeroporto si prepara ad accogliere l’ennesimo polo logistico Amazon. Poco importa se aumenterà il traffico pensante su una rete stradale già congestionata, se ci sarà un rincaro del mercato immobiliare e se crescerà il lavoro precario… Accade nelle Marche. Scrive Leonardo Animali: “L’impatto più pesante di Amazon in questo territorio, non sarà tanto quello ambientale e paesaggistico, ma quello culturale… Non emerge nessun altra riflessione, se non quella dell’impossibile riconversione di questi territori all’industria del turismo…”

 

Ottimismo ed entusiasmo. Sono questi i sentimenti che si percepivano alla Coppetella il 28 marzo, durante l’attesa del viceministro alle Infrastrutture Galeazzo Bignami. La Coppetella è una zona della bassa Vallesina, attraversata dal fiume Esino. Quello che l’imperatore Federico II di Svevia, nato a Jesi il 26 dicembre 1194, propose alle autorità jesine del tempo, in un gesto di riconoscenza per i natali avuti, di trasformare in un canale navigabile, dalla foce fino a Jesi; così almeno narra la storia mista a leggenda. Una moderna infrastruttura per quel tempo, capace di dare una impulso commerciale ed economico alla città, e di competere con la portuale Ancona. Ma gli jesini del Basso Medioevo, scelsero l’altra opzione che lo “Stupor Mundi” mise sul piatto: il conferimento del titolo prestigioso di “Città Regia”. Sarà per questa scelta di quasi mille anni fa, che i marchigiani hanno sempre avuto un desiderio di riscatto da quella rinuncia, tanto da continuare a voler costruire ancor oggi strade inutili.

Mentre a Jesi, con la giunta di destra, qualche anno fa, l’identitario titolo di “Città Regia”, è stato persino inserito nello Statuto Comunale, al pari del valore costituzionale dell’antifascismo. Ma dal XIII secolo, la Vallesina rimasta senza canale navigabile, fino al boom industriale del secondo Novecento, fu nota a livello economico per le piantagioni di cavolfiori e carciofi, che crescevano sui campi pianeggianti a ridosso dell’asta fluviale; non a caso nei generi ortofrutticoli, si distinguono il “carciofo precoce Jesi” e “il cavolfiore precoce Jesi”, del cui antico seme, non manipolato geneticamente dalla Monsanto, sarebbe gelosa custode certamente Vandana Shiva. Ma poi con lo sviluppo industriale, il territorio un tempo a vocazione agricola, ha lasciato il posto al manifatturiero, all’industria agroalimentare, e alla meccanica, che hanno fatto del contadino un lavoratore di serie B. E oggi, dall’estuario dell’Esino fino alla montagna della Gola della Rossa verso il fabrianese, lungo il fiume si susseguono solo segni di un’attività antropica fortemente impattante, che fanno di questo territorio da Ancona fino a Jesi, una zona AERCA (Area ad Elevato Rischio di Crisi Ambientale).

Partendo dalla foce del fiume, troviamo la raffineria API (una mini-Ilva di Taranto), zone artigianali ed industriali, gli allevamenti avicoli intensivi di Monteroberto, Jesi e Falconara Marittima del gruppo Fileni, l’aeroporto delle Marche, l’Interporto Marche, i 30 ettari da bonificare dell’ex zuccherificio Sadam del gruppo Maccaferri, la centrale Turbogas di cogenerazione a metano della Edison (oggi spenta), e tra poco il primo impianto delle Marche “End and waste” per rifiuti pericolosi e contaminati a Jesi. Si arriva così, risalendo circa 50 chilometri di fiume, a Serra S.Quirico, dove fino al 2048 le montagne verranno spolpate dalle cave di calcare massiccioE tra un anno, proprio alla Coppetella, verrà inaugurato il nuovo totem del rilancio occupazionale di questo territorio, perno di quella che il presidente della Regione Acquaroli definisce la “transizione economica”: l’undicesimo polo logistico italiano Amazon, la cui struttura di staglia già visibile in mezzo alla pianura, con i suoi 25 metri di altezza e 66 mila mq di superficie, e 300 metri di lunghezza.

Sotto un cielo da Triduo Pasquale, ad attendere il viceministro Bignami, c’era davvero tutta la cosiddetta classe dirigente di questo territorio, per la stretta di mano e la foto opportunity. I venti sindaci dei Comuni della Vallesina, capitanati da quello di Jesi Lorenzo Fiordelmondo, mezza giunta regionale, il presidente della Provincia e quello della Camera di Commercio delle Marche, il Presidente dell’Interporto Marche Massimo Stronati, vero artefice della concretizzazione dell’arrivo di Amazon, con i due componenti del cda, tutto di nomina regionale a marchio Fratelli d’Italia-Lega, Roberta Fileni vicepresidente dell’omonimo gruppo industriale leader degli allevamenti avicoli, e Gilberto Gasparoni, segretario regionale di Confartigianato. Non c’è nessuna autorità religiosa, come peraltro già avvenuto in occasione della posa della prima pietra del cantiere l’anno prima; perché, come spiegarono i vertici Amazon, essendo la multinazionale laica, non invitano mai i rappresentanti religiosi del Paese in cui mettono fondamenta.

 

La ragione della convocazione del 28 marzo, con gli onori di casa fatti dall’ad di Amazon Italia Logistica Lorenzo Barbo, era la visita al cantiere avviato il 24 maggio del 2023, con lo scopo non solo di illustrare lo stato dei lavori, ma anche di ribadire che per questo territorio Amazon sarà la panacea di tutti i mali, un farmaco del capitalismo senza alcuna controindicazione. La vicenda industriale è iniziata nel 2021, quando il Comune di Jesi era amministrato dal sindaco “civico” Massimo Bacci ma che, per la prima volta, dal 2012 portò sotto evolute spoglie, gli eredi del Movimento Sociale Italiano al governo della città per dieci anni, scalzando dopo decenni la sinistra. Un lungo tira e molla tra Regione, già a trazione meloniana, Comune e Interporto Marche (proprietario della stragrande maggioranza delle aree), guidato allora da un cda espressione della giunta regionale del Pd. Un percorso amministrativo con notevoli e complessi problemi urbanistici, che ad un certo punto fu sul punto di far fallire l’operazione, con le classiche accuse da ‘tutti contro tutti” tra i diversi protagonisti, che portarono Amazon a minacciare di dirottare la propria scelta verso la Spagna. Ma le malelingue della politica, narrano che ci furono diversi movimenti in Regione per provare a spostare il polo Amazon verso il piceno, forte roccaforte meloniana, e zona in forte crisi occupazionale. Ma, i meglio informati, raccontano che a premere sulla Regione per far saltare l’arrivo a Jesi del colosso di Seattle fondato da Jeff Bezos, sia stato il “sempreverde” potere industriale fabrianese, sostenitore elettorale del presidente di Fratelli d’Italia. La ragione molto semplice: la preoccupazione, considerata la strutturale depressione economica, sociale e occupazionale di Fabriano, iniziata dal 2009 e mai arrestatasi, per una migrazione verso la Vallesina alla ricerca di nuovo lavoro, con una conseguente forte flessione demografica di una città che da anni sta perdendo abitanti a causa della situazione occupazionale. Ma oramai è fatta.

“In tre anni – ha illustrato dentro l’esoscheletro del costruendo edificio l’ad Lorenzo Barbo – verranno creati mille posti di lavoro, con una retribuzione di 1780 € lordi mensili, più benefit aggiuntivi; in particolare daremo spazio al 35% di occupazione femminile, una quota molto più elevata della media del 22% del settore. All’interno di questo polo impiegheremo le più recenti tecnologie di robotica, e verrà sviluppato un ambiente di lavoro inclusivo, con annessa la mensa e un parcheggio con mille posti auto dotato di colonnine per la ricarica elettrica dei veicoli. Per Amazon il rapporto con il territorio, la transizione ecologica e la sicurezza sul lavoro sono coordinate prioritarie”. Infatti proprio l’estate scorsa, a 2 mesi dalla posa della prima pietra del cantiere, il 20 luglio qui alla Coppetella ha perso la vita Ciro Adinolfi, operaio specializzato di 75 anni che lavorava nel cantiere per conto di una ditta esterna, a seguito di un malore fatale dovuto al forte caldo di quelle giornate. Chissà poi se il lavoro sarà come quello annunciato dall’amministratore delegato, o come quello raccontato dal giornalista Andrea Rossi su La Stampa qualche mese fa? O se chi sta troppo in bagno verrà sanzionato? Tre anni fa, alla notizia dell’arrivo di Amazon, la politica “sparava” la notizia di qualche migliaio di posti di lavoro, ma ora i posti di lavoro sono stati ridimensionati a 1000 in tre anni. Ma nella “processione” istituzionale dentro al cantiere, il pourparler degli amministratori locali era perlopiù rivolto alle prossime elezioni amministrative del 9 giugno, che vedrà molti di loro ricandidati o meno, rieletti o meno.

Quello di cui non si è parlato, ma sono le questioni che più preoccupano gli abitanti del territorio è l’aumento del traffico pesante rispetto alla rete infrastrutturale già fortemente congestionata, compreso il casello A14 Ancona Nord, a pochi chilometri dal polo Amazon. Una rete stradale già ritenuta insufficiente rispetto all’aumento dei carichi di traffico pesante, e di quello veicolare, considerato che i mille nuovi occupati, non avranno alcuna alternativa per raggiungere il luogo di lavoro, se non l’automobile. Durante la visita al cantiere è stato fornito il dato di 18 camion all’ora in entrata e in uscita da Amazon. Una cifra comunque molto diversa da quella fornita due anni fa dall’amministrazione comunale jesina a guida Bacci, che parlava di 100 camion al giorno, perché quello illustrato il 28 marzo scorso alla Coppetella equivale invece a 432 camion giornalieri.

L’altro aspetto che preoccupa è quello del rincaro del mercato immobiliare, specie per le locazioni, a Jesi e paesi limitrofi. Una lievitazione dei canoni già iniziata all’arrivo delle centinaia di lavoratori delle ditte coinvolte nel cantiere, ma che aumenterà in vista dell’arrivo da fuori della nuova occupazione. Quello che sconcerta è che dalla politica marchigiana, in questi tre anni non si è levata una voce di perplessità sulle diverse “controindicazioni” dell’arrivo di Amazon. Neanche da sinistra, se non qualche mugugno dentro la maggioranza politica jesina, ma debitamente soffocato in nome della ‘ragion di stato’. Eppure, l’esperienza dello stabilimento di Castelguglielmo in provincia di Rovigo, aperto nel 2020, dovrebbe far sorgere qualche inquietudine, considerati i risvolti in tutto quel territorio dopo due anni e mezzo dall’apertura: l’aumento esponenziale del numero di precari che ha superato quello dei lavoratori con contratto stabile; contratti rinnovati di tre mesi in tre mesi, l’impiego di maestranze in lavori poco qualificati unito a un ricambio continuo di lavoratori; lì a cinque mesi dall’apertura, i lavoratori a somministrazione arrivati tramite agenzia interinale erano l’84% degli occupati, un anno dopo il 53%. Anche lì l’aumento del 30% del prezzo degli affitti, e la difficoltà a trovare alloggi a cifre abbordabili in tutta la provincia, in cui una stanza singola è arrivata a costare fino a 400 euro.

Da ricerche fatte, nelle aree di insediamento Amazon in Italia, il reddito medio è compreso tra i 14 e i 20mila euro, mentre nelle Marche, nel 2022 il reddito medio dichiarato è stato 21.345 euro. Quindi, come dimostrato in altre zone d’Italia, l’arrivo di Amazon con la tipologia di contratti che applica, porta a un impoverimento generale del territorio. Ma tutti a Jesi sperano che l’economia marchigiana, grazie ad Amazon, torni a correre. Sono già ora nella regione 600 le imprese presenti sullo store Amazon, con circa 30 milioni di euro di vendite all’estero nel 2023. La visione della politica rispetto a questa operazione, può essere riassunta in un passaggio dell’intervento del sindaco di Jesi (Pd), durante il sopralluogo sul cantiere: “Sono convinto che Amazon ci aiuterà ad immaginare il nostro territorio in modo diverso. La scelta di Jesi dimostra che siamo un territorio attrattivo, si realizzerà un’occupazione non solo quantitativa, ma qualitativa, attenta alla differenza di genere, e soprattutto dal forte valore sociale, perché per molti soggetti ai margini e svantaggiati, rappresenterà un ascensore sociale e la realizzazione di un’aspettativa di vita”. Una riflessione che stride non poco, pensando alla storia del lavoro e delle lotte dei lavoratori che per decenni hanno fatto di questo territorio un esempio in termini di diritti, di emancipazione, di fierezza nei confronti dei padroni e dei loro capitali, e che ha visto sindaci bloccare i binari delle ferrovia assieme agli operai durante storiche crisi aziendali. Si, perché poi in fondo, l’impatto più pesante di Amazon in questo territorio, non sarà tanto quello ambientale e paesaggistico, ma quello culturale. La vicenda di Jesi è la prova che la visione della classe dirigente per il futuro del lavoro dei prossimi decenni, non va oltre quella messa sul piatto da Amazon. Non emerge nessun altra riflessione, se non quella dell’impossibile riconversione di questi territori all’industria del turismo. In una regione che tra il 2020 e il 2021, in meno di due anni, ha visto 16.000 marchigiani under 35 trasferirsi definitivamente all’estero o in altre regioni: come se all’improvviso nelle Marche fosse sparita una città grande come Porto S.Giorgio; anche il dato del 2023 non è migliore o più rassicurante, rispetto al saldo migratorio generale, e non solo giovanile. E questa classe dirigente, sintomo allarmante, quasi da TSO, pensa davvero che l’approdo di Amazon frenerà l’emorragia demografica, o che il sogno dei propri figli e nipoti, per i quali magari hanno fatto sacrifici economici perché abbiano ottimi livelli formativi, sia quello di restare nelle Marche perché c’è Amazon.

Ad ascoltarli, e anche nel vederli in azione, questi personaggi che svolgono funzioni pubbliche importanti e delicate nelle istituzioni, non si può non pensare al titolo di un album di Giorgio Gaber, “Anche per oggi non si vola”. Ad voler essere generosi con loro, ma quasi offensivi con Giorgio Gaber.

https://comune-info.net/limpatto-culturale-di-amazon/

giovedì 18 aprile 2024

Cosa sono i santuari, le «fattorie vegane» finite sulla copertina di Internazionale

 

a cura di Michela Becchi

 

È il modello del futuro? Chiede l’autore dell'articolo pubblicato su Internazionale, la storia degli allevatori svizzeri che hanno scelto di smettere di uccidere gli animali. La risposta esiste già da tempo.


Esistono gli animali da compagnia e poi quelli da reddito. Tra questi ultimi, quei pochi che riescono a essere salvati da morte certa nei macelli, finiscono nei santuari: rifugi per animali senza scopo di lucro, dove una squadra di volontari si prende cura degli ospiti, anche attraverso il sostegno economico di tanti animalisti.

Cosa vuol dire fattorie vegane

In Italia esiste una Rete dei Santuari con una Carta di Valori che ne regolamenta il funzionamento: nessun animale deve essere sfruttato per alcuna prestazione (no cibo, no lana, no latte e così via), e ogni santuario deve impegnarsi a promuovere un approccio gentile nei confronti degli animali, aprendo le porte al pubblico. Dietro, ci sono un’associazione o un ente no profit, che non possono pagare per recuperare più ospiti (altrimenti, si alimenterebbe ancora la concezione dell'animale-oggetto da acquistare; quelli dei santuari sono animali fuggiti, salvati per caso o donati spontaneamente dagli allevamenti ai volontari).

 

Le regole sono diverse, si trovano tutte sul sito della Rete, e il numero dei santuari presenti in Italia cresce sempre di più. In ogni paese, però, le cose funzionano diversamente. A riportare l'attenzione sul tema in questi giorni è l’ultima copertina di Internazionale (12/18 aprile 2024), con l’articolo di Christof Gertsch di Das Magazin, Svizzera, intitolato «Nella nuova fattoria».

Tobias Burren, l'allevatore pentito in Svizzera

Il pezzo racconta la storia di Tobias Burren di Liebwil, nel cantone svizzero di Berna: la sua è una famiglia di vecchi allevatori che negli anni ha fatto tanti sacrifici, ma un giorno, mentre cullava il suo bambino, Tobias ha sentito una mucca piangere incessantemente perché separata dal piccolo, e da allora tutto è cambiato. Con sua moglie Christine, cuoca ed economista aziendale, ha scelto di diventare vegano e trasformare la sua fattoria, convertendola in una «fattoria vegana», ma non prima di aver finito di macellare tutto il bestiame «in eccesso».

D’ora in avanti, le mucche mangeranno l’erba dei pendii scoscesi e forniranno letame con cui Tobias produrrà il concime per i campi. Sarà un allevamento meno costoso ma non a costo zero: i Burren dovranno fare affidamento sui contributi di chi vorrà adottare a distanza un animale (proprio come accade nei santuari italiani e nel resto del mondo, Svizzera compresa).

 

Non si limiteranno ad accudire gli animali, ma produrranno alimenti vegetali. Coltivazioni di lenticchie e lupini dolcimais da polenta e tante preparazioni fatte in casa per deliziare i propri ospiti. Papà Ruedi non ha preso bene questo cambiamento: «Sembra assurdo anche a me usare metà dei cereali mondiali per dar da mangiare agli animali. Ma c’è davvero bisogno di scelte estreme come quella di Tobias? Non basterebbe mangiare tutti un po’ meno carne?».

L'agricoltura postletale che non uccide

Una domanda piuttosto comune in Svizzera, dove solo il 5% della popolazione segue una dieta vegetariana, meno dell’1% una vegana. Il format dei santuari è ancora tutto da scoprire: Stefan Mann è un esperto di economia agraria che ha coniato il termine agricoltura postletale, ovvero un’agricoltura che non uccide. È anche, però, rappresentante del consiglio di amministrazione di Agroscope, centro nazionale di ricerca del settore agricolo, e alla richiesta di intervista da parte del giornalista svizzero è stato piuttosto evasivo.

 

La lobby degli agricoltori contro le fattorie vegane

Dopo aver accettato, Mann ha annullato l'appuntamento «su consiglio dei miei superiori». L'intervista, alla fine, è stata fatta ma alla presenza di un’addetta stampa, un rappresentante di Agroscope e un Mann di pochissime parole. In sostanza, Agroscope non vuole rovinare i rapporti con i contadini «e la loro lobby nell’assemblea federale» spiega l’autore, considerando che l’istituto riceve circa 170 miliardi di franchi l’anno dallo stato.

Smettere di uccidere gli animali per Mann è sempre stato doveroso dal punto di vista etico, ma al giornalista ha dichiarato che tra le linee di ricerca dell’istituto oggi non esiste il concetto di agricoltura vegana. Eppure, si tratta di un tema scottante considerando che a livello globale «la biomassa del bestiame supera la biomassa di tutti gli esseri umani e di tutti gli animali selvatici messi insieme» spiega Gertsch. A quanto pare, siamo in piena era della carne.

I terreni svizzeri non adatti all'agricoltura a uso umano

Ma non sarebbe sufficiente, come ha detto il papà di Tobias, che tutti ne consumassero un po’ meno? Urs Niggli, a capo dell’istituto di ricerca per l’agricoltura biologica - e consulente di Agroscope - ha detto che in Svizzera circa metà dei terreni a uso agricolo sono inadatti alla coltivazione di prodotti vegetali a uso umano, «perché troppo ripidi, troppo sassosi o troppo argillosi»: per ricavarne grandi quantità, bisognerebbe destinarli al pascolo dei ruminanti (questo, però, è il panorama svizzero, diverso rispetto a molti altri paesi). Conclude dicendo che «dobbiamo ringraziare per ogni vegano e ogni agricoltura che si converte perché la carne è troppa, ma lasciare inutilizzati tutti i pascoli sarebbe assurdo» (ricordiamo, di nuovo, che è anche lui consulente di Agroscope).

Nessuno vuole salvare il mondo

Insomma, nessuno si prende la briga di rispondere in maniera chiara e decisa a questa domanda, scomoda da tanti punti di vista. C'è, però, chi nei santuari ci crede fino in fondo: sono persone che non hanno la presunzione di salvare il mondo «ma loro stessi». Ex allevatori pentiti (in Italia un caso simile è quello di Massimo Manni a Nerola, in provincia di Roma, con il Santuario Capra Libera Tutti) che «fanno quello che possono».

Le vecchie generazioni, come spesso accade, faticano a stare al passo, temono per gli affari di famiglia. Ma Tobias e Christine, così come tanti altri «fattori vegani» hanno preso la loro decisione e non torneranno indietro, a costo di doversi reinventare da capo e cominciare un nuovo lavoro. Perché sì, il futuro, è proprio questo.

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mercoledì 17 aprile 2024

Lunga vita al fossile - Luca Manes

Il G20 assicura una pioggia di sussidi pubblici alle fonti fossili: 142 miliardi di dollari in tre anni. L’Italia ne eroga più degli Usa

Il nuovo rapporto di Oil Change International e Friends of the Earth Stati Uniti, a cui ReCommon ha contribuito, rivela come fra il 2020 e il 2022 le istituzioni finanziarie pubbliche dei paesi del G20 e le banche multilaterali di sviluppo hanno concesso al comparto fossile sussidi per 142 miliardi di dollari.

Il dato proviene da documenti accessibili su database pubblici, integrati da quelli presenti su portali specializzati. Tuttavia, si riscontrano diverse limitazioni dovute alla mancanza di trasparenza delle istituzioni finanziarie e dei governi. Ciò significa che la cifra è, purtroppo, sottostimata. L’impiego di questa ingente somma di denaro pubblico per le fonti fossili sta attivamente ostacolando qualsiasi progresso verso una giusta transizione energetica e, più in generale, ecologica.

La maggioranza dei finanziamenti pubblici per i combustibili fossili è destinata al gas (estrazione, produzione, trasporto e stoccaggio), con circa il 54% del totale, mentre il 32% va a progetti misti di petrolio e gas.

La classifica dei paesi del G20 per sostegno pubblico all’industria estrattiva vede l’Italia tristemente al comando tra quelli europei. Il nostro Paese si posiziona al 5° posto a livello globale, scavalcando addirittura gli Stati Uniti, la Federazione russa e l’Arabia Saudita.

Sono le agenzie di credito all’esportazione a tirare le fila di questo esorbitante flusso di denaro destinato all’energia fossile: da queste è passato il 65% di tutto il supporto finanziario pubblico a petrolio e gas tra il 2020 e il 2022.

È per l’operatività della sua agenzia di credito all’esportazione che l’Italia è così in alto nella classifica dei paesi finanziatori di petrolio e gas. Controllata dal ministero dell’Economia e delle Finanze, fra il 2016 e il 2023 SACE ha emesso garanzie (assicurazioni sui progetti o garanzie sui prestiti per la realizzazione dei progetti) per il settore degli idrocarburi pari a 20 miliardi di euro, che rappresentano una fetta importante dei cosiddetti “sussidi ambientalmente dannosi” italiani. Una cifra che equivale quasi a una manovra finanziaria.

Questo avviene perché l’Italia, insieme a Stati Uniti, Germania, Giappone e Svizzera, non ha messo in atto serie politiche per porre fine al sostegno pubblico internazionale ai combustibili fossili entro il 31 dicembre 2022, venendo così meno all’accordo sottoscritto nel 2021 con la “Dichiarazione di Glasgow”.

«La scarsa attuazione della Dichiarazione di Glasgow consente all’Italia di sostenere con soldi pubblici progetti fossili almeno fino al 2028 e, grazie a diverse scappatoie, praticamente per sempre. Al centro di questo sostegno incondizionato c’è SACE», commenta Simone Ogno di ReCommon. «Con il calo costante della domanda di gas in Italia, è ora che il governo smetta di utilizzare la scusa della sicurezza energetica e implementi seriamente la Dichiarazione di Glasgow con una politica adeguata, altrimenti è chiaro che ci troviamo dinanzi all’ennesimo regalo alle multinazionali energetiche», conclude il campaigner.

Una delle poche note positive riscontrate da Oil Change International e Friends of the Earth Stati Uniti riguarda le politiche di esclusione del carbone, che hanno contribuito a eliminare quasi del tutto i finanziamenti pubblici internazionali per il più inquinante dei combustibili fossili. Il sostegno al carbone è sceso da una media annuale di 10 miliardi di dollari nel periodo 2017-2019 a 2 miliardi di dollari nel triennio successivo.

Inoltre, fra il 2020 e il 2022 all’energia pulita sono andati circa 34 miliardi di dollari all’anno. Si tratta della media annuale più alta per i finanziamenti pubblici alle energie pulite dal 2013 – primo anno di pubblicazione del rapporto, una cifra però ancora molto al di sotto di quanto servirebbe per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C.


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martedì 16 aprile 2024

Distruggere o creare. Due mondi in disputa - Raúl Zibechi

 

Hanno cominciato a costruire la loro università popolare nella quale saranno in tanti e tante a insegnare, ad esempio le levatrici e chi nelle comunità si occupa di salute, per proporre studi anticoloniali. Intanto hanno moltiplicato gli “orti medicinali”. Hanno soprattutto scelto di vivere un’agricoltura senza chimica orientata da principi e pratiche di sovranità alimentare. Tutti questi aspetti, in un angolo del mondo devastato dalle multinazionali dell’olio di palma e che non smette di pensare a Berta Cáceres, tante comunità boicottano ogni giorno la disperazione: non lo fanno pensando a come abbattere il capitalismo ma scoprendo che possono vivere relazioni sociali alternative, possono creare vita

“L’albero rimarrà al centro dell’edificio dell’università”, dice Miriam indicando con il braccio, sotto il sole cocente di mezzogiorno a Vallecito. A partire da quest’albero Victor prese tutte le misure dell’università per costruire un edificio rotondo in mattoni con tetto di tegole. “Sono tre anelli concentrici. Il più esterno avrà sale per i docenti e i giovani potranno lavorare e fare ricerca collaborando tra loro, per esempio alla costruzione di tamburi. Poi ci sono i diversi corridoi e nel punto in cui si trova l’albero ci sarà un cortile interno”. La costruzione dell’università Garifuna avanza per mano di una decina di uomini giovani guidati da Victor, il più anziano del gruppo di costruttori. Miriam racconta che la costruzione circolare fa sì che “le sale siano connesse e gli studenti possano transitarvi senza che ci sia una netta separazione. Tutto è relazionato. Vogliamo qualcosa di integrale, non parzializzato come quelle aree specialistiche che servono solo a guadagnare un sacco di soldi”.

La proposta è che l’università possa essere utile a tutto il popolo Garifuna e che gli studenti delle 48 comunità possano venire qui a studiare pur lavorando. Sarà aperta anche a membri di popolazioni indigene come i Miskito, perché la casa degli studi sarà partecipata e ovviamente anticoloniale, aperta sia nella struttura fisica che nel modo di funzionare.

A insegnare sarà la gente della nostra comunità che possiede le conoscenze più antiche; le levatrici, chi si occupa di salute, chi realizza tamburi, perché i giovani possano rafforzare la cultura del popolo Garifuna”, ribadisce Miriam.

Capitalismo, violenza e distruzione

Le piantagioni di palma da olio avanzano a passi da gigante in America Latina, portando con sé l’espulsione delle comunità dai loro territori, deforestazione, violenza e povertà. In Honduras si registrano circa 210 mila ettari di palma. L’espansione della palma è in atto su territori indigeni e afrodiscendenti, in particolare sulle comunità Garifuna e del Bajo Aguan. Queste comunità subiscono violenza, abusi e minacce da parte dei militari e dei gruppi paramilitari legati ai politici del paese”, racconta un testo della ONG ambientalista Grain1.

Vallecito è il ritratto vivente di quel breve racconto. Le monoculture non solo danneggiano l’ambiente ma distruggono anche il tessuto sociale. I giovani motociclisti che lavorano nelle coltivazioni di palma intorno alle comunità, nel tempo libero lavorano come guardie del corpo per gli “impresari” dediti al traffico, che gli assegnano i compiti più rischiosi.

L’espansione della palma da olio è inarrestabile. “Il consumo di olio di palma è aumentato negli ultimi trent’anni dal 2 per cento al 41 per cento della produzione totale di olio del mondo, sostituendosi alla soia come olio vegetale più consumato in assoluto”, spiega Grain. Allo stesso modo la superficie seminata è aumentata 3,5 volte con conseguenza l’estrema povertà e l’aumento della violenza.

In parallelo si assiste all’espansione delle Zone Speciali di Sviluppo Economico (ZEDE), che possiamo definire come stati dentro uno stato poiché sono dotate di un regime legale speciale che permette agli investitori di occuparsi della politica fiscale, di sicurezza e risoluzione dei conflitti2.

Come le monoculture e gli investimenti nel turismo, le ZEDE provocano trasferimenti forzati, perché il capitale finanziario che promuove questi progetti ha bisogno di controllare sempre più territori, in una guerra infinita contro i popoli che lascia tracce di morte e sparizioni, di emigrazione e sfollamento.

Esiste una politica di svuotamento delle nostre comunità che colpisce soprattutto i giovani, per consegnarli sconfitti al narcotraffico”, dicono le donne di Vallecito. Migrazione e comunità sommerse dalla droga sono secondo loro due facce dello stesso progetto di sterminio del popolo Garifuna e dell’insieme di popoli originari.

Resistere creando vita

La Casa Ceremonial o Gayunari, situata al centro della comunità Vallecito, è un’enorme costruzione di terra con tetto di palme che accoglie decine di persone che danzano al suono di tamburi e maracas. Sarebbe un errore confondere spiritualità e religiosità. Nelle religioni occidentali i fedeli sono meri destinatari delle idee e dei costumi promossi dai sacerdoti. Nella spiritualità Garifuna, al contrario, esiste una pluralità di soggetti che si relazionano senza la mediazione di un’autorità a indottrinarli o a dirigerne il culto. Si tratta di pratiche collettive che rafforzano l’identità comunitaria e contribuiscono alla salute fisica ed emotiva delle persone. “La spiritualità Garifuna non è un aspetto isolato nella dinamica di vita quotidiana, è legata a tutto quello che succede all’individuo, alla famiglia e alla comunità in generale. È un tutto”, spiega la psicologa Garifuna Tesla Quevedo in un articolo sulla spiritualità3.

 

Nella stessa direzione vanno le Casas de Salud Ancestral, considerate come un asse organizzatore del popolo Garifuna. Nove case sono operative e altre quattro stanno per aprire, però durante la pandemia operavano fino a 33 centri di salute, quasi uno per comunità.

Melissa Martínez racconta che convocano gli “abuelitos” per imparare da loro e disimparare i saperi inculcati dal sistema. “Recuperiamo le conoscenze ancestrali di erbe e piante, affrontiamo i problemi principali di salute come diabete, ipertensione e violenza domestica su bambini e bambine in base ai propri saperi, perché la pandemia ci ha mostrato che noi popoli abbiamo conoscenze che sono state negate dall’industria farmacetica “.

Miriam ricorda che i Garifuna sono “un popolo malato” e che “devono affrontare la salute in maniera integrale. Perciò stanno diversificando la produzione di alimenti, con il cocco come coltivazione centrale da cui estrarre olio nella loro fabbrica, che poi consegnano alle Casas de Salud e alle altre comunità, compresi i Miskito. Cercano di evitare le medicine industriali e stanno moltiplicando gli “orti medicinali”, a carico delle donne che sono il cardine delle cure comunitarie e della spiritualità. Hanno aperto anche club di danza nelle Casas de Salud, secondo la loro visione integrale del benessere.

Durante la visita abbiamo potuto osservare il pollaio, l’allevamento di maiali, le coltivazioni di yucca, fagioli, banane e anguria, che di solito vengono lavorati collettivamente. Alcune di queste iniziative, come la lavorazione dell’olio di cocco con metodi tradizionali, sono state comprate con il sostegno dell’OFRANEH (Organización Fraternal Negra Hondureña), per cui oggi arriva anche gente da altre comunità a lavorare per produrre l’olio.

“Produciamo l’olio con la spremitura a freddo, perché conservi le sue proprietà. Abbiamo 18 mila piante di cocco nei vivai che poi seminiamo. Non usiamo prodotti tossici, lo facciamo in giornate in cui compagni solidali che vengono ad aiutarci, abbiamo circa 115 manzanas di cocco coltivate. Una manzana è un po’ più di mezzo ettaro. L’idea è di arrivare a 500, e abbiamo una parte con banane e agrumi, oltre ai maiali, per arrivare ad avere una varietà di alimenti perché la questione del cibo diventerà insostenibile e ci servono alimenti per le 150 persone che mangiano qui”, continua Miriam.

 

Università per la vita

L’avvocato Garifuna Rony Castillo assicura che Vallecito “è un centro di identità, di sovranità alimentare e di spiritualità per la rinascita del nostro popolo”. L’università è parte di questa vasta realtà al centro dell’esistenza di Vallecito. Per questo popolo l’università è “la comunità intera” e non solo quello che accade in aula. Come la salute, anche l’educazione è integrale e comunitaria. In questo modo si stanno affermando nella loro resistenza al sistema, perché tutti questi aspetti fanno ri-scoprire che esistono alternative al capitalismo.

La questione dell’educazione genera dibattiti. “Lottiamo contro i maestri” dice Melissa. Miriam aggiunge:”Se non cambiamo, se non ci spogliamo di ciò che ci trasciniamo dietro, è finita, perché abbiamo raccolto un sacco di spazzatura dall’esterno”. Si tratta, dicono, di una “lotta che parte da dentro” in cui si gioca il destino del popolo Garifuna. Sono frasi che si possono ascoltare in molti popoli originari del nostro continente.

“L’educazione statale strappa e deforma i nostri figli”, dice il buyei (leader spirituale) Selvin nella penombra della sera. “Per questo uno dei nostri grandi problemi sono i maestri”. L’obiettivo è che i maestri Garifuna “insegnino secondo il piano di vita del nostro popolo”, che è il loro modo di “decolonizzare l’educazione”.

Sulla base della convergenza di salute e educazione proprie della spiritualità Garifuna, si vanno a creare proprio le autonomie territoriali che il sistema si impegna a smantellare.

La colla verde

Dopo che Miriam è stata vittima di diversi attentati, la comunità ha deciso di farla proteggere da cinque soldati dell’esercito hondureño, che la seguono come un’ombra. Una decisione polemica che genera perplessità in chi arriva dalla città. Tuttavia è stata una decisione collettiva perché il popolo Garifuna ancora non è in grado di proteggersi da solo.

L’importante è che Miriam e gli altri comuneros siano aperti al dibattito, riconoscono che si tratta di una contraddizione e iniziano a conoscere esperienze di autodifesa come la Guardia Indígena nasa del Cauca colombiano. Per noi è un’esigenza di rispetto perché non sono le nostre vite a essere in pericolo.

La complessa realtà e il terribile precedente dell’omicidio di Berta Cáceres, fanno sì che la “colla verde”, come la chiama Miriam, non sia motivo di orgoglio ma un promemoria delle azioni da compiere come popolo.


1 “La palma da olio in America Latina: monocultura e violenza”, 17 Marzo 2024 su https://desinformemonos.org/la-palma-de-aceite-en-america-latina-monocultivo-y-violencia/

2 Thelma Gómez, “C’è un piano genocida contro il popolo Garifuna”, Mongabay Latam, 13 Ottobre, su https://es.mongabay.com/2021/10/honduras-amenazas-pueblo-garifuna-entrevista-premio/

3 Tesla Quevedo, “Spiritualità Garifuna: una fonte di benessere”, su https://www.revistas.una.ac.cr/index.php/tdna/article/view/17430/25909

 

Pubblicato su desinformemonos.org. Traduzione per Comune di Leonora Marzullo. Nell’archivio di Comune tutti gli articoli di Raúl Zibechi sono leggibili qui

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lunedì 15 aprile 2024

SORVEGLIANZA SPECIALE A LAURA ZORZINI, ATTIVISTA NONVIOLENTA DI RIBELLIONE ANIMALE

 


Al centro, sulla destra, Laura Zorzini, attivista nonviolenta di Ribellione Animale.


Richiesta la sorveglianza speciale per Laura, attivista di Ribellione Animale che pratica da anni disobbedienza civile nonviolenta in difesa del clima e degli animali non umani. 

Udienza e presidio di solidarietà martedì 16 aprile alle ore 9.00 di mattina presso il tribunale di Trieste.

Laura Zorzini è un’attivista del movimento antispecista Ribellione Animale.

Ha 29 anni e sin dall’adolescenza è in prima linea per la giustizia climatica e per la Liberazione animale. Ha sempre praticato Resistenza civile attraverso metodi esclusivamente nonviolenti.

 Lo scorso sabato 30 marzo, su richiesta del questore della città, la Digos si è recata presso la sua abitazione a Trieste per consegnarle la comunicazione di sorveglianza speciale di pubblica sicurezza della durata di 2 anni.

Laura è quindi considerata una criminale dallo stato italiano, a tal punto da dover ricorrere al Codice Antimafia per impedire che possa continuare a battersi per i diritti degli animali amplificando la voce di tutti i miliardi di individui rinchiusi negli allevamenti, seviziati nei circhi e negli zoo, sgozzati nei mattatoi.

La notizia arriva in un contesto di repressione di ogni manifestazione del dissenso sempre più severa e iniqua da parte del Governo in carica. Una persona comune che si batte per il riconoscimento della dignità di ogni vita e porta avanti istanze costruttive rivolte alle istituzioni viene dipinta come “dedita alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo la sicurezza e la tranquillità pubblica”.

 

La sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, misura cautelare la cui legittimità costituzionale è stata e continua a venire messa in discussione da numerose giuriste autorevoli, è prevista dal Codice Antimafia per limitare la libertà personale dei “soggetti pericolosi con tenace propensione delittuosa”. Questo strumento preventivo comporta l’impossibilità di allontanarsi dalla propria dimora o dal proprio Comune di residenza, un coprifuoco notturno e/o diurno, l’obbligo di firma e il divieto di riunione in luogo pubblico. Tradotto nella realtà quotidiana, significa che, una volta convalidato il provvedimento, Laura non potrà più nemmeno incontrare i propri cari al parco e i suoi spostamenti, estremamente circoscritti, sarebbero costantemente controllati dalle forze dell’ordine. La sproporzione e l’assurdità della misura cautelare risultano ancora più evidenti mettendo in luce l’episodio da cui è scaturito l’avviso orale del questore: la pubblicazione sul profilo Instagram di Ribellione Animale di “video e foto nelle quali era intenta ad effettuare delle scritte con dei gessetti colorati sul selciato prospiciente l’ingresso del Municipio di Trieste, al fine di manifestare il suo dissenso nei confronti dell’uccisione degli animali a fini alimentari” (testuale citazione dagli atti processuali).

 

Di fronte all’accanimento repressivo nei suoi confronti, Laura Zorzini dichiara:
“Ho gli occhi pieni di orrore davanti alle immagini di animali morti, torturati, terrorizzati, traumatizzati da sofferenze atroci mentre giacciono prigionieri della nostra crudeltà e cupidigia, al freddo, dentro le gabbie degli allevamenti, appesi a testa in giù ai ganci dei macelli con il sangue che gocciola mentre esalano il loro ultimo respiro. Vedo gli spasmi d’angoscia delle madri a cui vengono strappati i cuccioli, mi scendono le lacrime mentre i figli si lacerano le gole chiamando incessantemente la protezione, il calore e il latte materni; famiglie dilaniate e smembrate in pezzi di carne da vendere al supermercato. Sono stata di recente davanti a un mattatoio: arrivavano i camion carichi di agnellini terrorizzati e uscivano celle frigorifere intrise della nostra brutalità. Credo che ciascuna di noi dovrebbe sentire l’odore acre di morte nelle proprie narici per poter risvegliare la propria coscienza e decidere di non essere più complice di un sistema specista basato sul predominio e sullo sfruttamento. Ho un rapporto intimo con il dolore, pervade il mio corpo che scelgo di far diventare uno strumento per denunciare le atrocità e l’ingiustizia del mondo che mi circonda. Sono qui per tracciare una linea netta in difesa della dignità e della vita degli animali non umani e per invitare tutte noi a riconoscere come abominevole e spaventosa la facilità con cui usiamo la violenza sulle altre specie, ergendoci a padroni del sangue che scorre nelle vene di corpi che non ci appartengono.”

Martedì 16 aprile alle ore 9.00 si terrà l’udienza presso il tribunale di Trieste, il quale accoglierà o respingerà la richiesta della sorveglianza speciale. In concomitanza, Ribellione Animale ha organizzato un presidio di solidarietà al quale è invitata a partecipare tutta la cittadinanza.

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sabato 13 aprile 2024

ISRAELE NON RILASCIA LA GIORNALISTA LA CUI BAMBINA MALATA DIPENDE SOLO DAL LATTE MATERNO

Rula Hassanein non riesce a nutrire la figlia nata prematuramente, in un aumento "spaventoso" delle donne palestinesi arrestate con l'accusa di incitamento



La giornalista palestinese Rula Hassanein, 29 anni, arrestata dalle forze israeliane il 19 marzo, con la figlioletta Elia

(articolo di Fayha Shalash – Middle East Eye – Ramallah, Palestina occupata)

Un tribunale israeliano ha rifiutato di rilasciare una giornalista palestinese la cui bambina, nata prematura, dipende per la nutrizione esclusivamente dal latte materno, ha dichiarato la sua famiglia a Middle East Eye.

Rula Hassanein, 29 anni, è stata arrestata il 19 marzo quando alcuni militari israeliani hanno fatto irruzione nella sua casa a sud di Betlemme, nella Cisgiordania occupata.

È stata accusata di incitamento sui social media, un’accusa che viene spesso rivolta ai palestinesi da quando è scoppiata la guerra a Gaza il 7 ottobre.

Un tribunale militare con sede nel complesso carcerario di Ofer, in Cisgiordania, ha rinviato per la terza volta la sessione del processo di Rula ed ha respinto le richieste di cauzione e di rilascio presentate dal suo avvocato. Il processo è ora fissato per lunedì.

L’anno scorso, Rula aveva dato alla luce due gemelli, Elia e Youssef, con due mesi di anticipo a causa di complicazioni di salute. Youssef è morto tre ore dopo.

Elia è rimasta in un’incubatrice per i primi 40 giorni di vita. Ora ha nove mesi e soffre di un sistema immunitario debole, che le ha provocato ulcere sui palmi delle mani, sui piedi e sulla bocca.

Quest’ultima le rende difficile nutrirsi, lasciandola dipendere esclusivamente dal latte materno della madre.

La mia bambina urlava e piangeva nella sua stanza dopo essersi svegliata per le voci dei soldati“, ha raccontato Shadi Brejiya, marito di Rula, a Middle East Eye.”

Brejiya ha raccontato che, al momento dell’irruzione nella loro casa, le truppe israeliane hanno ammanettato e bendato sua moglie, prima di trascinarla in un veicolo militare.

Rula ha chiesto di portare Elia con sé in prigione, spiegando agli ufficiali israeliani i problemi di salute della bambina, ma la sua richiesta è stata respinta.

Alcune ore dopo l’arresto, Elia ha iniziato a disidratarsi. Non ha assunto alcuna forma di alimentazione e i medici sono stati costretti a fornirle nutrimento per via endovenosa.

Le nostre vite si sono capovolte in un solo momento. Tutto è diventato desolante e la mia bambina piangeva e urlava davanti a me senza che potessi aiutarla“, ha detto Brejiya.

Israele ha respinto la richiesta di farmaci

Rula ha avuto le sue complicazioni di salute: nel 2017 le è stato diagnosticato un disturbo renale cronico.

Sua sorella Hadeelha spiegato a Middle East Eye che Rula soffre di una glomerulopatia a lesioni minime, che le impone di vedere un medico ogni quindici giorni e di sottoporsi a esami regolari.

Siamo riusciti a vederla durante il processo una settimana dopo il suo arresto. Era molto stanca e il suo volto mostrava stanchezza e mancanza di sonno e cibo“, ha detto Hadeel.

Ho cercato di salutarla con la mano, ma le guardie me lo hanno impedito e mi hanno respinto“.

Dopo essere stata inizialmente portata in un campo militare, Rula è stata trasferita nella famigerata prigione di Hasharon, nella Cisgiordania occupata, dove sono detenute le donne palestinesi.

La sorella ha raccontato che le autorità israeliane hanno respinto la richiesta di Rula di portare con sé medicinali vitali e l’hanno tenuta in condizioni pessime.

Nella cella non ci sono materassi o coperte e le viene fornito solo un pasto al giorno, freddo e poco cotto, ha detto Hadeel.

Rula è stata poi trasferita nella prigione di Damoun, dove le condizioni di detenzione e la mancanza di cibo sono simili.

Aumento ‘spaventoso’ delle donne arrestate

Negli ultimi mesi, Israele ha rapidamente aumentato gli arresti di donne palestinesi, tra cui giornaliste, avvocate e attiviste – molte delle quali sono madri – con la generica accusa di incitamento.

Secondo la Palestinian Prisoners Society (PPS), il numero delle detenute ha raggiunto le 74 unità dopo l’arresto della giornalista Asmaa Harish e di Khadra Hilal, madre di un palestinese ucciso, durante un raid all’alba di mercoledì a Ramallah.

Amani Sarahneh, la portavoce del PPS, ha dichiarato a MEE che il volume degli arresti dall’inizio della guerra a Gaza è stato ‘spaventoso’.

Ha detto che un tale numero di detenuti in un breve periodo di tempo non si registrava da decenni.

Il numero totale di prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane ha raggiunto i 9.100, di cui quasi 8.000 detenuti dal 7 ottobre.

L’accusa di incitamento è la più frequente che i detenuti palestinesi devono affrontare e, quando non viene provata, vengono trasferiti in detenzione amministrativa, soggetta a rinnovo“, ha dichiarato Amani.

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venerdì 12 aprile 2024

Il caffè protegge dalle malattie del fegato e da alcuni tipi di diabete - Gianpaolo Usai

 

Il caffè è la seconda bevanda più consumata al mondo dopo il tè (e dopo l’acqua ovviamente), su cui esiste un’ampia letteratura scientifica che attribuisce numerose proprietà salutistiche, incluse quelle di ridurre l’infiammazione epatica e lo sviluppo del Diabete tipo 2. Riducendo questi due fattori, si abbassa al contempo anche il rischio di contrarre diverse altre malattie dato che sia l’infiammazione del fegato che il diabete tipo 2 sono precursori di problemi ancora più gravi nell’organismo. 

Oltre la caffeina: cosa c’è dentro al caffè

Il segreto delle proprietà nutraceutiche del caffè non risiede però nella sostanza più conosciuta da tutti, la caffeina. I benefici della bevanda sono invece attribuiti ai numerosi composti vegetali antiossidanti e antinfiammatori presenti nel caffè come l’acido clorogenico, il cafestolo e il caveolo ai quali si riconoscono anche funzioni antitumorali. Al contrario, la caffeina, il principio attivo del caffè a livello del sistema nervoso, sembrerebbe incidere poco in tal senso, dal momento che anche chi beve caffè decaffeinato trae sostanzialmente gli stessi benefici di chi lo beve nella sua versione naturale. Tali evidenze sono state confermate anche da un recente studio nel Regno Unito che ha stabilito un collegamento tra il consumo di caffè e un fegato più sano.

In questa indagine scientifica i ricercatori si sono basati sui dati relativi a un vastissimo campione di 494 mila persone circa, raccolti nella Biobank, una grande indagine nazionale sulla salute della popolazione britannica. I partecipanti sono stati interrogati, tra gli altri, su quanto e quale caffè – decaffeinato, istantaneo, macinato o altro – consumassero. Gli individui sono stati seguiti mediamente per un decennio e i dati sulle abitudini legate al caffè sono stati incrociati con quelli concernenti l’insorgere o meno di malattie al fegato come la steatosi, il carcinoma del fegato, epatiti e cirrosi epatica. Gli studiosi hanno così stabilito che circa il 78% dei partecipanti consumasse mediamente due tazzine di caffè al giorno. Rispetto ai non bevitori di caffè, i bevitori di caffè avevano rischi ridotti rispettivamente del 21% di patologie croniche del fegato e del 49% di morire per malattie del fegato inclusi i tumori (epatocarcinoma). Ciò è stato rilevato indipendentemente dal tipo di caffè consumato, fosse esso solubile, macinato o decaffeinato. Questo studio non è di certo una voce isolata nella letteratura scientifica e anzi concorda con precedenti studi che generalmente riportano associazioni inverse tra consumo di caffè ed esiti di patologia cronica del fegato, inclusi gli enzimi epatici alteratifibrosicirrosi, e tumori al fegato. Effetti protettivi del caffè sono stati inoltre registrati in pazienti che avevano contratto un’epatite C di tipo virale.

Il consumo di caffè offre dunque un vasto effetto protettivo su diversi tipi di patologie. Via libera dunque a qualche tazzina al giorno di espresso o moka considerando che l’effetto protettivo di questa millenaria bevanda è stato accertato oltre che per il fegato anche per cervello, cuore e stomaco, in aggiunta alle proprietà di prevenzione dal rischio di diabete e cancro. Espresso, alla moka, americano, alla turca. Ognuno beve il caffè che preferisce e, contrariamente a quanto si possa pensare, l’italianissimo espresso non è nemmeno il più forte e concentrato in caffeina e altre sostanze antiossidanti, dal momento che una tazzina contiene mediamente 25-35 ml di caffè a fronte dei circa 50 ml di quello preparato in casa con la moka e dei circa 200-250 ml dei “bibitoni” in tazza grande in stile americano e tedesco.

Il caffè protegge anche dal Diabete di tipo 2

Consumare regolarmente tè e caffè può ridurre il rischio di contrarre il diabete di tipo 2. Lo attesta un recente studio giapponese che si aggiunge alla già ampia letteratura scientifica relativa all’efficacia degli antiossidanti presenti in queste bevande nel contrastare l’eccesso di glucosio nel sangue. In questo studio si è documentato un miglioramento significativo dei parametri della glicemia e dell’insulina dopo i pasti nelle persone che assumevano una bevanda apposita contenente alcune delle sostanze presenti nel caffè e nel tè.

L’effetto protettivo, in particolare, è stato attribuito dai ricercatori ad alcune sostanze specifiche caratterizzanti del caffè e del tè: le catechine (i polifenoli antiossidanti del tè) l’acido clorogenico (presente nel caffè) e la caffeina (presente nel caffè e anche nel tè sotto forma di teina).

E’ importante conoscere meglio queste sostanze, anche se in estrema sintesi, in quanto si tratta di preziosi alleati di salute che possiamo ritrovare (strategicamente e consapevolmente) anche in alcuni altri alimenti, oltre al caffè e al tè. Le catechine sono composti polifenolici, appartenenti alla categoria dei flavonoidi, che si trovano nel tè, nel cacao e nei frutti di bosco. Presenti soprattutto nel tè, in particolare in quello verde, le catechine esercitano una forte azione antiossidante contro i radicali liberi, riducendo il rischio non solo di diabete, ma anche di malattie cardiovascolari, epatiche e neurodegenerative. 

Appartiene alla famiglia dei polifenoli antiossidanti anche l’acido clorogenico presente nel caffè, nelle mele e nei frutti di bosco. Oltre che per la capacità di rallentare l’assorbimento di zucchero nel sangue, questa sostanza si distingue per spegnere l’infiammazione, elemento chiave per lo sviluppo di tutte le malattie croniche, diabete incluso.

Chi non dovrebbe bere o limitare il caffeina

Il caffè è invece controindicato in chi soffre di gastrite, ulcera peptica e dispepsia, per il suo effetto di stimolo sulla produzione di acido cloridrico. Inoltre, va evitato in presenza di aritmie, pressione alta non controllata farmacologicamente e tachicardia, perché può causare transitorie accelerazioni del battito cardiaco. Per la stessa ragione non è adatto agli ansiosi. Non dimentichiamo poi che, essendo uno stimolante, può peggiorare i sintomi dell’insonnia. Poiché la caffeina passa attraverso la placenta, il caffè va assolutamente evitato in gravidanza per i possibili effetti nocivi sul feto. 

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